Il dialogo iniziale di The Social Network tra Mark Zuckerberg e la sua ragazza Erica, fondamentale per comprendere il suo concetto di “relazione” che in-formerà questo singolare (falso?) biopic tratto dal fortunato ed esplicativo libro The Accidental Billionaires: Sex, Money, Betrayal and the Founding of Facebook di Ben Mezrich, è contrappuntato dalle note di Ball and Biscuit, con The White Stripes che cantano: «It's quite possible that I'm your third man, girl».

Il “terzo uomo”, nel testo, ha caratteristiche dalle origini oscure e misteriose, analogamente a quelle del (non) protagonista del film di Carol Reed, interpretato da Orson Welles, famoso per il suo Quarto potere. Infatti non ci sono notizie di Mark precedenti alla sua frequentazione presso l’università di Harvard. Il confronto verbale tra i due giovani diventa brusco e algido in poco tempo ed emerge l’egocentrismo di lui che rivolge scarsa attenzione alle parole (e alle emozioni/aspirazioni) di lei. L’incomunicabilità è palese e Erica decide di troncare il loro rapporto proponendo: «Meglio se restiamo amici». La pronta risposta dello scorbutico ragazzo è: «Non voglio amici», esplicita affermazione di a-socialità.

Dopo pochi minuti l’abile regia di David Fincher con rapidi contro-campi e una geometrica messinscena, la puntuale sceneggiatura di Aaron Sorkin (che sottolinea i punti di vista dei protagonisti) riescono a infondere il climax e il senso dell’intera opera. Verba volant nello script scandito da ritmi processuali, le red(court)room (aule meta-scolastiche e giudiziarie) in cui si decidono le sorti degli “attori” in campo esprimono non la forza del diritto ma il diritto della forza (economica) che si rivela in alterchi quotidiani, “sche(r)matiche” esibizioni. Lo spettatore assiste (quasi inconsapevole) a una rivoluzione annunciata, esplicitamente e (in)felicemente “programma-tica”. Il tempo della pellicola (e del cambiamento in digitale) scorre costantemente in fieri. Non ci può essere mutamento senza movimento. Mark è un corpo (e un cervello) in perenne dinamismo. Egli per-corre (sin dai titoli di testa) le strade di Cambridge (e poi del mondo virtuale), dis-corre sulle teorie (e gli sviluppi) dei suoi brillanti colleghi, ri-corre alle vie legali e infine pre-corre l’invenzione dei social media attuali.

Fincher aveva concluso il Novecento con Fight Club, apre il nuovo millennio con un "Fuck Club" che sembra essere Facematch/Facebook nei piani originali: schedare e valutare le studentesse più attraenti ergo "scopabili". Il fine dichiarato del suo creatore (e quello del coetaneo genio della tastiera Sean Parker, fondatore di Napster, estimatore delle vetrine di Victoria’s Secret) è “possedere” la donna (una gallina nella "fattoria degli animali" fantasticata da Orwell) vagheggiata per semplice brama di conquista e/o rivalsa se rifiutato. Il biglietto da visita di Zuckerberg mostra «I’m CEO, Bitch», una chiara dichiarazione d’intenti.

L’essere è avere (Fromm l’aveva intuito alle prime crepe del Capitale) nella nuova identità della società dei consumi che non prevede più l’accumulazione dei beni ma la smaterializzazione di essi in modalità digitale. Le nostre visioni (oniriche e intangibili) puntano alla realizzazione virtuale. L’avere è mutante e non si riferisce più a cose fisse e descrivibili ma si sovrappone all’essere in un’esperienza social(e) che non è de-finita in quanto contiene smisurate opzioni e variabili, anche temporali. Non esistono passato e futuro ma vi è un eterno presente (hic et nunc). Il grande “schermo” dell’immagin-azione si ridimensiona e viaggia in “rete”, una fluida struttura orizzontale e (in)visibilmente non verticistica, che si (auto) alimenta di bit emotivi e di pseudoscienza.

Il cinema pre-conizza questa esperienza essendo “fabbrica dei sogni” per antonomasia, gioca sull’orlo dell’abisso (The Game, il manifesto “iperreale” di Fincher) ed è gioco collettivo destinato ad estasiati adepti (Molly’s Game, il primo lungometraggio da regista di Sorkin). La gente vuole un sito/sala, un luogo di desideri da condividere con i propri “simili”. Il network/popolo social(ista) scopre di avere (dis)uguali ambizioni. La rivoluzione come (dis)soluzione finale è servita: addio al linguaggio (il neologistico «Ci facebookiamo?» resetta ogni approccio interlocutorio) e alle idee che camminano («in Bosnia non ci sono strade ma c’è Facebook»). La cronaca odierna racconta che Facebook manipola i nostri dati e se ne serve per scopi di marketing politico, ri-elabora il termine privacy e il significato di “libertà di espressione”. Dopo 10 anni dal film, Sorkin dice: «Facebook non sta difendendo la libertà di parola, fondamento cardine della nostra democrazia, ma sta assaltando la verità. Ci sono folli bugie in questo grande bacino mediatico che corrompono le decisioni più importanti che prendiamo e hanno un effetto estremamente reale e incredibilmente pericoloso sulle nostre elezioni, sulle nostre vite e su quelle dei nostri figli».

E mentre i social media spalancano le porte a infiniti scenari, il cinema chiude il cerchio su scrittura, artificio e potere con l’iconica sequenza di Zuckerberg che sorride, in solitudine, davanti a un pc (non più vestito da nerd ma con un “colletto bianco”) e richiede l’amicizia a Erica, sua ex-girlfriend (presente su quel medium che tanto aveva maledetto) come Charles Foster Kane richiamava alla memoria Rosebud, il primo amore (una slitta, una “cosa” con un nome femminile).

«Baby, You're a Rich Man» cantano i Beatles nei titoli di coda. Citizen Mark/Mank è tornato nell’ultimo spettacolo di Fincher, ma questa è un’altra (la stessa?) storia.

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