«Le temps vu à travers l’image est un temps perdu de vue. L’être et le temps sont bien différents.
L’image scintille éternelle, quand elle a dépassé l’être et le temps» (René Char, Feuillets d’Hypnos).

Ci sono rivoluzioni che ti vengono incontro, dopo aver compiuto giri siderali, rovesciando il tempo, tornando da dove erano nascoste, occhieggiando: quando «Uzak», questa rivista dissidente, libera, non esisteva che in forma di seme, gettato non ancora consapevolmente sulla terra delle colline murgiane, e ruotava intorno a quel teatro che già nel nome portava l’idea della rivoluzione cosmica, che si effondeva su teste incendiarie, incendiate, mi era stato chiesto per la prima volta di scrivere di cinema.

Cercavo di acquisirne il linguaggio, intuivo tensioni altre di rapporto con le cose, tra gli uomini, subivo il fascino dei movimenti della luce, dell’abbaglio, degli spazi muti, la spinta alla ricerca di ciò che rimaneva al di fuori o al di là dei referenti immediati del campo: Hou Hsiao-Hsien e il suo mambo di corpi squilibrati nell’oscillazione dei neon, l’imprimersi della pellicola nelle pupille, cicatrici aperte, sangue riversato sul bianco delle lenzuola, di Chéreau; il modo lirico e tragico del languire delle acque di Angelopoulos, quei finali di danza tra l’eternità e il giorno, e un giorno. Leggevo avidamente le riviste, guardavo scorrere le scene in modo differente, cercavo di vedere, aprendomi dei varchi lì dove si sottraevano i significati, quando le distanze restavano tali e invischiate nel loro segreto più intimo erano lasciate, come abbandonate, le parole. Immagini e immagini nel mio andirivieni tra la stazione e l’Ateneo, poi da piazza Umberto al viale dove mi si apriva un mondo: la Feltrinelli profumava di pagine e fiamme e tutto era imbevuto di letteratura, di poesia – appunti a margine, a matita, mentre avevo dirompente ancora Dino Campana nella pelle, fin dentro le ossa.

Leggo Scarpellini, Il tempo sospeso delle immagini, un ponte lega quei giorni a questi: «L’immagine è la risposta del desiderio all’assenza: ci raggiunge attraverso il tempo squarciando il sipario della morte per arrivare fino a noi come la luce di una stella morta», e allora quelle immagini di allora mostrano la loro luce sopravvissuta, riaccendono il bagliore del fuoco delle stelle, riprendono a vorticare nella ciclicità universale; tornano alla mente i campi innevati, i passi solitari nelle profondità di campo, la solitudine cupa, la lontananza divenuta senso, odore, di quel Uzak di Nuri Bilge Ceylan che, in sintonia con Tarkovskij, si persuadeva dell’impossibilità di conoscere, comprendere la realtà. E noi, questo «Uzak» per cui si scrive, si vive, è pure l’altra faccia della luna: è ritorno (o partenza) verso (oppure da) un porto, quello lontano della memoria, a unire i fili: come allora recensendo Kim Ki Duk, ora si torna a Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera, che batte il tempo della nostra rivista, da dieci anni. Come se fossimo improvvisamente nel mezzo della rivoluzione, di quel «[…] gioco del punto cieco della visione, la metà dei 360 gradi, il punto zero, cioè il semicerchio, in cui l’immagine si perde e diventa invisibile […] metafora di un possibile verosimile», scriveva Edoardo Bruno sul n. 551/552 di «Filmcritica», in un articolo dal titolo Nell’astrazione mentale in cui dissertava di Ferro 3- La casa vuota, e di simboli, sospensioni, strutture paraboliche: che non concludono, scardinando l’ordine, destabilizzando i segni.

E ci sono rivoluzioni che ti urtano contro, rompendo le retine, naufragando negli occhi liquidi: come quella di un pomeriggio di qualche anno fa, dopo aver ripercorso quasi le stesse strade, alle spalle sbuffi di treni, un’agenda e una penna in borsa, blu – ché anche il blu era un tornare al grado zero del possibile – andando, a ritroso sebbene fossero trascorsi anni e anni, in una sorta di ricongiungimento dei poli opposti, dopo giri planetari, alla vertigine dello sguardo, e da quello alla poetica del desiderio di Les rencontres d’après minuit: invertendo di segno quella reciprocità di sguardi poiché vedere è anche essere visti, è anche vedersi e rivedersi, lasciare zone d’ombra, fino a sottrarsi persino anche alla vista, negare la visione. Così nell’occhio in marcescenza che tagliava il buio della sala si decomponeva strutturalmente la luce, passava propagandosi su pezzi nudi di pelle – busti spezzati, volti reclinati a perdersi, fantasmi – tutta una semantica delle particelle luminose, un’idea di cinema come propagazione della vista, risemantizzazione dell’immagine che filtrava dalla continua destrutturazione della stessa. E non era (non è) questa duplicità, circolarità della visione, essa stessa rivoluzione? Non era quell’ambivalenza dello sguardo nel buio scintillante della sala oscurata la riappropriazione di ciò che sfuggiva per propria natura, rivoluzione? Non significava questo r-esistere, opporsi al fluire cronovoro delle cose, questo esistere di nuovo, sebbene tutto apparisse (e appaia sempre di più) spingere in direzione contraria – verso l’appiattimento, l’omologazione, la semplificazione dei punti di vista – atto reazionario, eversivo? Non era (e non è) la forza del cinema (e della poesia) un’esasperazione del guardare, che è potenza visiva, e visionaria, restituita alla coscienza, alla conoscenza? E questo prendere atto dello stato delle cose mediante la rivoluzione delle immagini, la scrittura critica che ne prolifera i significati, amplificandone il flusso, non è esso stesso, pure, creazione, rivoluzione?

Ma allora, citando Jim Morrison, «[…] come possiamo odiare o amare o giudicare / in un mondo che è un mare di atomi sciamanti / Tutt’uno, un Tutto / Come possiamo stare o non stare al gioco / Come possiamo mettere un piede avanti all’altro / o far la rivoluzione o scrivere»: soprattutto adesso che si stenta a trovare una strada da percorrere, ora che appare inutile persino scrivere se scrivere non aiuta a vivere…Ma rivoluzioni ancora, che confluiscono in altre rivoluzioni, come in certe mattine d’agosto, andando con la luce negli occhi verso l’estasi che dà l’ignoto, come bambini che non hanno mai visto il mare: ma questa è un’altra storia. Si fa la rivoluzione e si scrive.

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