Cinema e rivoluzione. L'associazione sotto un certo punto di vista è pleonastica perché, al netto d'ogni pur legittimo e interessantissimo discorso d'ordine tematico, stilistico, ideologico o politico, il cinema è rivoluzione, anzi, insieme alla scoperta della scrittura e a quella del digitale, è una delle tre rivoluzioni culturali che più profondamente hanno influito nel riplasmare tutto il quadro cognitivo e percettivo delle umane genti, finendo col soppiantare la realtà nella sua funzione di referente veritativo, solo unico e possibile, in molti aspetti della nostra esperienza.

Il Superamento Del Reale

«I nostri nervi si logorano e si indeboliscono ogni giorno di più, ne perdiamo sempre più il controllo e sempre meno reagiscono alle 'semplici impressioni dell'essere' e con sempre maggiore avidità agognano nuove, penetranti, inusuali, appassionanti, strane impressioni. Il cinematografo gliele fornisce, e i nervi da un lato diventano più raffinati, dall'altro più ottusi».1M. Gor′kij, Kinematograf Ljumiera [Il Cinematografo di Lumière], 1896, in Sobranie sočinenij (Opere scelte), 23° vol.,  Moskva, 1953

Maksim Gor′kij già nel 1896 tuonava contro la minaccia di un cinematografo in grado di soppiantare il reale fenomenico per la maggior capacità di suggestione che esercitava sui nostri «nervi» (la sfera della nostra percezione sensoriale e della cognitività che ne deriva), e con prodigioso senso profetico anticipava di cento e passa anni quella che sarebbe stata la condizione “abituale” e attuale ai giorni nostri.

Un paio di secoli in cui lo statuto di relazione tra cinema inteso nel senso lasco del termine, che comprende tutte le forme di rappresentazione audiovisiva del mondo reale fenomenico, e le «penetranti, inusuali, appassionanti, strane impressioni» che promanano dallo schermo è andato strutturandosi sempre più nella direzione presagita dal Nobel Russo, per cui oggi possiamo tranquillamente parlare di un avvenuto “superamento” della realtà da parte del cinema, che non solo è diventato componente integrante, e predominante, del repertorio cognitivo e sensibile rientrante nella nostra idea di mondo, di reale esistente, ma che ha addirittura sostituito, con i suoi stimoli sensoriali artificiali e tecnologicamente mediati, quelli provenienti dalla realtà nella valutazione dell'esperienza umana su più livelli.

Il mondo per come oggi ce lo rappresentiamo è solo in parte corrispondente al “calco” che ne ricaviamo esplorandolo in prima persona con i nostri organi di senso, mentre in misura ben più ampia di quanto si possa credere è prodotto dall'elaborazione di stimoli, immagini, suoni, configurazioni dell'esistente o dell'immaginario fornite dal cinema nel suo perenne tentativo di rappresentare (quindi non di restituire in maniera fedele) il suddetto mondo. La prima conseguenza importante che ne deriva è che, ovviamente, questa forma del giudizio sull'esistente, poiché non istituisce una relazione diretta con questo, ma con una sua rappresentazione finzionale, risulti in parte falsificato, non del tutto corrispondente all'oggetto supposto del proprio giudicare, che si crede essere sempre e comunque il mondo reale.


La Nuova Soggettività

«Questo flusso di immagini, di sentimenti, di emozioni costituisce una corrente di coscienza surrogata […] che si adatta e adatta a sé il dinamismo cenestesico, affettivo e mentale dello spettatore. È come se il film svolgesse una nuova soggettività, trascinando quella dello spettatore.2E. Morin, Le Cinéma ou l'homme imaginaire, 1956 [Tr. it. Il cinema o l’uomo immaginario], Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 110-111

L'intuizione di Morin, che pure l'aveva formulata nell'assenza delle avanzate nozioni di cui oggi possiamo avvalerci nel campo dei processi cognitivi con cui riceviamo e decrittiamo il messaggio audiovisivo, coglieva con precisione alcuni aspetti della questione. Rispetto alla condizione attuale è del tutto calzante quella definizione di «nuova soggettività» che lui conia per indicare il fatto che il repertorio di stimoli sensoriali e cognizioni indotte dal cinema sono del tutto in grado di fornire convincenti surrogati di tutto quel complesso reticolo di impressioni visive e uditive, di variazioni emozionali, di percezioni spaziali, propriocettive e cinetiche che messe insieme definiscono l'individuo, il suo essere “soggetto”.

Una nuova forma di consapevolezza sensoriale dell'esistente mediata tecnologicamente dal dispositivo cinematografico e compromessa con l'idea di rappresentazione. E d'altronde, come Morin sottolinea, la capacità di aderenza di questa soggettività filmicamente indotta ai processi naturali della nostra cognizione sensoriale è tale da investirci su più livelli, quello  «affettivo e mentale», come è ovvio che sia, che inerisce al livello dei surrogati emozionali e concettuali forniti dal cinema, ma addirittura su quello «cenestesico», quello relativo, cioè alla percezione generale del nostro stato che elaboriamo a partire dalla somma delle nostre sensazioni esterne (tattili) e interne (connesse all'apparato viscero-motorio). Questo poi non vuol dire , ovviamente, che oggi non si sia in grado di discriminare tra esperienza reale ed esperienza finzionale-filmica, che come vedremo sono percepite come esperienze differenti sul piano personale, ma che i dati percettivi forniti dall'una e dall'altra siano ormai perfettamente fungibili, questo sì, intercambiabili nel fornirci un repertorio di esperienze del mondo alternativo ed equivalente.

Un Repertorio cognitivo espanso: dall'immaginare al percepire

Due diverse soggettività-apprensioni del mondo, l'una confinata entro i limiti fisici e cognitivi della nostra realtà oggettiva (gli stimoli e le esperienze che effettivamente esperiamo nella realtà) e l'altro esteso a tutto quell'infinito serbatoio di situazioni, di stimoli visivi e sonori, di percezioni e sensazioni non nostre che è il Cinema. Oggi, per esempio, siamo tutti in grado di descrivere che rumore fa un treno perché ne abbiamo ascoltati molti durante la nostra esperienza diretta della realtà, secondo il modello conoscitivo tradizionale, ma con uguale certezza sappiamo dire che rumore emettono una spada laser o una navicella interstellare in fase di atterraggio, considerando anche questi come suoni esistenti e di cui abbiamo avuto esperienza, nonostante sia palese che il referente veritativo attraverso cui certifichiamo questa loro esistenza e identità non può essere la realtà esistente. E ci sembra normale.

L'alterazione del quadro sensibile operata dal cinema ha effetti ormai così profondamente radicati e stabili da farci sembrare normale che a mediare certi aspetti della nostra relazione con l'esistente non sia la nostra interazione diretta e personale con questo esistente, ma una sua rappresentazione smaterializzata e tecnologicamente riproducibile, quella audiovisiva, che per di più sappiamo essere intenzionalmente ordita da altri esseri umani, registi, sceneggiatori, montatori, autori. Il cinema, l'audiovisivo in generale, sono rivoluzionari per il semplice fatto di aver trovato una forma concreta, sensorialmente percepibile, per l'immaginario, per tutto ciò che prima era confinato nell'impalpabile dimensione della fantasticheria e dell'immaginazione. Si tratta di un passaggio epocale tra una “tecnologia” mentale, tradizionale, e una nuova, che comporta un ripensamento di tutta quell'attività del pensiero che chiamiamo “l'immaginare”.

Dalla Terra Alla Luna di Jules Verne è del 1865 mentre Voyage Dans La Lune di Méliès è del 1902; entrambe le opere insistono su un simile immaginario del meraviglioso e puntano a suscitare “l'immaginazione” e lo stupore dello spettatore-lettore. Ad essere profondamente diversa, però è la maniera con cui volevano generare questa meraviglia, la “tecnologia” immaginativa che richiedevano al loro fruitore. La meraviglia del lettore di Vernes ha per oggetto le “immagini mentali” che egli stesso si è auto indotto attraverso un processo immaginativo e figurale innescato dalle parole che legge (e che Vernes ha scritto per descrivere le fantasiose immagini mentali che a sua volta si era autoindotto per via immaginativa) ed è l'esercizio stesso di questa immaginatività, il piacere del fantasticare, a costituire la ragione principale di piacere dell'opera.

Lo spettatore di Méliès, invece non ha bisogno di prodursi delle immagini mentali ulteriori, perché sullo schermo vede già belle e concretizzate quelle del regista, ma resta impressionato dalle loro concrete qualità percettive, dai loro colori ultramondani e dal fatto stesso che fossero colorate in epoca in cui la natura delle immagini fotochimiche era acromatica, dal fatto sorprendente di poter vedere che forma ha un “razzo spaziale” e ancor di più dal poterlo vedere sfrecciare tra i cieli interplanetari sino a conficcarsi in un occhio della luna. Un “Homus Precinematograficus” sette-ottocentesco, di fronte al concetto di navicella intergalattica, dovendone farsene un'idea in assenza di referenti sensoriali su cui modellarne la rappresentazione, avrebbe al massimo potuto provare a immaginare, basandosi unicamente sulla propria fantasia, quali potessero essere il loro aspetto o il suono che emettevano. Tutt'al più se il volume era di quelli illustrati poteva farsene un'idea visiva attraverso il disegno, che comunque sarebbe stato il frutto graficamente tradotto dell'immaginatività di qualcun altro, l'illustratore. A livello di esperienza personale ad essere implicate sono le sole facoltà immaginative, mentre latita la cooperazione delle facoltà percettive, che non forniscono alcun tipo di informazione circa l'oggetto.

Completamente diversa è la situazione dell'uomo post-cinematografico che può concretamente vedere quelle immagini e ascoltare quei suoni e quindi fare della navicella intergalattica o della spada laser una esperienza sensoriale in prima persona non diversa - qualitativamente parlando - da quella che fa degli stimoli provenienti dal mondo reale. Non dobbiamo più “immaginare”, perché tutto, nell'audiovisione del mondo, è “a portata di sensi”, della vista, del nostro udito, ma non ci è più così necessario come prima neanche “percepire”, o quanto meno il farlo nella forma diretta e non mediata del contatto in prima persona tra noi e l'oggetto del nostro percepire, perché il cinema è in grado di fornirci delle percezioni alternative già bell'e pronte all'uso e dotate di un alto grado di credibilità, perché a livello neurale non sono differenziabili dagli stimoli reali, come gli studi in campo cognitivo hanno dimostrato in modo incontrovertibile.

Una dinamica Cerebrale

Tutti gli studi nel campo della cognizione incarnata, in cui si siano comparate le attivazioni delle aree cerebrali in risposta agli stimoli filmati e a quelli “in presenza”, infatti, dimostrano che la risposta è identica sul piano “qualitativo”, cioè che l'una e l'altra esperienza attivano le medesime aree cerebrali, e che la sola differenza si possa registrare sul piano “quantitativo” di una attivazione meno intensa, di una minore eccitazione elettrica dei neuroni, durante la visione degli stimoli filmati. Il meccanismo della simulazione incarnata, ormai descritto da una copiosissima letteratura, prevede che l'osservazione delle azioni altrui e delle altrui espressioni emozionali sia visive che sonore attivi in chi osserva una parte, quella costituita dai cosiddetti neuroni specchio, di quelle medesime aree cerebrali motorie che si attivano quando siamo noi in prima persona a compiere quei gesti o provare quelle emozioni.

E questo meccanismo si è visto funzionare sia a partire dalla visione di soggetti in presenza sia a partire dall'osservazione di filmati che ritraevano attori che simulavano le suddette espressioni. L'osservazione della faccia disgustata di qualcuno, solo per riportare un esempio pratico, attiva le popolazioni di neuroni specchio allocate nell'insula anteriore e nell'opercolo frontale, le aree cerebrali normalmente reclutate durante l'esperienza attiva in prima persona di questa sensazione, sia che la si osservi “in presenza”, sul volto di qualcuno vicino a noi, sia che ci venga presentata in video attraverso un filmato, con la sola differenza che l'intensità di questa attivazione, il grado di eccitazione dei neuroni specchio, nel caso del video, sarà meno intensa. Secondo l'accreditato orientamento sostenuto da Vittorio Gallese, inoltre,  la differente intensità elettrica della risposta neurale generata dagli stimoli filmati non è parametro idoneo o sufficiente per consentire al nostro cervello di discriminare tra natura reale e finzionale di uno stimolo.

Gli stimoli filmici per il nostro sistema corpo-cervello “sono come” quelli reali, li trattiamo, li processiamo e li interpretiamo nello stesso modo.
Lo spettatore, vuoi per via del coinvolgimento attenzionale ed emotivo che il film genera, vuoi per il fatto di trovarsi di fronte a un repertorio di immagini e suoni che il suo encefalo non distingue qualitativamente da quelli reali tende, se non proprio a perdere coscienza della natura tecnologica e artificiale degli stimoli visivi e uditivi che gli si presentano sullo schermo, quanto meno a sospenderla temporaneamente, almeno per tutta la durata di visione. Michele Guerra dell'Università di Parma parla di una vera e propria «inconsapevolezza del medium» che rende l'esperienza di realtà sperimentata attraverso il film «trasparente e unificata, dissimulandone la forte componente mediale e la natura frammentaria» che quindi si avvicina molto a una «modellizzazione del nostro stato cosciente».3M. Guerra, L’apparizione di un mondo, in Fata Morgana n°31, Pellegrini, 2017, p. 216.

Un'approssimazione al mondo reale talmente “convincente” da produrre, sul piano dell'esperienza personale, sensazioni corporee, percezioni, stati emozionali, pensieri e perfino volontà proiettate o perfino simulate non diverse sul piano qualitativo da quelle che suscita l'esperienza di realtà.
Con questo poi non si vuole dire che durante l'esperienza di visione qualunque legame di consapevolezza con la realtà sensibile vada smarrito, e con esso la consapevolezza della distinzione finzione-realtà. La sala, le altre persone, il fatto che si stia assistendo a una proiezione, ci restano ben presenti, ma certamente è lecito sostenere che la forza persuasiva del repertorio sensibile presentato dal cinema metta lo spettatore in una peculiare condizione di ubiquità, che lo vede presente simultaneamente in due “mondi”, due diversi ordini di realtà, quello cui appartiene per nascita e quello posto in essere dal film, che almeno temporaneamente acquistano pari pregnanza d'esistente.

Questa condizione è quella ben descritta dal neologismo “cinestethic subject ”, “soggetto cinestesico”, coniato da Vivian Sobchack ibridando le parole cinema, sinestesia e cenestesia. Chiamando in causa il concetto di sinestesia Sobchack intende alludere al fatto che l'esperienza filmica coinvolge i nostri sensi in modalità crossmodale, perché recluta sia la vista che l'udito, come sfere sensoriali prioritarie, ma comporta anche l'elaborazione di una consapevolezza spaziale e di una forma ridotta di conoscenza “tattile”. L'elaborazione di una dimensione e di informazioni coerenti sulla spazialità ci provengono sia dall'osservazione delle relazioni spaziali e dei movimenti dei vari elementi dell'inquadratura, dei personaggi rispetto agli ambienti e quelli reciproci tra di loro, sia dai movimenti di macchina, che vengono vissuti come movimenti “nostri” che attraversano uno spazio esistente, per via della famosa “identificazione primaria”, quella con la mdp, ed è proprio attraverso questi spostamenti che ci formiamo un'idea, una “mappa mentale” di questo spazio, come fosse esistente.

Come accennavo, poi, il film è in grado di fornire allo spettatore una forma relativa di cognitività tattile, perché è sempre possibile, almeno in parte, farsi un'idea di qualità tattili come il peso e la massa di un corpo, dei suoi volumi e forme, del tipo di superfici lisce o ruvide che ha, del  materiale di cui è fatto, grazie all'integrazione reciproca di specifici indici visivi e sonori. Il rumore dei passi di un corpo ci dice molto per via inferenziale su quanto quel corpo sia grande e pesante (pensate al rumore dei passi di Godzilla o dei cazzottoni di Bud Spencer), certi suoni ci risultano essere “legnosi”, o “metallici”, ecc., dandoci l'informazione tattile sulle caratteristiche materiche dell'oggetto, oppure il suono può dirci se un oggetto ha consistenza molle o rigida. Sul piano del visivo gli indici di luminosità e i chiaroscuri delle superfici possono indicarci visivamente la presenza di volumi o asperità, di crepature, rughe o pori che essendo incavi risulteranno meno esposti alla luce, mentre a seconda di come le superfici la riflettono o assorbono possiamo capire se sono lisce o ruvide, riflettenti o porose, eccetera, tutte informazioni ottenute per via visiva o uditiva, che però ci danno lo stesso tipo di saperi sull'oggetto che otterremmo toccandolo, soppesandolo e manipolandolo.

L'altro termine chiamato in causa dal cinestethic subject  sobchackiano, come abbiamo detto, è la “cenestesia” , ovvero quel tipo di consapevolezza e di rappresentazione di noi che elaboriamo a partire dalle inconsce informazioni provenienti dai nostri organi somatici e viscerali, come a ribadire che il rapporto con il film si instaura, molto prima che a livello della razionalità cosciente e delle facoltà di intendimento verbali, sul piano “basico” dell'apprensione somato-sensoriale e delle risposte di livello somato-viscerale che questa innesca.
Secondo la prospettiva di  Vivian Sobchack, dunque il film “aggancia” i nostri sensi e la nostra consapevolezza secondo modalità cross modali-multi sensoriali e a un livello di consapevolezza “elementare”, pre-verbale e pre-razionale, quello della cognizione incarnata, che in fondo - e qui aggiungo del mio rispetto allo stretto dettato  Sobchackiano - sono le stesse modalità di apprensione e ingaggio che abbiamo con la realtà fenomenica.


Percezioni Decorporeizzate Per «una Nuova Regione Della Coscienza»

Benjamin diceva che con il cinema era sorta «una nuova regione della coscienza»4W. Benjamin, Replica a Oscar A.H. Schmitz, in Id., Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, Tr. it., A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Torino, Einaudi, 2012, pp. 261-265. e non sembra un caso che anche lui, come Morin usi il termine “coscienza” per descrivere il fatto che gli effetti dell'esposizione alla rappresentazione audiovisiva ricadano sulla sfera della nostra consapevolezza profonda di noi e del mondo circostante, la nostra coscienza, appunto. Una coscienza rivoluzionata, la cui differenza rispetto a quella “naturale” si spiega col fatto che il cinema ha in parte mutato il “campo di osservazione” a partire dal quale costruiamo questo tipo di rappresentazioni di noi e del mondo. Il sostrato di percezioni cui attingiamo attraverso il cinema è più ampio di quello offerto dalla realtà perché non più limitato ai soli dati fornitici dalla nostra esplorazione ed esperienza personale del mondo, quella che svolgiamo in prima persona direttamente sulla realtà sensibile.

La visione e la manifestazione sonora del cinema, sono percezioni decorporeizzate, non vincolate ai limiti imposti dal corpo fisico, e dunque suscettibili di estendersi a macchia d'olio anche su territori sensoriali puramente virtuali che normalmente non potrebbero risultare nel nostro campo del percepibile. Immagini frutto di punti di vista o movimenti nello spazio impraticabili nella realtà, come le moderne inquadrature realizzate con l'ausilio dei droni, collocate ad altezze impossibili per il nostro corpo e che offrono un punto di vista volante sul mondo, sono ormai all'ordine del giorno, e le includiamo senza esitazioni nel novero delle visioni possibili, così come quelle rallentatissime della slow motion, che ci permettono di visualizzare ogni minima componente del moto di un corpo come mai sarebbe possibile attraverso la visione naturale. Il “data-bank” mentale in cui archiviamo i dati sensoriali provenienti dal mondo esterno si è arricchito di un immenso repertorio di colori, suoni, immagini di natura puramente artificiale o fantastica che non potrebbero far parte dell'udibile o del visibile da noi esperito, ma che il cinema ci mette a disposizione.

Ci risulta, altro esempio, che sia normale percepire in certi rumori, quelli di una esplosione, di uno sparo o di un pugno piuttosto, che in una composizione musicale, frequenze bassissime, dell'ordine dei 40-60 Hz, praticamente inudibili in condizioni di ascolto reale e che diventano leggibili solo grazie al trattamento del suono in post produzione e alla potenza degli impianti di amplificazione su cui vengono riprodotte, che quindi non fanno parte del repertorio delle percezioni naturali. Eppure la percezione tecnologicamente generata di queste frequenze ormai è divenuta parametro dirimente nel definire la nostra idea della “rotondità” del suono, il fatto che sentiamo certe musiche o certi “suoni dei film” più pieni e corposi e altri più piatti, finendo poi col ritenere questi ultimi meno “realistici”. Si tratta di un parametro di valutazione dell'esperienza d'ascolto, ma con qualità visive come la definitezza dell'immagine vale la stessa cosa, fortemente soggetta a un periodico “aggiornamento” dovuto agli effetti dell'evoluzione tecnologica sulla base della quale il pubblico elabora un'orizzonte di aspettativa elevatissimo circa le qualità sensoriali della riproduzione filmica.

Lo sparo filmico degli anni '30 o '40, che ai tempi suoi stupiva per la realisticità percettiva, nonostante un livello tecnologico che quasi non permetteva di catturare le frequenze basse, oggi “suona” del tutto poco credibile, o irrealistico, come si usa dire. Questo avviene perché i più recenti ritrovati tecnologici in fatto di ripresa e riproduzione delle immagini e del suono ci hanno abituati a uno standard medio dell'esperienza di visione e ascolto incredibilmente migliorato rispetto a quello degli anni '40, in cui le immagini sono super definite e i suoni ampi, dinamici e ricchissimi di frequenze, iper spazializzati dalle possibilità del surround. I vecchi film in Technicolor ci sembrano opachi, poco definiti e smorti nei colori, perché la nostra valutazione è modellizzata sul 4K e sulla sua elevatissima definizione, su quei suoi colori accesissimi e molteplici che assumiamo come valore assoluto di realisticità della rappresentazione.


Un Criterio Di realtà

La radicale estensione del campo del percepibile di cui parliamo non è da intendersi, come nel caso del suono della spada laser, solamente nel senso della introduzione di stimoli “nuovi”, suoni e immagini fantastici o impossibili nella realtà e resi esistenti solo dal cinema, ma anche nella direzione di una parziale riconfigurazione delle rappresentazioni sensoriali più ordinarie e quotidiane. Se vi dovessi chiedere quali tipi di emissioni sonore includereste nell'elenco dei suoni tipici di un'automobile sono certo che per una parte chiamereste in causa rumori come quello del motore a basso o medio regime di giri tipico delle basse o medie velocità cittadine e delle manovre, quello del clacson o dei tergicristalli o della freccia, rumori che potete ascoltare in maniera diretta tutti giorni, essendo soggetti che come pedoni, guidatori o passeggeri, vivono praticamente sempre circondati dal traffico.

Sono però altrettanto sicuro che nello stesso elenco comparirebbero manifestazioni sonore come certe accelerate brutali o lo stridore acutissimo dei freni in curva, tipico delle altissime velocità, che ritenete essere tipici delle automobili, ma che in realtà non ricorrono quasi mai nella vostra esperienza quotidiana di automobilisti o pedoni, e che vi sono estremamente familiari per l'uso frequentissimo che ne fanno polizieschi, action movies e noir in tutte le scene di inseguimento in cui si voglia sottolineare l'alta velocità e il fatto che l'aderenza dei pneumatici è al limite. Tutti conosciamo il rumore di uno sparo di pistola, sebbene quasi nessuno abbia mai realmente impugnato un'arma, perché la nostra esperienza rivoluzionata del mondo passa prima dal cinema che dalla realtà sensibile.

«Sembra la scena di un film»: note sull'Inversione della Relazione Copia-Originale

Ma c'è di più, perché oggi oltre a saper dire che verso fa un Tirannosauro, oppure che rumore fa uno sparo senza averli mai uditi nella realtà, tutti saremmo anche in grado di dire se le riproduzioni che ne troviamo in un film sono più o meno “realistiche”, come avveniva nell'esempio precedente in cui guardando qualche vecchio film diciamo che gli spari suonano finti per via dei pochi bassi che li fanno sembrare più dei sottili schiocchi che non la possente voce di una bocca da fuoco. Ovviamente il riferimento veritativo che inconsciamente utilizziamo per definire il grado di realisticità di uno sparo filmico, non potendo essere il rumore di uno sparo reale, potrà essere solo il cinema, cioè gli altri suoni cinematografici dello stesso tipo che abbiamo ascoltato in altri film, e sulla base dei quali abbiamo elaborato un'idea uditiva generale del rumore che emette un'arma da fuoco, con cui confrontiamo quella ascoltata nel film.

Non ci sembrerà più reale quel rumore di sparo che più somiglia a uno sparo vero, ma quello che meglio si conforma alla nostra astratta rappresentazione acustica di quel fenomeno, che ha natura puramente filmica. E questo è l'altro aspetto importante della rivoluzione operata dal cinema sulla nostra cognizione del mondo: il cinema si è sostituito alla realtà naturale nel fornirci il riferimento sulla veridicità, se non di tutta, certamente di una parte cospicua, della nostra esperienza sensibile.
Un qualsiasi spettatore di lungo corso di serie a tema medico ospedaliero, sul genere di E.R o Doctor House, in cui ci sono molte scene chirurgiche, ha una sua idea precisa di come si svolga un intervento a cuore aperto, lo può includere nel novero delle cose che ritiene di sapere, e in base a questa nozione è in grado di esprimere giudizi sul grado di realisticità delle messe in scena che ne osserva nelle varie puntate o in altri prodotti filmici. La forza persuasiva  di questa rappresentazione elaborata filmicamente potrà essere messa in discussione solo nell'eventualità in cui lo spettatore assista a un vero intervento, che lo metta di fronte a innegabili differenze tra il fenomeno reale e la sua rappresentazione, ma in tutti gli altri casi permarrà nel suo repertorio cognitivo come unica rappresentazione mentale nota del fenomeno “intervento chirurgico a cuore aperto” e dunque entrerà a far parte a pieno titolo della sua rappresentazione del mondo.

È questa la ragione per cui, tornando per un istante al dominio dell'uditivo, ci sembrerà più intensa e soddisfacente sul piano dell'ascolto, più “vera”, la registrazione discografica di un concerto, che in realtà è riequalizzata, “pompata” e “ripulita” in studio, che non l'esecuzione reale dello stesso concerto in live, in cui il suono è sporco, magari un po' “slabbrato” come si dice in gergo, o in cui “mancano” certe frequenze, come i bassi poco spinti. Del concerto live diciamo che “si sentiva male” perché come termine positivo del paragone inconsciamente assumiamo il suono ripulito e pompato della registrazione discografica, in cui tutte varie voci strumentali, le chitarre, il basso la batteria, sono ben separate dal lavoro dei tecnici sulle frequenze, diversamente spazializzate, chiaramente intellegibili. La continua esposizione a suoni e rumori acusmatici, migliorati dal trattamento che ne viene fatto dagli ingegneri del suono, le immagini “migliorate” dalle possibilità offerte dalla macchina da presa e dalla post-produzione, ci hanno abituati a stimoli sensoriali più intensi, più precisi e ricchi di frequenze, di colori e sfumature, di quelli offerti dalle stimolazioni “naturali”, ed è a partire da questo stato di alterazione del percepibile, che fissiamo i nostri standard di valutazione dell'esperienza sensoriale, che si tratti di ascolti o visioni.

I molteplici strati di vetri dipinti che riproducevano il cielo in Nodo Alla Gola di Hitchcock intessevano un intreccio di nubi al tramonto talmente sofisticato e rilucente, e per queste ragioni suggestivo, che superava in “realisticità” qualsiasi cielo naturale. E d'altro canto quando nella realtà ci si para d''innanzi un paesaggio particolarmente suggestivo, un tramonto di particolare bellezza, un qualsiasi evento dotato di una non ordinaria spettacolarità, la prima considerazione che viene da fare è che "sembra la scena di un film", a dimostrazione del fatto che il rapporto imitazione-originale nella nostra percezione ormai si sia completamente invertito e sia la realtà a somigliare al cinema, non il contrario.


Iperpercezioni ed Emotività Espansa: il cinema è sempre “incarnato”

L'altro aspetto fondamentale è l'emozione. Gli stimoli visivi e sonori aumentati del cinema sono in grado di restituirci impressioni e suggestioni, perfino emozioni vere e proprie, altrettanto sovradimensionate rispetto ai loro corrispondenti reali. Ho un ricordo ancora vivissimo dell'effetto che mi fece il tremendo rumore del pugno che nel film Killer Joe di William Friedkin Matthew Mc Conaughey\Killer Joe assesta sul bellissimo volto di Gina Gershon. Un rumore di pugno devastante, debordante di bassi ingigantiti, che ne amplificavano l'idea di peso, un'impatto di immane potenza e violenza, su cui era udibile anche un rumore di tessuti che si rompono, di carni e ossa che cedono, il tutto reso enorme dall'avanzatissimo e potente impianto di amplificazione della Sala Grande del Palazzo del Cinema di Venezia, dove il film si presentava. L'idea di quel colpo tremendo che impattava su un delicato volto muliebre fu un'impressione fortissima, da rabbrividire.

La percezione che se ne ebbe nell'immediato fu quella di aver udito un suono altamente “realistico”, nel senso che veicolava con impressionante senso di realtà tutta la violenza, il peso, il danno fisico e quindi anche il forte senso di disagio e spiacevolezza che quell'orrendo colpo generavano. Nella realtà, ovviamente, nessun pugno è in grado di produrre un rumore simile e di simili proporzioni, e quindi nessun suono di pugno nella realtà è in grado di suscitare una sensazione di orrore tanto intensa per la sola via dell'udito. Le possibilità di manipolazione “migliorativa” offerte dalle tecniche di postproduzione permettono di incrementare proprio quegli aspetti percettivi che hanno conseguenze di tipo emozionale, come il grado di saturazione dei colori, dell'ampiezza di volume dei suoni, del numero di sfumature e gradazioni cromatiche o timbriche.

Quelli cinematografici sono quindi dei “super stimoli”, che grazie al “belletto” applicatogli dalla trattazione stilistica sopperiscono al fatto che fisiologicamente attiverebbero le nostre aree cerebrali con intensità affievolita rispetto a quelli reali, superandoli sul lato dell'espressività emotiva. Una buona parte della riuscita emozionale del film, tutta quella che non dipende da fattori di ordine narrativo o di situazione, poggia proprio su queste basi di tipo percettivo, ed è ciò che percepiamo in termini di “poeticità” del film o dello stile del regista. Si tratta della inspiegabile capacità mesmerica del cinema di suscitare spavento o sorpresa, commozione o nostalgia attraverso le scelte fotografiche e sonore, come quando una certa immagine ci fa spalancare gli occhi per la meraviglia o il suono improvviso di uno sparo ci fa sobbalzare dalla poltrona. Una capacità che ha radici lontane nel tempo, perché il cinema in fin dei conti lavora su meccanismi atavici del nostro sviluppo evolutivo, ed è questa, tra l'altro, la ragione per cui ne abbiamo una percezione così prossima a quella della realtà.

Ci portiamo addosso il retaggio primordiale di meccanismi piscofisiologici atavici che hanno permesso la sopravvivenza della nostra specie che ancora oggi influenzano una certa parte della nostra relazione con l'ambiente esterno. Ancora oggi quando un'improvviso e forte rumore si verifica senza preavviso vicino a noi compiamo un rapido balzo o scatto di corsa in direzione opposta a quella da cui il suono proviene. Si tratta, ma è solo un esempio, di una reazione difensiva inconscia, una attivazione involontaria e automatica delle nostre aree cerebrali motorie e pre motorie che innescano la reazione muscolare della fuga in risposta allo stimolo sonoro con certe qualità specifiche, la distanza ravvicinata e il forte volume. È un meccanismo automatico e inconscio che dipende da come è stato “progettato” il nostro sistema corpo-cervello, perché in ere remote il fatto che l'improvviso apparire di un'immagine grande, di un grosso predatore, ad esempio, o l'udirsi improvviso di un potente ruggito a poca distanza innescassero una reazione di fuga istantanea, senza la perdita di tempo richiesta dalla valutazione razionale della situazione, era un indubbio vantaggio in termini di sopravvivenza.


Ancora oggi i colori, le lunghezze d'onda luminose, i suoni, ci attraggono o ci respingono, ci eccitano come i bassi espansi della musica techno, o ci emozionano, come le nuances di arancione e giallo di certi tramonti, per ragioni che si perdono nella notte dei tempi della nostra storia evolutiva e il cinema, in fondo, altro non è se non l'arte di uno sfruttamento strategico e intenzionale di queste ragioni. L'enorme deflagrazione di un'esplosione cinematografica, amplificata nel volume dall'impianto di sala, ingigantita nei bassi ed espressa nella magnificenza del surround che ci aggredisce da tutti i lati, per il nostro cervello prerazionale costituisce un forte segnale d'allarme che innesca reazioni di difesa di livello cerebrale e viscero-motorio che inibiamo sul piano comportamentale grazie alla consapevolezza della nostra condizione di spettatori, cui compete una relativa immobilità.

Dominiamo il livello conscio e razionale del nostro intelletto e, di conseguenza, quello comportamentale volontario, ma i “segnali d'allarme” al livello delle aree cerebrali e della percezione somato-viscerale permangono, anche se non razionalmente elaborati, quindi inconsapevoli, e semmai risulteranno acuiti da quegli accrescimenti degli aspetti sensoriali dello stimolo resi possibili dalla postproduzione. Nella grammatica elementare dell'apprensione sensoriale e incarnata della realtà, il suono potente e pieno di bassi significa “pericolo” e dunque quello dell'esplosione cinematografica, ingigantito nel volume e addizionato di frequenze bassissime, comporta la percezione di un'allarme elevato al quadrato, che si traduce in una più intensa attivazione delle aree cerebrali pre razionali che lo recepiscono come minaccia. Gli stimoli filmici, percettivamente accresciuti, come dicevo, generano correlati emozionali, cioè risposte di livello cerebrale nelle aree emozionali, altrettanto intensificate.

E possiamo concludere qui, sulla questione del radicamento atavico del funzionamento del dispositivo psicologico cinematografico, questa lunga digressione sul cinema nella sua valenza di rivoluzione cognitiva, avendo riconosciuto quelle che sono le ragioni funzionali di livello primordiale che possono spiegare la profondità dei suoi effetti sul quadro cognitivo dell'uomo. Se il cinema ha potuto negli anni surrogarsi al reale fenomenico in molti aspetti della nostra relazione con esso è perché, in fondo, “funziona” nella stessa maniera, ma è in grado di restituirci un mondo “migliorato”, più intenso nelle manifestazioni  percettive e più denso di emozioni.  La grande rivoluzione che ha reinventato l'uomo e il mondo.

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