* Una prima versione di questo articolo è uscita sul «Manifesto» del 22-11-2018.

Brawl In Cell Block 99, secondo film di Craig Zahler, rappresenta un caso davvero clamoroso di quelle lacune endemiche della distribuzione italiana, che spesso, oltre a trascurare il valore intrinseco di alcuni film, pare tralasci anche quello più esteriore, di confezione (di cui dovrebbe essere esperta), mancando di soppesarne elementi di potenziale e diffusa commercializzazione. In effetti in quanto a vendibilità Zahler non è meno attraente di Tarantino, anche al di là dell'immediato sfolgorio e del crepitare tutto plasticoso1Il termine “plasticoso” sarebbe un neologismo e lo prendo dal lessico e proprio dalla filosofia di Luca Abiusi (animatore prima di retrogamer.it ora di projectfirestart.org), che determinano un ambito dialettico, ermeneutico molto connotato, quello del videogame degli albori, con la propria meccanica a bip e fosfori verdi e le linee meravigliosamente minimali e stereotipate: creature, laconici avventurieri e navicelle spaziali a pixel, mostri e combattenti a mani nude in un mondo di pochi bit, divenuti in breve tempo fonte di feticismo e di studio, soprattutto al tempo delle ultradefinite consolle contemporanee. È un intimo corrispondersi tra questa meccanica e i tratti archeologici delle sagome sul monitor, con l'involucro di plastica posto fuori, la consolle dotata delle sue escrescenze di joystick, floppy, scricchiolanti registratori a nastri. Ma, anora, “plasticoso” non è “plastificato”; non indica l'essere fatto di plastica di un determinato oggetto, ma, mettendo in relazione oggetto e soggetto fruitore (dopo che si è capito il legame tra la plastica che compare sullo schermo e quella che sta fuori, in termini di supporto), dice il feticismo, il piacere per l'artificiosa flagranza, per il crepitare della cosa di plastica. della superficie, dell'involucro così feticisticamente fantoccesco dei loro film (o di alcuni loro film).

E tanto più questo Nessuno può fermarmi (titolo italiano), che sembra essere il film più immediatamente fruibile dei tre girati finora da Zahler: il più veloce, quello meno concentrato sulla rappresentazione del tempo inteso astrattamente, filosoficamente, come accade invece sia in Bone Tomahawk che nell'ultimo Dragged Across Concrete, tra l'altro una delle cose migliori viste a Venezia quest'anno, frutto di un lavoro onnivoro del regista (e scrittore), autore anche della sceneggiatura e delle musiche. In effetti il suo cinema, come nei migliori casi di fagocitazione postmoderna, è tutta un'appropriazione e reinvenzione dell'immaginario cinematografico legato ai film di genere, anche se l'impressione ultima che si ha da questa congerie di segni, anzi proprio di materiale cinematografico coordinato nell'opera, è di un procedere classico, addirittura scabro: una laconica scansione di figure del tempo che si declinano nel vuoto degli spazi aperti, che sia il deserto di Bone o l'estenuante, monodico snodo di strade in Dragged. Durate procrastinate, tempo a vuoto, immagini che girano a vuoto facendo sentire tutto il tempo che si prendono: eppure non si tratta di un film di Bela Tarr ma si è nel bel mezzo di un cinema di genere.

Ma Brawl fa eccezione, e sembra piuttosto consistere in assenza di tempo, in una bolla acronica in cui però, come in un videogame, è disegnato un percorso preciso che il protagonista deve compiere attraverso luoghi topici: è apoteosi dello spazio chiuso, della stanza, la cella, l'ala più recondita di una prigione di massima sicurezza, la numero 99 del titolo, in cui converge l'azione marziale, ieratica dell'ex pugile Bradley Thomas (un Vince Vaughn nato per questo ruolo), con scricchiolio d'ossa, di braccia spezzate; crani in crack fragoroso, teste di plastica, prima trascinate sul pavimento come palloni sgonfi, con consunzione irreversibile di nasi, labbra, occhi; poi schiacciate, fracassate, fatte scoppiare sotto i tacchi o staccate dai corpi a calci e destinate a rotolare nel più sozzo dei water.

Il film è tutto in questa minuziosa evoluzione attraverso lo spazio, o forse sarebbe meglio considerarla una progressiva segregazione: dall'aria aperta della città, alla zona di transito rappresentata dal mare notturno, che prefigura l'oscurità anche scatologica della discesa all'inferno delle carceri che si sta preparando, a cominciare dalla stanza anonima del commissariato e dall'impietosa aula di tribunale dove Bradley viene condannato; passando poi per i corridoi, le scalinate e i vari livelli di una linda prigione di media sicurezza, nelle cui celle di mattoni simmetrici splende la latta della toeletta e si sente il profumo disinfetto della branda, Bradley in uniforme celeste, pantofole ai piedi.

E da lì l'ex pugile è costretto a farsi largo, anzi a precipitare negli interstizi di questo habitat ctonio, sempre più putrido che è l'agente, la ragione del film: e lo fa attraverso la ritualità tetragona di una lotta derivata dallo Steven Seagal più duro e puro, quel corpo granitico, serioso, che pure lascia intuire la propria percentuale di adipe intorno alle braccia e al tronco, e sembra voler spiegare lo sviluppo dei colpi, attraverso la lentezza delle mosse, per farne godere appieno allo spettatore. È cioè il Seagal a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, tra Nico e Giustizia a tutti i costi: il che mostra un'attenzione di Zahler verso il cinema americano d'azione di quegli anni, se si pensa anche ai molti, espliciti riferimenti al ciclo di Arma letale presenti in Dragged Across Concrete, a partire da Mel Gibson che ne interpreta il poliziotto protagonista.

Il blocco 99, nucleo e meta di Brawl, si trova alla fine di questa struttura a corridoi, anticamere, cunicoli che scandiscono il film: è incastrato all'interno di un carcere di massima sicurezza dalle sembianze gotiche, abitato dalle voci dei criminali più biechi, pederasti, pedofili, che si parlano raucamente attraverso uno spioncino e i muri di celle fatiscenti, in perenne penombra. Zahler fa una vera e propria agrimensura di questo luogo fantastico, delimitato da una parte da un cancello chiuso sul resto della prigione, e dall'altra, in fondo al corridoio che si estende in archivolti, dalla stanza più remota del castello, da dove arriva un po' di luce e una canzone di soul music.

Qui è tutta questione di prossemica, di misurare, contemplare la densità bruciante, la luminosità, il fremere di questo luogo zahleriano chiamato cinema: ed è questione di articolare le distanze esatte, evocative, tra i personaggi immersi nella rissa, gli oggetti - un divano in fondo, un tavolo, delle sedie, lampade soffuse sotto le volte - e i passaggi che permettono il transito da un ambiente a un altro. Anzi si può dire che il blocco 99 è tale, è di tale intensità immaginifica, proprio in relazione a queste soglie (che sono sempre soglie sull'ignoto), e dove i fantocci si possono squassare le mascelle, spezzare le spine dorsali a gomitate e le gambe di plastica sonante. Eppure non c'è nulla di più nudamente umano e struggente e tragico del dialogo telefonico tra Bradley “tornato uomo”, spossato, mentre cerca di trattenere le lacrime, e sua moglie incinta: personaggi posti crudamente di fronte al maipiù, all'addio, alla propria fine.

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