Resta sempre forte l'idea del contrasto - placido, acquisito come sostanziale - tra l'opposizione e la coincidenza nel gioco di ruoli che il cinema di Hong Sang-soo costruisce in scena. L'occlusione dello spazio rappresentativo in luoghi (interni o en plain air essi siano, poco importa) che contengono simbolicamente la divergenza tra l'essere e l'aspirazione esistenziale, il desiderare, il rimpiangere, l'aspettare... Ecco questa occlusione è la traccia che definisce in maniera inequivocabile il dramma ovviamente trasparente cui si affidano, nella loro leggerezza e nella loro gravità, i personaggi di questo autore.

C'è sempre un vissuto cui fare riferimento, rimuovendolo dalla scena per collocarlo nel backstage delle figure in campo, discretamente detto nell'equivoco del loro dialogare, che spiazza la comunicazione tra i sensi e i dissensi delle loro storie. Su questo agisce l'insistenza del regista sui campi prolungati, sui movimenti di macchina che rinunciano al taglio, al controcampo, manifestando piuttosto il bisogno di trattenere il momento nel suo insieme espressivo, travalicando il senso di un cinema che si costruisce al di fuori del set per aderire a un filmare che materializza la scena, la persegue come fosse il luogo vero in cui si incardina il senso del film.

Non che sia questione di “teatralità”, perché poi la presenza della macchina da presa è fattore essenziale all'esserci della scena e un film come Grass (Pul-lip-deul) ne è la prova determinante. Incardinato com'è nel perimetro interno (prima parte) ed esterno (seconda parte) di un café di periferia, il film si propone come il più astratto e antirealistico tra quelli realizzati da Hong Sang-soo in quest'ultima, prolifica fase (quattro film in dodici mesi) della sua carriera. Tutto ruota attorno ai retroscena di personaggi che lavorano sullo spostamento del senso, sulla rimozione vagamente malinconica (perché dettata da un implicito fatalismo) di eventi traumatici o di ferite forzatamente cicatrizzate: una coppia celebra l'ormai consolidata separazione evocando il ricordo di una comune amica della cui morte i due si sentono in qualche modo responsabili; un attore senza più successo né casa cerca di essere ospitato da una sua vecchia fiamma; uno sceneggiatore tenta inutilmente di coinvolgere nel suo lavoro la ragazza che sin dall'inizio siede a un tavolo, vicino la vetrina del locale, scrivendo sul suo laptop non si sa bene cosa (ma non quello che sente, assicura lei...).

L'arco diurno/notturno della narrazione raccoglie l'omogeneità di un tempo interiore che è la forma precisa dell'astrazione in atto: la ragazza al computer – che è Min-hee Kim, nuova compagna e chiacchierata musa del regista, e ha per nome scenico Areum, proprio come la protagonista del precedente The Day After – appare palesemente come il punto di fuga di una narrazione che da lei scaturisce e verso di lei converge: disfunzione narrativa in fabula che illumina e ombreggia i drammi che si svolgono sotto i suoi occhi. Il luogo del café, d'altro canto, inteso come spazio conclamato della narrazione, si offre nella sua occlusione come luogo di un gioco quasi materiale, in cui le traiettorie di tiro dei sensi di colpa rimbalzano per dissolversi nella seconda parte in un languore che ha qualcosa di inane.

Grass è evidentemente una sorta di controcampo offerto dal regista al suo precedente film, The Day After, nella misura in cui ribalta la natura testuale della parola (scritta/letta nei libri della libreria attorno a cui il film si svolgeva) nella natura reale, vissuta, della parola detta da quei personaggi. O, chissà, magari anche nella natura narrativa, immaginata, della parola scritta da Areum sul suo computer...

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