Filmare due persone, in genere un uomo e una donna, oppure due donne, che parlano, sedute una di fronte all'altra, separate da un tavolino, di solito quadrato, ma anche circolare, ingombro di tazze, piatti, bicchieri, bevande e avanzi di cibo: situazione ricorrente, nei film di Hong Sang-soo. La mdp, in genere, inquadra tutte e due, poi passa dall'una all'altra, ma senza stacchi, con movimenti morbidi orizzontali, in una sorta di piani-sequenza minimi, legati al ritmo del discorso e dell'ascolto.

Niente campi-controcampi. Contatti ridotti al minimo. Non si hanno contatti fisici, altro che tramite parole, e questo è già singolare in una cinematografia come quella sud-coreana, in genere legata all'eccesso fisico (inutile citare Kim Ki-duc).
Con l'utilizzo del campo-controcampo, diceva Godard, possiamo dare l'illusione della compresenza sullo stesso set, nello stesso momento, di due (o più) attori-attrici che magari si trovano distanti chilometri. Ci pensa il montaggio a fornire l'illusione, ad annullare la distanza: un'ombra parla in direzione d'una sedia vuota, ma sembra che parli a un'altra ombra, seduta su quella sedia, e viceversa. Che significa allora, per Hong, la rinuncia a un effetto così universalmente diffuso?
Sembra che il regista sud-coreano intenda così sottolineare la realtà della distanza all'interno della presenza stessa. O, più che la realtà, l'inevitabilità. Non possiamo scambiarci altro che parole, domande e risposte o, più spesso, domande senza risposte, in un ping-pong che definire dialettico sarebbe eccessivo, specie se uno degli interlocutori è un monaco zen.

La terza Anne, la terza incarnazione di Isabelle Huppert di In Another Country, discute con un monaco, lo incalza con domande imbarazzanti, ma non riceve che risposte deludenti, anche sul piano paradossale con cui tanto spesso l'Oriente spiazza gli occidentali (tutto si riduce, infine, a costringerlo a farsi regalare una penna stilografica).
Tre Isabelle Huppert, abbiamo detto, tre versioni di Anne, graziosa signora francese in vacanza in Corea. Tre versioni quasi identiche, con minime variazioni o meglio, con variazioni anche importanti, a cui non viene data alcuna importanza. La prima Anne è ospite di una coppia sposata: l'uomo un tempo, a Berlino, le aveva strappato un bacio, e non può dimenticare; la moglie è vistosamente incinta. La seconda Anne è lei a essere sposata, ed è lì, annoiandosi, per aspettare il suo amante, un noto regista coreano, che invece farà tardi. Qui, si dirà, a un certo punto c'è un contatto fisico: Anne bacia il suo amante e, tra un bacio e l'altro, lo schiaffeggia per il ritardo, ma forse si tratta solo d'immaginazione. La terza è una variante diretta della prima, ha a che fare col monaco e incorre, senza colpa, nella gelosia della donna incinta. Hanno qualcosa in comune, queste tre, oltre al fatto di essere interpretate dalla stessa attrice, di chiamarsi Anne e d'essere in vacanza in Corea? Ebbene sì. Tutte e tre sono evocate dalle pagine del diario tenuto da un'altra ragazza (coreana), che scrive per calmarsi i nervi. Tutte e tre fanno passeggiate sulla spiaggia, si fanno prestare un ombrello e chiedono «C'è un posto carino da vedere qui?». Tutte e tre vengono indirizzate verso un fantomatico faro, che sembra l'attrazione locale. Tutte e tre si imbattono nello stesso cortese bagnino, che a malapena parla inglese, ma  si presta  a far loro da guida, e le ospita nella sua tenda ultramoderna. Forse con la terza Anne, che è stata appena lasciata dal marito coreano, ci sarà qualcosa di più: ma, al solito, Hong non ci mostra che scambi di parole. Dov'è il faro? Ma cos'è un faro? Una torre con una luce sopra? Ma allora il bagnino ne ha uno piccolo, un piccolo faro, nella tenda: in fondo, non è che una lampada. Alla fine, lei si allontana in campo lungo sulla spiaggia, riparata dall'ombrello, mentre comincia a piovere. Come spesso nei film di Hong, la fine è segnata dal brusco peggioramento delle condizioni meteorologiche.

Il problema, dunque, è il rapporto tra ripetizione e identità, dove la ripetizione non conferma l'identità, ma la mette in crisi. Sempre di questo si tratta, nei ping-pong conviviali di Hong, anche se magari sembra si parli di cose insignificanti. Al tempo stesso, la cornice conviviale assume un'importanza inusitata, poiché le abbondanti libagioni fanno cadere gli eventuali impacci e mettono in libertà le parole, anche oltre le intenzioni coscienti. D'altra parte, la ripetizione investe il film stesso, che è capace di scindersi e ripetersi in due metà quasi identiche, come accade in Right Now, Wrong Then, dove ovviamente l'accento cade sul quasi. Nella prima versione (prima metà del film) dell'incontro tra il regista Ham Sung (uno dei tanti doppi di Hong), chiamato per la presentazione d'un suo film  nel cineclub d'una piccola città coreana, e la giovane Hee-jung, quest'ultima non regge alla rivelazione, che le fa il regista stesso, d'essere sposato; nella seconda versione (seconda metà del film) tutto si ripete quasi identico, si succedono le stesse inquadrature, vengono pronunciate le stesse battute, ma la conclusione è diversa: Hee-jung raggiunge il regista al cineclub, si mescola al pubblico (sempre molto scarso, la sala è semivuota), forse la rottura non avverrà, anche se alla fine anche qui vedremo la ragazza allontanarsi di spalle in campo lungo, mentre comincia a nevicare. Le analogie con Resnais sono state già notate, così come quelle con Rohmer, ma è come se Hong ne presentasse una versione anti-intellettualistica, in cui dalla ripetizione potesse emergere, quasi per  miracolo, una speranza d'autenticità, malgrado l'avvertenza di Deleuze: "tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione".

È il gioco cui è appesa anche l'identità di Younghee (Kim Min-hee) in On the Beach at Night Alone. Prima tappa del film: ad Amburgo, lei è un'attrice che aspetta l'arrivo del suo compagno, un regista coreano (sposato). Passeggiando lungo una spiaggia deserta, sogna una vita autentica, sottratta all'attesa, che possa chiamare veramente sua. Nella seconda parte, Younghee, tornata in Corea, sembra aver perso le sue inibizioni. A tavola, col regista e altre persone della troupe (in tutto stavolta sono in cinque), parla a ruota libera, complice l'alcool. "Sono una bomba!" grida "Sono distruttiva!". Poi: "Non siete qualificati per l'amore!". Il regista si offende, piange, cita frasi d'amore da un libro che gli hanno appena portato, ma non è che letteratura, mentre le parole di lei pungono. Alla fine la vediamo sola, addormentata sulla spiaggia deserta. Qualcuno la sveglia, le fa presente che è pericoloso, e lei, come nei soliti finali honghiani, si  allontana di spalle in campo lungo.

Ciò che si ripete è la differenza; il che equivale a dire che nulla si ripete identico. Affermare che Hong fa sempre lo stesso film, è al tempo stesso esatto e profondamente sbagliato. Al gioco ottico delle ombre è legata la ricerca d'identità dei suoi personaggi, registi o attrici che siano, ma anche persone comuni, purché dotate almeno di passione per la lettura, ossia per uno dei dispositivi superstiti di produzione di fantasmi. La giovane Areum (ancora Kim Min-hee), in The Day After, appassionata di letteratura, va a lavorare presso la piccola casa editrice Bongwan, e il giorno dopo viene scambiata per l'amante di Bongwan dalla moglie di costui, furiosamente gelosa (l'amante, in realtà, lo ha appena lasciato, e poiché lavorava nella casa editrice, Bongwan ha cercato una sostituta). Qui, stranamente, avviene qualcosa di fisico, nel senso che la moglie gelosa assale l'esterrefatta Areum, la prende a schiaffi, prima di convincersi dell'equivoco. Poi l'amante, pentita, chiede di tornare al suo lavoro e alla routine sentimentale. Areum è licenziata, ricevendo come buona uscita un bel carico di libri da leggere. Torna dopo qualche anno, ma sembra il giorno dopo. Gironzola per la libreria, senza che Bongwan la riconosca - eppure è rimasta uguale. Anche lui è rimasto uguale, ma quando finalmente si riconoscono, lei nota qualche piccola differenza. Forse è un po' invecchiato, forse ha qualche ruga in più? Sì, forse; di fatto però, è Areum che prima è stata scambiata per un'altra, poi non è stata riconosciuta. Sarà perché le identità si confondono e si sovrappongono, per la lettrice onnivora. Bongwan la congeda regalandole un altro libro, ed è questo, forse, il segno della riconoscibilità.

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