The Woman Who Left aveva mostrato come il cinema di Lav Diaz fosse interessato da una ricerca problematica, fosse cinema in divenire rispetto ai suoi film precedenti, che erano un'oceanica esposizione – anche in senso letterale, trasparendo ovunque la sostanza catartica, ipnotica dell'Oceano – oceanica, oltranzista riflessione (anche nel senso di riverbero) sull'entità dell'immagine, e di cui lo stupefacente Storm Children del 2014 è una sorta di sintesi.

Lì la salmodia dell'acqua – che fosse pioggia incessante o diafana, amena salamoia in cui si beavano e rituffavano i bambini –; il tempo protratto, dilatato, degli scrosci e degli sguazzi; il bianco e nero granulare e allo stesso tempo spettrale delle cose; l'immagine che traeva concretezza dalla tensione a dileguarsi delle forme chiaroscurali sullo schermo; tutto questo perdeva – al limite estremo della percezione – la propria referenzialità rispetto al mondo e diveniva estetica a sé, astrazione, pura sostanza cinematografica in meravigliosa folgorazione e consunzione nel quadro.

Per questo, Lav Diaz, insieme a Weerasethakul, Lisandro Alonso, Tsai Ming Liang, Hsiao Hsien, rappresenta la quintessenza del cinema contemporaneo, cioè di quell'arte che fa della soglia (tra concretezza ed evanescenza; corpo e spettro; ciò che è visibile, visto, e quello che ancora non è comparso, che potrebbe ancora comparire) la propria forza, la propria debolezza. 

Ora When The Waves Are Gone, fuori concorso a Venezia79, conferma la tendenza a una maggiore connotazione narrativa, proprio romanzesca del flusso visivo, che era appunto di The Woman Who Left, non a caso vincitore del Leone d'oro nel 2016. Lo dimostra il fatto che rivisita il romanzo di Dumas, Il conte di Montecristo, portando alle estreme conseguenze l'elemento realista, che così, per   eccezionale dilatazione del dettaglio, diviene grottesco. Cosa sono infatti le pantomime di Hermenegildo Nono e – in misura minore – di Hermes se non la gesticolazione di marionette divenute ridicole non per una loro connaturale inclinazione al comico ma per eccesso di dolore? Confermando strutture letterarie, sembra un meccanismo vicino ai grandi drammaturghi del Novecento, Valle-Inclán e il suo «esperpento» soprattutto, ma anche Pirandello, Rosso di San Secondo, ecc..

L'osservazione insistita, protratta della realtà mediante piano-sequenza tipica di Lav Diaz, che in altri film produceva, al limite dell'inquadratura, un'astrazione, un'estetizzazione dell'inquadrato (uno dei vertici del cinema contemporaneo: la traccia indelebile eppure evanescente lasciata dal segno, dall'immagine), in questo caso soffermandosi sulla realtà dei personaggi, fa emergere la loro natura grottesca, il risvolto umoristico degli eventi; certo non-sense dei gesti; un'apparente gratuità o fortuità delle azioni (come i ridicoli, tragici battesimi perpetrati da Hermenegildo Nono); qualcosa come una follia, un grido (una ridicola cacofonia) degli arti, di ogni fibra del proprio essere, frutto di un dolore lancinante.

È il film più esplicitamente politico di Lav Diaz, che denuncia i soprusi inflitti dai regimi, dalle polizie (non solo, evidentemente, quelli filippini), e in un certo senso questa esplicitezza – tale soprattutto nei dialoghi, nelle telefonate che a un tratto sembrano essere spiegazioni rivolte allo spettatore – compromette un po' il portato espressivo del film, quella profondità della traccia lasciata sulla pellicola dall'inconfondibile gesto di Lav Diaz. Eppure, anche al di là dell'assunto del romanzo di Dumas, resiste nel film qualcosa di atavico, di mitico, svolto ancora una volta sullo sfondo del mare, di una banchina, e nella sostanza vertiginosa dell'inquadratura di questo regista straordinario: una febbre d'autodistruzione, una fibrillazione dei corpi e della forma al cospetto del tragico, della morte.

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