Mi sono perso i primi giorni del festival. In compenso quest'anno sto a Sant'Elena, che è una specie di eremo malinconico, immagine compiuta dell'autunno - io penso che se esiste un luogo, uno spazio, con le sue superfici, i suoi miasmi, i suoi riflessi lunari, che incarni il tempo, l'autunno in modo pieno, istantaneo, quello è Sant'Elena - dove si ha nostalgia di ogni cosa e già scricchiola l'ossame, il giallo carcame delle foglie sotto le suole e nei sobbalzi del vento: sulle panchine, tra i muschi vegetanti nei pori, nei nidi già marci del legno e il barbaglio degli attracchi, lo stridio del silenzio trama segretamente col rantolo macabro dei fantasmi vaganti al vento, e allora si sente un oscuro presagio d'eternità, cioè di precarietà, che rimbomba tra i muri e le barche ammorrate.

Poco male per Spencer di Larrain che dopo il magnifico Ema è tornato ai suoi personaggi famosi, famosi per essere ottusi, mortiferi, semplice, livido carname nelle mani della Storia, come quello accatastato, letteralmente accatastato in Post Mortem anni fa. Perciò se un giorno vorrò documentarmi o fantasticare su Lady Diana, così come su Jacqueline Kennedy, cercherò i numeri arretrati di Novella 2000, quando invece Ema proletaria, intelligente, anzi il suo corpo, la sua pelle che essudavano un'intelligenza tutta istintiva, era specchio del nostro tempo.

Il paradiso del pavone di Laura Bispuri (in "Orizzonti") è la messa in scena di una famiglia piccolo borghese italiana, con in più l'esotismo di una capofamiglia francofona e di un pavone che razzola in sala da pranzo: film anodino, modesto, in cui circola un'aria cisposa, appiccicosa e un'umanità gretta; anzi la rappresentazione è anche a suo modo coerente, ma è proprio il presupposto di questo cinema che manca di interese. Anche solo Vergine giurata era un'altra cosa.

Ma poi c'è stata Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, film straordinario, fuori concorso (e non se ne capisce il motivo) che lascerà un'impronta profonda nella stagione cinematografica appena iniziata. Certo: film di grande recitazione, con Servillo e Orlando che tengono la scena, ma non la ingombrano e in cui allora si affacciano altri attori in stato di grazia; ma al di là di queste questioni, come dire, extra-testuali, quello che emerge da quest'opera eccezionale è una dimensione quasi metafisica, risvolto ideale del contesto tutto concreto in cui personaggi peculiari si muovono, stanno all'erta, giocano la loro partita provocandosi, scontrandosi, alla fine fors'anche amandosi nell'unico modo in cui potrebbero, cioè perdendosi tra i muri, le sbarre, le stanze scalcinate del carcere, che evaporano con l'evaporare delle immagini. Ecco è quest'amore, per i suoi personaggi innanzitutto, che manca quasi sempre a Larrain e che invece è sempre presente in Di Costanzo, tanto da impregnare i muri, la vegetazione, le periferie e ogni piccola fibra del suo cinema. 

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