Nel giorno in cui la canaglia fascista infesterà le strade di Trieste, mi piace ricordare il libro di Umberto Saba, quello del titolo, che dice di uno spazio diverso, di contestazione: una città contigua al femminile e alle sue prerogative di grazia, arguzia, bellezza fiammeggiante. E in effetti questo Trieste Science Fiction ne propone: a parte la presenza di Stoya, protagonista algida, abbagliante nel suo biancore al silicio, di Elderlezi Rising (diretto da Lazar Brodoza), viaggio buio, viaggio al neon, e all'eros, nelle plaghe dello spazio profondo; direi soprattutto l'immagine finale di Freaks (di Zach Lipovsky), trionfo di forza femminile che vola, si libera nel cielo in coordinate di Matrix.

Divertente variazione sul tema degli x-men, anche se all'inizio forse si addensa troppo nell'aria soffocante, cisposa, degli interni: lì però il film ha l'occasione di confondersi con gli schemi dell'horror, mostrando un presunto fantasma che ogni tanto appare nel ripostiglio; e di consolidare fino all'ossessione la claustrofobia che deve essere la condizione oppressiva da cui le immagini vogliono uscire. E in effetti poi il film esce all'aria aperta, ma lì il mondo è infestato da benpensanti, i "cittadini", che odiano la diversità altrui e la vogliono sopprimere dopo averla confinata, studiata nei soliti laboratori di cui gli x-men sono vittima. Sembrerebbe che il film non si voglia più nascondere negli interni legnosi, in continua penombra (perchè le finestre sono velate in modo che nessuno guardi dentro), e diventa qualcos'altro dall'horror claustrofobico: se mai un film di supereroi, ma con autoironia e un gusto ghignante per gli infilzamenti d'occhi, forse allusione proprio a quel voler celare lo sguardo, nascondersi agli occhi altrui, ma anche togliere gli occhi a chi non merita di guardare le immagini, la loro diversità, la loro diversificazione.

Bella coincidenza (perchè un film non dovrebbe mai dimenticare di riflettere sulla pratica dello sguardo, che permette di comprendere le immagini) con un altro film passato ieri (forse il più bello visto finora), The Dark (di Justin P. Lange e Klemens Hufnagl), in cui si ripresenta questo otturamento degli occhi, già perpetrato ai danni di Alex quando il ragazzo compare per la prima volta; o lo schiacciamento di quelli di un poliziotto da parte di Mina, zombie adolescente, feroce, artigliata, atta a sbranare e ad amare: lei, famelica e solitaria (e poi anche il ragazzo, così indifeso eppure ostile, aggressivo) è mossa da un furore indiscriminato, che investe anche gli innocenti, appunto i poliziotti, o dei boscaioli che scandagliavano il bosco. Si tratta del furore verso gli adulti, spesso apparentemente irragionevole come solo quello degli adolescenti sa essere, e il film allora è tutto in questa rabbia disarmante e in questa fragilità che risuona nelle cuffie di Mina e nel brusio fuori dalla finestra. Nonostante le efferatezze, The Dark ha una sua intima, essenziale delicatezza, la stessa sensibilità offesa e vibrante dei suoi protagonisti; e il gesto dei registi ha la stessa secca emotività e aggressività di quello di Mina mentra disegna le sue immagini: un gesto che cerca di corrispondere il silenzio e il freddo del bosco, la solitudine della strada. 

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