The Shrouds di David Cronenberg è un film sulla morte, quindi un film sul cinema, se prendiamo per buona la definizione che del cinema dava Alain Resnais, quella di «cimetière vivant». Un film che esplora direttamente la relazione tra immagine e aldilà utilizzando il cadavere di una donna (Diane Kruger) nella sua tomba high-tech programmata per restituire, sul monitor incastonato nella lapide, il video in tempo reale della sua decomposizione.

È l’invenzione e il business di suo marito (Vincent Cassel), ideatore di cimiteri futuribili che offrono la possibilità di lenire il dolore del lutto attraverso l’esperienza “dal vivo” di chi è sotto terra (oltre a un comodo ristorante con vista sui loculi). L’amore, per Cronenberg, è innanzitutto amore per un corpo. Ed è per questo che, post-mortem, l’unico modo per continuare ad amare è accettare la nuova fase in cui si trova quel corpo che si è adorato in vita, accompagnandone la transizione verso qualcosa di diverso.

La nascita dello spazio virtuale, e l’aumento della sua complessità, costituisce quindi un ulteriore terreno di indagine per Cronenberg, esasperando l’estensione del corpo, attraversando facilmente il confine materico e anatomico fino ad arrivare a concepire una corporeità che è messa in crisi da una condizione di derealizzazione dell’esperienza. Tale scenario non poteva non modificare in modo irreversibile il modo di concepire il mezzo cinematografico con cui si esperisce lo spazio fisico, ovvero la macchina da presa, che non è più un occhio, ma un sudario. Un bozzolo che registra ciò che copre, che svela anziché nascondere. Cronenberg arriva così a ipotizzare un cinema che è strato epidermico, un velo di Veronica su cui rimane impressa l’immagine umana (o ciò che ne rimane).

L’autore stavolta adatta le sue classiche ossessioni — sessuali, spirituali, istologiche — al contesto digitale, le traspone sul piano del virtuale per riflettere sui corpi quando questi non esistono più come sistemi biologici, ma si smaterializzano diventando ammassi di pixel, rendering tridimensionali di ciò che esiste nella realtà, arrivando alla conclusione che anche quando fittizi, poligonali, i corpi presentano le stesse vulnerabilità di quelli veri, le stesse possibilità di essere penetrati, mutilati, cambiati dall’interno. Instabile e fluidi, manipolabile e mutabile: un ventaglio di possibilità che il corpo smaterializzato offre mettendo in crisi l’utilizzo del termine “virtuale” per distinguere il reale dall’irreale come se le due dimensioni non fossero caratterizzate dallo stesso grado di autenticità.

Anzi, i corpi cosiddetti “virtuali” sono forse ancora più esposti alla violenza esterna, talmente interconnessi da poter essere manipolati da mani che si allungano da lontanissimo, che agiscono addirittura da remoto, potendoli disattivare, incepparne il funzionamento. Ed è proprio in quello spazio interstiziale che è il “glitch”, in quella sospensione temporale dagli esiti imprevedibili, che Cronenberg lavora, immaginando un corpo che non è più postumano, che ha espanso la sua fisicità attraverso interventi tecnologici, ma “disseminato”, che perde materialità sconfinando dai suoi vincoli anatomici.

L’accentuato pericolo di violazioni crea quindi uno stato di paranoia per cui ci si sente minacciati da ipotetiche e implacabili forze ostili, capaci di invadere il proprio spazio di intimità fisica (i russi e i cinesi tornano spesso come spauracchio ironico). Questo marasma di idee confuse, di paranoia generalizzata, non è solo additato come una malattia del tempo, ma sfruttato per inventare trasgressioni e fanatismi diversi da quelli religiosi.

Questa dimensione mentale e intellettuale determina anche un cambiamento stilistico: The Shrouds non è un body horror come il precedente Crimes of the Future, ma riprende invece l’impostazione dialogica e teatrale di opere macabramente “fashion” — in questo caso la tecnologia che avvolge i cadaveri è un suadente vestito dallo speciale tessuto — come Cosmopolis e Maps to the stars (il produttore è lo stesso, Saïd Ben Saïd, in coppia con Anthony Vaccarello di Yves Saint Laurent, in un ironico cortocircuito) dove la parola è il principale strumento per affermare le proprie teorie, per riflettere su quello che succede: specialmente stavolta che gli avvenimenti non accadono effettivamente nel mondo dove agiscono i personaggi, ma in quello immateriale.

Cronenberg aggiorna le morbosità di Crash all’era in cui le macchine — ormai elettriche, silenziose, private delle loro componenti meccaniche, rese sicure da tantissimi sistemi di controllo automatizzati — non hanno più alcun fascino perverso, e individua nelle cospirazioni, nelle teorie del complotto, il nuovo stimolo per una sessualità che si nutre di finzione, di immaginazione, di pericoli ipotizzati, di deliranti manie di protagonismo. Anche le informazioni (e quindi la disinformazione) agiscono sul nostro organismo, lo attivano in maniera imprevedibile, lo inducono a modificazioni, amputazioni, sanguinamenti. Lo eccitano, lo agitano, lo fanno vibrare nell’illusione di aver raggiunto un più profondo ed esclusivo stato di consapevolezza di se stessi e del mondo fuori. Ci convincono di cose sulla base delle quali poi agiamo e interveniamo su di noi, anche in maniera drastica.

Nel film Vincent Cassel ha a che fare continuamente con tre proiezioni differenti della moglie ormai defunta, tutte ugualmente inafferrabili e inesistenti sul piano materiale (dove invece rimangono solo le ossa): quella “virtuale”, ovvero un’assistente creata con l’intelligenza artificiale, quella “onirica” e quella “mnesica”, legata alle reminiscenze che evoca ogni volta la visione della sua sorella gemella. L’artificialità assoluta, per il regista canadese, è un’utopia, dal momento che ogni I.A., ogni avatar, ogni tecnologia, deve necessariamente avere un corrispettivo umano che la comanda, che la setta, che la nutre di informazioni: mai “neutrali”, ma sempre condizionate dai bias culturali di chi decide quali sono i dati utili da fornire al programma.

Quindi è uno spazio, quello digitale, che non è mai davvero libero, ma che è stato già conquistato, che obbedisce già a delle dinamiche di potere che sono difficili da ribaltare. Lo scriveva con lungimiranza Audre Lorde: «The master’s tools will never dismantle the master’s house». Lo sdoppiamento nella realtà e nel virtuale raddoppia le proprie fragilità, le proprie ansie, le proprie ossessioni, allargando indefinitivamente il loro campo di influenza e di azione, con conseguenze spesso disastrose. Ciò che prima rimaneva confinato nei limiti della propria persona, adesso può infettare la società, intesa come corpo unico che tiene in sé, per accumulazione, tutte le patologie dei singoli. Ed è lo schermo, il monitor, a fare da pelle a questa nuova entità collettiva radicalmente decentrata e in corso di soggettivizzazione.

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