James Blaine Mooney, l’improbabile ladro di opere d’arte protagonista di The Mastermind, non è altro che una nuova ed ennesima versione dello Stephen Meek di Meeks Cutoff: uomini che pensano di sapere benissimo cosa fare e dove andare e che invece si riscoprono spaesati, impreparati e non all’altezza delle imprese di cui sono a capo.

Uomini che si sopravvalutano e che agiscono con indifferenza rispetto alla sofferenza che le loro azioni potrebbero causare e ai problemi che potrebbero creare a chi, malauguratamente, ha deciso di seguirli o di star loro accanto. Con la solita distanza programmatica che contraddistingue la sua regia, Kelly Reichardt, dopo il western, sceglie di decostruire un altro genere storicamente ad appannaggio maschile, quello dell’heist movie. Non lo fa attraverso un gender swap, come avveniva ad esempio in Widows: Eredità criminale di Steve McQueen, ma utilizzando il suo inconfondibile stile minimalista e apparentemente distaccato per spogliare il genere di tutta la sua sensualità (uno dei generi che, non a caso, più di altri, negli ultimi anni è stato rivisitato in chiave queer).

A differenza di ciò che avviene in altri film “di rapina”, infatti, non c’è nessuna eccitazione nel mettere in scena l’attuazione meticolosa del piano criminale. Il cinema “asessuato” di Reichardt — in cui il desiderio e la tensione sessuale sono sempre tenuti fuori dalla scena — smorza l’euforia, la concitazione e il piacere, ovvero le componenti fondamentali di ogni “colpo” criminale e della sua resa cinematografica. Svuota quel gesto di erotismo e lo scarica dell’elettricità che ne dovrebbe accompagnare l’esecuzione. Lo riduce a banale sequenza di avvenimenti senza alcuna epica, per concentrarsi invece sulle sue grottesche conseguenze.

Non è casuale, in tal senso, la scelta delle opere d’arte che il protagonista decide di rubare da un piccolo museo del Massachusetts: quattro opere di Arthur Dove, tra i più rilevanti esponenti dell’avanguardia americana. Un artista che ripetutamente, nel suo lavoro, ha cercato di trovare un modo di rappresentare, attraverso l’astrazione e la “fissità” della pittura, il tema dell’elettricità e della sua conduzione, come evidente in Tree Forms (una delle opere sottratte nella rapina del film). Con i suoi rami serpeggianti, allungati e intrecciati, dipinti con una palette cromatica dominata dall’arancione e dal marrone, Tree Forms evoca in egual misura il fogliame autunnale e il crepitio della corrente elettrica che passa attraverso cavi e fili.

Ed è proprio intendendo l’opera d’arte come la intendeva Dove, ovvero come sensitive instrument, fonte che trasmette qualcosa al pubblico, che si comprende come la distanza che Kelly Reichardt pone tra i suoi film e lo spettatore non si configura come desiderio di incomunicabilità, ma come condizione necessaria affinché l’opera possa propagarsi liberamente nello spazio e raggiungere il suo destinatario, come un segnale radio o un’onda sonora. Entrambi, Reichardt e Dove, utilizzano il ritmo per far avvenire questa “trasmissione”. Gli elementi che costituiscono le loro opere non sono caratterizzati tanto dalle proprietà individuali (forma e colore per le figure astratte di Dove, personalità e genere sessuale per i personaggi dei film di Reichardt) ma dal modo in cui si articolano con il resto: con gli altri elementi, così come con lo sfondo sul quale si stagliano. È in questa articolazione con il “tutto” — fuori e dentro la cornice, quindi l’inquadratura — che può esserci un’occasione di comprensione e, magari, di immedesimazione.

Il jazz, che Dove ha più volte cercato di rappresentare visivamente, offriva al pittore un modello di astrazione specificatamente americano da utilizzare per rappresentare un’idea di nazione e trovare un linguaggio espressivo che potesse veicolare efficacemente quell’identità nazionale. In maniera simile, il modo in cui Kelly Reichardt segue — e traduce in immagini — la colonna sonora composta da Rob Muzarek per The Mastermind punta a indagare la possibilità che l’immagine possa costituire una tecnologia sonora, simile ma non identica al disco o al fonografo. Il suono, anche in questo caso, è squisitamente “americano”: quello dei Chicago Underground di Muzarek e Taylor, appunto.

Anch’esso un progetto che, negli anni, come il cinema di Reichardt, si è evoluto in sottrazione: in principio era la Chicago Underground Orchestra, poi il Chicago Underground Trio e infine il Chicago Underground Duo. Il film è ambientato negli anni Settanta, però è evidente in ogni aspetto della messa in scena — dalla musica, ai vestiti e alle scenografie — una traslazione, un rimaneggiamento di quell’estetica che ne tradisce l’apparente fedeltà. Muzarek non è Chet Baker, così come Josh O’Connor non è Elliott Gould, pur assomigliando entrambi molto ai loro modelli di riferimento originali. The Mastermind gioca su questo scarto rispetto al passato anche nei riferimenti politici all’attualità e ogni momento in cui il presente sembra rendersi riconoscibile viene accompagnato da un contemporaneo senso invece di alienazione. 

Fondamentali, come sempre nel cinema di Kelly Reichardt, sono i luoghi. Già nel precedente Showing Up, la location scelta per le riprese raccontava anche dell’appropriazione di uno spazio ormai vuoto, quello dell’Oregon College chiuso nel 2019 dopo oltre un secolo dalla sua fondazione, avvenuta per volontà di Julia Hoffman: pittrice, scultrice e abile manipolatrice di metalli e tessuti, come la protagonista di quel film. La chiusura era stata causata dal progressivo calo delle iscrizioni, il cui numero era sceso al punto da non poter rendere più economicamente sostenibile il prosieguo delle attività. Kelly Reichardt, lei stessa docente universitaria, cercava così di rimarginare una ferita nel tessuto sociale, di restituire a un luogo la propria funzione di educazione e accompagnamento nella crescita di una comunità.

In quella realtà alternativa, il futuro di quel campus non era già segnato, ma lo stesso si percepiva tutta la fatica necessaria per evitare il compimento del suo triste destino. In The Mastermind il fantomatico Framingham Museum of Art è in realtà la Cleo Rogers Memorial Library di Columbus, Indiana. Un edificio progettato da Ieoh Ming Pei (lo stesso della piramide del Louvre, per citare un altro edificio recentemente saccheggiato) e definito dallo stesso architetto il primo «truly urban space» della città. Un edificio in dialogo con la piazza antistante e con le costruzioni adiacenti. Quindi, con la vita che si muove attorno a esso.

Sembrerebbe un dettaglio di poco conto, principalmente estetico, ma la scelta di quel modesto edificio di mattoni dall’architettura brutalista, con il Large Arch dello scultore Henry Moore posizionato proprio davanti alla sua entrata, serve a evidenziare la dissociazione di James Blaine Mooney rispetto a quella collettività alla quale dovrebbe appartenere, il suo sostanziale egoismo e disinteresse nei confronti degli altri. La sua rapina è innanzitutto una violazione dello spazio pubblico, la profanazione di un luogo pensato per una fruizione condivisa e collegiale. Ed è in questo senso che bisogna leggere tutta la sua storia: quella di un nepo baby che si sente superiore al resto della società e il cui individualismo assume caratteri patologici.

Una parabola che si concluderà con il tentativo del protagonista di sfruttare a proprio vantaggio una protesta contro la guerra in Vietnam, mimetizzandosi tra i manifestanti, per scoprire — suo malgrado — che «spesso gli sbirri e i carabinieri al proprio dovere vengono meno», quando magari c’è da sventare una rapina in un museo di provincia o da recuperare qualche quadro di un poco conosciuto pittore modernista, «ma non quando sono in alta uniforme» e c’è da manganellare chi manifesta pacificamente contro la guerra. 

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