C’era una volta (in America) una lunga strada, un’automobile in viaggio, due coppie di mezza età che parlano di un matrimonio. È solo l’inizio del racconto biografico di Frank (De Niro finalmente all’altezza delle sue migliori interpretazioni), un uomo ormai anziano in un ospizio. 

The Irishman si presenta immediatamente come cinema di parola e di memoria: non è possibile affabulare, mettere in scena senza avere ricordi; infatti gli eventi e la macchina da presa seguono (in fluidi piani-sequenza che procedono in avanti e poi tornano indietro) frammenti di memoria individuale (fotografie di momenti privati) e collettiva (immagini e cronache dai media: giornali e tv). Frank Sheeran è un sindacalista mafioso che si trova a far parte di una Storia più grande di lui (sullo sfondo si notano la seconda guerra mondiale, l’omicidio di JFK, lo scandalo Watergate, la scomparsa di Hoffa), ma gli sfugge il quadro d’insieme e sarà il suo amico/protettore Bufalino (Joe Pesci incredibilmente misurato) a ricostruire il mosaico.

L’”irlandese” si scoprirà un killer spietato che non rivela mai i suoi sentimenti per la sopravvivenza di sé stesso e della sua famiglia; non si fida di niente e di nessuno (se si escludono l’auto, simile ad una lussuosa bara, le funzionali e preziose pistole e il suo misterioso mentore), la Storia non si commenta e non si discute: è quel che è. La morte (senza nessuna connotazione metafisica) è eterna (classe) dirigente sempre al lavoro, impartisce ordine/i e Frank è l’ideale esecutore/dipendente perché uccidere fa parte del suo mestiere. Il tempo è un alleato che cancella gradualmente corpi che si irrigidiscono e si consumano (a dispetto del grande schermo che li vuole giovani e dinamici grazie agli effetti digitali) e peccati/sensi di colpa; non esiste pentimento/rimorso ma solo un dispiacere per quello che sarebbe potuto essere e per l’inevitabile condanna alla vecchiaia/solitudine che non basta a redimere. 

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Frank riesce a vedere i suoi errori negli occhi/specchio della figlia Peggy (una silenziosa Anna Paquin con sguardi eloquenti). Difatti ella si allontanerà e si rifiuterà di guardarlo perché tradita negli affetti come dimostra la sua simpatia per Jimmy Hoffa (Al Pacino istrione ma senza vani eccessi) che sostituisce la figura paterna e che morirà vittima di uno stesso tradimento.

Per esprimere gli inconfessabili pensieri dei protagonisti il regista Scorsese mira a scolpire i volti con la luce (e l’ombra) digitale ispirandosi ai dipinti chiaroscurali e contrasta(n)ti del Caravaggio. Le azioni dei gangster sono smitizzate da rituali consolidati (dialoghi premonitori, selezione delle armi “sepolte” in un fiume dopo l’uso, omicidi in luoghi chiusi) e da un gergo da “lavoro quotidiano” come imbiancare (imbrattare di sangue) pareti ed eseguire opere di falegnameria (nascondere cadaveri in una bara o cremarli). Volti e azioni sono destinati alla cinica rimozione della memoria che è la nostra “anima”, il motore delle scelte che ciascuno compie al di là del bene e del male, la via che conduce al “libero” arbitrio: nessuno può sottrarsi alla crudele e vile invisibilità del tempo che fugge via, alla dannata polvere che non lascia segni dell’esistenza.

"Non ti rendi conto di quanto scorre veloce il tempo, finché non ci arrivi…", sussurra Frank ad una giovane infermiera. 

Negli ultimi anni in carcere e nell’ospizio subentrano altre abitudini (le chiacchiere nel cortile, il gioco delle bocce, l’assunzione di farmaci, la visita di preti, medici e/o parenti) che segnano una serenità senile prima della conclusione di una vita (stra)ordinaria. Frank non desidera essere accomunato alle “lapidarie” vite dei suoi simili (che si distinguono solo per le modalità della loro prematura e violenta fine) e ambisce ad un’altra dimensione/forma come un leggero fantasma (senza alcun fardello sulla coscienza).

La speranza e l’illusione di non essere dimenticati sono quelle che fondano l’esistenza di un essere umano (e della settima arte). Giungere al termine di una buia esperienza terrena aprendo la porta ad una possibile luce “al di là della vita” è “l’ultima tentazione” di un gangster, fino all’ultimo respiro del cinema contemporaneo.

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