«Il crollo delle galassie avverrà con la stessa grandiosa bellezza della creazione». È la memorabile falsa citazione da Blaise Pascal che apre Apocalisse nel deserto, maestoso capitolo della filmografia herzoghiana che posa lo sguardo sui pozzi di petrolio in fiamme del Kuwait, durante la guerra del Golfo. Una presa diretta, elevata a Lezione di Oscurità, che nel 1992 portò il regista ad un passo dal fondere, letteralmente, la sua cinepresa mentre in elicottero sorvolava a distanza troppo ravvicinata le lingue di fuoco. L’ossessione di Herzog per il fuoco, per il magma, per il cuore fuso della realtà è una traccia costante nel suo cinema.

Si pensi al vetro fuso in Cuore di Vetro, centro incandescente e mesmerizzante di un film che ha la fissità catatonica di un occhio accecato da una luce troppo vicina. O alla clamorosa vicenda di un istant-movie come La Soufriere, terribile lancio di dadi di un cineasta che decide di partire per l’isola di Guadalupa per filmare, sotto il vulcano, l’unico uomo che non la ha abbandonata prima di una catastrofe annunciata. Fuoco come principio palingenetico di distruzione e di creazione, elemento essenziale di una visione romantica della natura che non può essere altro se non conflitto, pòlemos e sublime splendore. Dopo Into the inferno (2016) e Fireball (2020), con The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft Werner Herzog torna alla geologia dei crateri per un tributo ai coniugi Krafft, leggendari pellegrini della vulcanologia periti durante l'eruzione del monte Unzen, in Giappone, il 3 giugno 1991.

Un’opera visionaria e potente, che si riannoda agli esiti più alti raggiunti nella carriera dal cineasta bavarese, dopo alcune virate, legate anche a contingenze produttive, che negli ultimi anni ne avevano imbrigliato lo sguardo dentro documentari di taglio più spiccatamente didattico. Senza aggiungere alcun nuovo filmato, Herzog si immerge nella manipolazione di uno straordinario repertorio di immagini, come l’archivio del vulcanologo Maurice Krafft, rivelando una piena e sorprendente consonanza di sguardi. I filmati dei Krafft sono materia herzoghiana, nella loro costante pulsione alla ricerca del limite, di un punto estremo di posizionamento sull’orlo dell’abisso (di fuoco). Oltre l’approccio scientifico, c’è già, in nuce nei filmati di Maurice Krafft, il disvelamento di quella verità estatica, solenne ed arcaica, che è l’essenza di tutto il cinema herzoghiano.

E nei coniugi Krafft, rabdomanti del fuoco, c’è la ricapitolazione di tutta la genia di eroi tragici che popolano il suo cinema: angeli caduti, folli conquistatori dell’inutile, ladri di immagini mai viste. Non si può non pensare alla sfida di un altro Icaro che ha volato troppo vicino al sole, come Timothy Treadwell, e che come i Krafft si è spinto fino al limite estremo del filmabile, tanto da filmare la propria morte. Come accaduto per Grizzly Man, la prima dichiarazione di poetica è quindi nella scelta del footage stesso ed esplicitata, in questo caso, nel titolo del film: un altro requiem, dopo quello For a dying planet dell’album di colonne sonore del violoncellista Ernst Reijseger.

C’è ammirazione, nello sguardo di Herzog, per lo spirito temerario dei coniugi Krafft ma anche per la qualità delle immagini, straordinarie, che negli anni i due scienziati sono riusciti a raccogliere in giro per il pianeta, e che il regista-monta(u)tore si incarica di sublimare attraverso gli strumenti del suo linguaggio: il ritmo e le scelte di montaggio, il commento in voice-over, che questa volta marca un significativo ritorno alle asprezze della lingua tedesca, la musica. Ancora Reijseger, Harmen Fraanje, Mola Sylla e i Tenores di Orosei, frequenze ricorrenti del cinema herzoghiano. E poi Verdi, Bach, Wagner, Gabriel Faurè e un paio di corridos della “Diva” messicana Ana Gabriel ad accendere i momenti di pura vida che i Krafft hanno immortalato sulle loro pellicole, e che Herzog aspettava di rivelarci.

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