L’ossessione dell’atto visivo con cui Schrader impregnava First Reformed, la sua etica intrisa dell’immagine che toccava, sommuoveva, smuoveva le pupille – le divorava: dall’interno, dentro le cavità che costruivano la luce, la perdevano ricomponevano restituivano nel fuoco cinematografico delle particelle in movimento, che era poesia in forma di visione, spazio interstiziale degli elementi del montaggio, schegge, con tutta la teoresi sulla questione ambientale – appare qui, in Tant que le solei frappe, come punto vuoto su cui sono indirizzati gli occhi, obiettivo, potenza direzionale: fuori-fuoco dove si concentra l’Idea, si proietta, si cristallizza dai gangli cerebrali sulle pareti nude, desolate, spente. Dall’alto, nell’incipit del film, la camera dirige l’obiettivo del dispositivo-Cinema e del dispositivo-Occhio verso qualcosa che non c’è (non c’è ancora) ma che già si trova, idealmente, nel punto esatto in cui l’occhio che immagina vuole che sia.


Un inizio così, tra lattine e bottiglie vuote, vetri tra resti di tosse sulle spighe scialbe, arriva piano: prende forma da quella testa che rimugina l’Idea, ingrana, avanza nello spazio dei piani, tant’è che solo “dopo” – dopo quegli occhi un momento chiusi a immaginare, a progettare, dopo quelle labbra bisbiglianti nello spazio urbano da disegnare, da pensare, da proporre ancora; e ancora più tardi, mentre i movimenti orizzontali della macchina da presa assecondano il fluire dei pensieri, della bocca, dello sguardo, appunto – “comincia” questo film allungato, spostato sui tempi lunghissimi di un’immagine che delibera di raggiungere il suo punto focale, centrale, solo nello smottamento di quell’Idea dinanzi alla quale l’evidenza del fallimento (l’ennesimo) si innesta su una dissolvenza in nero che fa da sfondo al titolo. Tant que le soleil frappe compare soltanto adesso, mentre incalza la concitazione degli archi, nel rincorrersi indefinito di quella musica che scava in fasci abbaglianti il sole che si sgretola, battendo sul parabrezza, sulla pelle; e «frappe» sull’amarezza di un progetto «trop ambitieux» per rompere la stasi della precarietà, lo stillicidio di vite che ne deriva, senza fine.


«Jardin ouvert»: «lieu pour ne rien faire». È la notte il tempo per pensare, mentre di giorno Max (Swann Arlaud) raccoglie plastica, corre nel traffico per accompagnare la figlia, le ascolta la lezione di speranza per il futuro, nonostante la fatica di resistere. Per “non fare niente”, questo niente che è l’«Otium», l’Idea cioè che identifica, mirante a concretizzarlo, uno spazio urbano da riqualificare, dedicato allo svago, allo spreco del tempo nel recupero di una comune identità, si è costretti a stare al gioco: a trascorrere la propria vita a dirigere l’altrui sguardo verso la realtà che il lavoro intellettuale è esso stesso «un jardin utopique, génereux, visible, tangible, concret, misurable». Ma come si può misurare l’immaginazione, l’utopia? Sembra urlare Philippe Petit, come se le idee che prendono forma fossero il niente che si fa, la necessità del perpetuarsi di un ritorno: a sottoporre il progetto, questo disegno moderno, radicale, come un'allucinazione – simile al fiore della datura che non si deve toccare, pena l'avvelenamento, la morte – a chi decreta il limite tra la vita e la sua assenza (un probabile aborto è nell’aria).

«Tant que…»: il giorno precipita sul volante, sugli occhi a dare il verso nelle sonorità delle cicale, degli insetti – e volo di gabbiani, urla – ma una ragazza muore, caduta dove non batte la luce, giù, in fondo, nelle ferite della terra. Clacson, bracci meccanici.
Di nuovo alla guida, qualcosa ancora una volta muove Max, indica la direzione: sole colpisce gli occhi. Le musiche originali di Andy Cartwright convergono, con una dinamica del suono filtrante, intensiva, verso l'attualizzazione, nel finale, del proposito di Petit di stabilire ancora un reiterato "inizio": il gesto «utopico, generoso, visibile, tangibile, concreto, misurabile» di continuare a divergere nel caos, con un'azione troppo a lungo immaginata ma che ora germina al di fuori di ogni concorso, al di là di ogni istanza di approvazione. Rivoluzionari, fumogeni a oscurare il sole.
Titoli di coda in questo fumo.

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