«...siamo oggetti del desiderio solo in quanto corpi. Il desiderio resta sempre, in ultima istanza, desiderio del corpo, desiderio del corpo dell'Altro, e nient'altro che desiderio del suo corpo.»
(J. Lacan - Seminario X - L'angoscia)
E a un tratto si scivola, la vertigine fagocita lo sguardo mentre è intento ad osservare il dipanarsi della materia filmica. Si cade, si precipita nel tronco cavo del paese delle meraviglie di carrolliana memoria, o nel paese degli incubi; certamente si scorge, cadendo, una landa di liquidi femminili, orgasmici e ferini, un giardino notturno, dalle atmosfere crepuscolari. Un giardino delle delizie, come ce lo illustra Bosch, con i suoi incubi e le sue creature, con i suoi languidi inviti a smarrirsi godendo di un nettare dal sapore dolciastro, di umori vaginali, di animali dalle forme umane e umani dalle forme animalesche.
Ci si muove in un’agonia che si riverbera sul corpo, il tragitto dagli occhi allo stomaco, passando per il cuore e le viscere, è un viaggio rimbaudiano tra le onde di un mare cupo in tempesta, ci si sente come il piccolo battello ebbro, osservando un mondo oscuro, misterioso e, al contempo, così estremamente affascinante, e ci si lascia piacevolmente scivolare all’interno della vertigine, abbandonando qualsiasi remora e resistenza razionale, affidandosi alla componente sensoriale, attraverso una palpitante dialettica emozionale. «Lunga ed impervia è la strada che dall'inferno si snoda verso la luce», diceva John Milton nel suo Paradise Lost, ma chi vuole andare nella luce quando danzare tra le tenebre è così bello? Fluttuare a tempo di musica, a passo cadenzato, in quel marasma oscuro, sospeso nel tempo, dove il corpo, agitato, nervoso, in una danza epilettica, si fa mortale.
“Ballare è spaventoso, non c’è nulla di bello” fino alla sua antitesi dove la danza è salvifica e dispensatrice di pace, li dove c’è dolore e sofferenza, allora “Danzare è bellissimo, è meraviglioso”. Se ballare, in una sorta di trance, è il tramite che mette in collegamento l’umano con il divino, in una catarsi trascendentale, come per le baccanti euripidee con il dionisiaco, la danza è, al contempo, il congegno demoniaco, la porta dischiusa su una morte convulsa e feroce, dove il corpo contorto, avviluppato, snodato e manipolato, in una rielaborazione del j-horror, si accartoccia e si consuma su se stesso agonizzante.
Germania 1977, l’anno dell’Autunno Tedesco, il tappeto storico sociale è quello della Banda Baader-Meinhof, del sequestro Schleyer, del dirottamento dell’aereo della Lufthansa, degli atti terroristici della RAF e di quello “strano suicidio” di Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Jan-Carl Raspe e Irmgard Möllerche; eventi che hanno caratterizzato quel Deutschland im Herbst, raccontato e portato sul grande schermo da Rainer Werner Fassbinder, tra gli altri registi del nuovo cinema tedesco. Le immagini scorrono in sottofondo, news e telegiornali raccontano gli avvenimenti di quella seconda metà degli anni settanta in Germania, mentre l’Italia era sconvolta dagli “anni di piombo” e dalla corrente femminista che rivendicava i diritti delle donne al grido di «Tremate, tremate, le streghe son tornate!».
Luca Guadagnino parte proprio da quel sottofondo storico per il suo Suspiria, presentato nel corso della Mostra del Cinema di Venezia. Da Friburgo a Berlino, dalla favola gotica argentiana si passa ad una ricostruzione, dalla solida architettura, del 1977 berlinese, l’anno in cui era uscito il capolavoro visionario di Dario Argento.Perché il Suspiria di Guadagnino non può essere definito come un remake, ma è un qualcosa che va oltre, che vive e splende della sua forza, è una riscrittura da parte di chi ha amato fortemente l’opera originaria, l’ha assimilata e ne crea un omaggio altissimo che brilla di luce propria. Non a caso, l’anno scelto è proprio il 1977, l’anno in cui l’opera argentiana ha illuminato le sale, l’anno in cui il film si è attanagliato alla retina di coloro che se ne sono innamorati.
Il Suspiria di Guadagnino non è un satellite ma è un pianeta che viaggia su un’orbita diversa da quella argentiana, ha fagocitato l’oggetto amato voracemente, assaporandone ogni sfumatura, conoscendone ogni ombra e dispiegando le pieghe di un corpo desiderato oltremodo.
Concentrato sul femmineo e sulle sue variazioni, Guadagnino esprime la molteplicità femminile, dalle tante sfaccettature diamantine, ora riflessa negli specchi, ora attraverso le tre trasfigurazioni interpretative della Swinton, ora osservando da vicino la mutazione falenica di Susie (Dakota Johnson) e della Markos morente in cerca di un nuovo corpo involucro. Una, trina e molteplice la femmina di Guadagnino, in conflitto con se stessa, con le sue simili e con il resto del mondo, usa il corpo come forma di espressione estrema, come veicolo di morte e di vita; consapevole della sua forza, il femmineo non teme la sessualità, ma la domina, non ne è vittima, né se ne serve in alcun modo, eppure è un corpo erotico e allo stesso tempo politico.
Il potere del corpo è il potere della donna, madre, figlia, femmina e last, but not least, strega. Il corpo nei suoi movimenti convulsi, è al centro della danza guadagniniana, osservato, scrutato, studiato da vicino, la macchina da presa danza intorno all’involucro, con movimenti sinuosi. Bozzolo crisalideo, pronto e smanioso di mutarsi in altro, spasmodico di divenire, non senza dolore, non senza paura; i sospiri di Helena Markos cercano un nuovo tegumento in cui invaginarsi. Il conclave di streghe riunito, al fine di trovare una giovane membrana che possa permettere alla Madre di vivere, è un perturbante femminile, misterico e inquieto, dove si confrontano personalità eccentriche, in sottofondo il brusio delle voci e la mdp compie una fluttuazione quasi ellittica, fluida, per raccoglierle tutte in uno sguardo ampio e ravvicinato, un moto che porta alla mente un’inquadratura del Possession zulawskiano, quando il regista polacco danzava intorno al corpo di Sam Neil per catturarne la nevrotica follia.
Le streghe guadagniniane scherzano beffandosi del membro poco virile del poliziotto con il loro uncino, ridacchiano e scherniscono il maschile, troppo goffo, troppo umano. Susie acquisisce la consapevolezza della propria forza frame dopo frame, la certezza di essere la nuova Madre, colei che elargisce la morte come dispensa salvifica, colei che annulla il passato, i ricordi e le rimembranze, giunge nel sabba finale che si accende di vermiglio e rubino, dove i corpi sono doloranti, sofferenti e invocano la morte in quella danza matissiana di figure rosse, sanguinanti. Se nello svolgersi filmico i colori sono sfumature livide, è proprio nel sabba che il rosso argentiano torna ad accendersi, grondante plasma e ricco di sfumature baviane, le stesse di Sei donne per l’assassino e Terrore nello spazio. L’architettura e la costruzione dello spazio è una delle caratteristiche dell’opera di Guadagnino, la mdp si muove negli ambienti interni ed esterni ridefinendone i contorni e le forme.
Così lo studio del dottor Josef Kemperer, piccolo, stretto e dalle tinte autunnali racconta la vita di un uomo solo immerso nei libri e alla ricerca dell’unico amore della sua vita, smarrito, perso a causa della guerra. La Tanz Academy, molosso dalla struttura esterna mastodontica e imponente, si erge in una Berlino cupa per poi aprirsi, negli spazi interni, a linee rigide e severe. Inbal Weinberg, la production designer che ha lavorato con il regista alla creazione del set, sembra essersi ispirata al modernismo di maestri come Le Corbusier, Adolf Loos e Josef Hoffman ma anche alle architetture influenzate dalla scuola Bauhaus. I lampadari nella sala di danza sono saldi al soffitto come ragni metallici e nel riflesso degli specchi tutto si raddoppia e si moltiplica dostoevskijanamente come la natura umana o, forse più esattamente, come la natura femminile.
Un’opera di baccanti e streghe, la presenza degli uomini è ridotta al minimo, si muovono sullo sfondo, in secondo piano e in dissolvenza, non è un caso che l’unico protagonista maschile, il dottor Josef Klemperer sia splendidamente interpretato da una donna, Tilda Swinton. È un universo al femminile, con una forte componente erotica, l’attrazione sessuale tra le donne dell’accademia di danza (Susie e Madame Blanc, ma anche tra Susie e Sara) esplicitata dai gesti e dagli sguardi, ma è anche un femmineo in cerca di riscatto; la fierezza della donna è la rivincita verso il maschilismo imperante e stratificato della nostra società, ieri come oggi, presente e dilagante ovunque. Guadagnino confeziona un’opera che sperimenta con gli spazi, i riferimenti artistici e pittorici, con il suono, la musica di Tom York, con il montaggio di Walter Fasano, perché il Suspiria guadagniniano è un film lacaniano (lo stesso Jacques Lacan viene nominato da Klemperer in apertura di film), politico, di rottura, fieramente femminista.