La strada del cinismo, del nichilismo passivo, e del gelido grottesco nei cui anfratti si esaurisca l'umano, che era stata del Lanthimos delle origini – ricordo l'impressione che fece all'epoca Kinetta ma ancora di più Kynodontas, a inaugurare una vera e propria maniera del cinema greco – e aveva raggiunto il culmine soprattutto nel Sacrificio del cervo sacro, ora sembra accantonata in queste Povere creature, così Bella Buxter, una robotica poi flessuosa Emma Stone, con la sincerità infantile che la contraddistingue, lo svela lapidariamente a Lanthimos (Henry): «sei solo un bambino che non sopporta il dolore del mondo. Il mondo non è solo cattivo».

Eppure il negativo sopravvive e si fa segno congruo: intesse un sottofondo mucido, cupo alla base del film; traspare come una specie di eterogenesi del messaggio, del postulato, una muffa irragionevole che germina a prescindere dal discorso, una sorta di fuga dal discorso (come la chiama Derrida) per semplicemente apparire, immagine, nella sua materia fermentante. È un'aura decomposta dell'immagine, la sfumatura smorta, putrefatta di un cinema da sempre inquieto ma ora indirizzato al progresso, al femminismo entro i crismi della favola; così anche il vituperato fish-eye diviene tollerabile, anzi perfettamente funzionale a uno sguardo in deliquio e al paesaggio stridente, balzano, deforme che inquadra.

Stonature, amenze, distonici bofonchiamenti d'arpe, d'archi, di trombone e altri ottoni, ricami sbilenchi di pianola, fino all'accrocco di trombe plurime attivato da vari mantici (musiche stupefacenti di Jerskin Fendrix), nel cui motivo bislacco si svolge il ballo a Lisbona, in passi grotteschi di danza (replica di quelli della Favorita: sberleffo delle lacche, dei lussi, dei gesti leccati, opulenti, fondati su un che di scatologico), e poi smorfie, arruffi, che sono la gestica propria di questo corpo-cinema: lo sdilinquimento, la lascivia stonata dei suoni, fino alla pernacchia (quando non è propriamente peto, nella cella di manicomio) emessa da Duncan Wedderburn (magnifico, ridicolo Ruffalo), che danno il ritmo di un movimento sbilenco, storto.

Se l'occhio di questa povera creatura, il congegno attraverso cui vede, inquadra, è il fish-eye (l'occhio che deforma le cose e le sospende in una sorta di limbo ovattato, afasico, inane), i suoni che emette sono questi stridori, questi aborti armonici, e i suoi movimenti sono quelli sgraziati, straziati degli storpi, dei focomelici, degli scherzi di natura. Eppure, in controcanto, ecco le monte sfrenate di Bella, le copule ruvidamente sublimi, uno scorcio di culo candido mentre se ne sta prona e i maschi vizzi e irti o i preti, ne fanno sobbalzare le natiche, i seni, le sopracciglia. Goffaggine e sinuosità, in questo secondo caso un coreografico klossowskiano, batailliano; pose d'arti, protrusione di labbra, di lievi velli; un piacere che viene dall'irruenza, dalla veemenza, la momentanea, simulata e condivisa riduzione del corpo a cosa: questi i poli entro cui si muove questo film sulla base dei progressi psicomotori compiuti da Bella.

E di lì la voce di questo sfatto organismo cinematografico che da gracchiante balbuzie o glossolalia, e poi gemito di copula, si fa parola politica, socialista, femminista. Se apologo femminista doveva esserci (secondo una voga, legittimissima, sacrosanta, in atto della cultura contemporanea, scongiurando per fortuna le idiozie del me too) allora ben venga questo palinsesto intriso di decomposizione, di ambiguità iconografica e concettuale, della coscienza della caducità del corpo, della vita, di una luce cadente che intride tutte le cose, un'atmosfera gonfia di nuvolaglia, di ematomi, prefigurazione del tumore che uccide il “mostro” Godwin (ancora splendido Willem Dafoe), variazione sul tema del padre, con le sue inevitabili colpe, le sue fragilità: tutto gli viene perdonato in una scena di inaspettato struggimento, quando spira con accanto Bella e Max.

Certo si direbbe che il discorso è altrettanto programmatico che in quell'inezia, quella sciocchezza che è Barbie (eppure Greta Gerwig aveva girato un ottimo film, Lady Bird in cui il femminismo aveva anche una funzione, come dire, socio-economica), ma qui appunto la carne è livida, la luce inquieta, l'amore diverso, in progresso e così il sesso: immorale per l'eunuco Godwin; strumento di liberazione poi di sussistenza per Bella; coercizione per il suo ex marito; parte di una condotta equilibrata, affettuosa, appassionata per Max; motivo di tronfia esorbitazione, poi di rivendicazione proprietaria per la marionetta Duncan Wedderburn; e poi ci sarebbe Marta, quello che pensa a riguardo, eccezionale, impassibile figura comico-sapienziale.

La carne è debole, cede, il mondo cadente, nonostante la filosofia, il pensiero indichino la strada per una costante evoluzione: ma evolversi significa prendere atto dell'inevitabile caduta, di un sempre cadere che è il cinema, il segno, l'estetica entro cui essere (fuori dal segno, dall'interpretazione, non si è se non capra, uomo-capra), essere-in-caduta, nella costante catastrofe delle cose, stare nella «luce catastrofica» di quello che è divenuto il cinema di Lanthimos e si sgrana nei titoli di coda tra sfondi vagamente rococò, intarsi, anticaglie e soprattutto ruggini, plaghe di intonaci scrostati, sfondi marcenti, ampie lamine rugginose il cui morente rosseggiare è la fuga dal discorso, dal programma femminista, e la sedimentazione ineffabile, segreta, dell'apparenza. Bella è sdraiata, legge, parla un linguaggio fuori dal comune, dotato di una sintassi spuria, imparato sui libri e nei bordelli: intorno ha la sua comunità, una comunità nuova, un amore nuovo, con i quali vivere dentro il costante cadere, dentro il costante marcire della luce, della ruggine.

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