Da queste parti - solito bestiario al lido e nelle sue appendici cittadine: ieri ad esempio, mentre mi perdevo per i calli di Cannaregio, zoppicante ed esausto, signore in belletto a bofonchiare di passerelle e percalli - si sente una certa supponenza, e un pregiudizio, riguardo al Padre Pio di Abel Ferrara: roba per papaboys, dice, o per la bassa utenza dei film televisivi in onda su raiuno nelle sere d’autunno - dopo la cena, bucce d’agrumi giacciono sul tavolo, nel piatto insieme a una morta semina di briciole, poi lo sbratto, il crepuscolo del tubo catodico, la tristezza della sera -, ma senza aver visto il film, solo per via del soggetto, il frate, il santo.

La realtà è che, alla prova delle immagini Padre Pio non tradisce le aspettive di chi già da tempo, già dal tempo di Pasolini è entrato in sintonia con questo nuovo Ferrara: più perentorio e rude nel montaggio, anche nel montaggio interno all’immagine - la superficie in chiaroscuro delle immagini che sembra ambire alla rudezza, alla sgranatura del pixel, l’abisso spurio, mortuale della materia cinematografica.

Qui la cosa sembra portata a esiti estremi: le immagini come metalliche, di ferro brunito, sembrano tagliate da una sega elettrica, con tanto di filettatura tagliente sui bordi, e poi saldate insieme - montate appunto - senza badare a raccordi, coesivi, ecc.: c’è una violenza in questo sguardo, l’urgenza di fare cinema propria di un talento agli esordi e non di un regista che ha cominciato a fare cinema più di quarant’anni fa; anzi, a pensarci bene, negli ultimi suoi film si può notare un furore formale che magari è quello di film come The Driller Killer.

Ne è esempio l’inizio horror di questo Padre Pio, con l’audio urlante, urtante (sembra Tsukamoto) quando il frate vede una delle tante incarnazioni del diavolo, che lo afferra, lo trascina per l’ammattonato del convento: del resto tra le musiche ci sono brani tratti da Shining che dice molto dell’eterogenesi dei fini di questo film.

Del resto la figura del frate non è così centrale come si potrebbe pensare: con il suo tormento, il suo umano dubitare, rappresenta il contrafforte spirituale al discorso ideologico, comunista, di Ferrara, per il quale non c’è politica, e tanto più politica progressista, al di là dell’umile, semplice corpo (anche corpo sacrificale) del lavoratore, della sua condizione di ingenua fibra del mondo, come una creatura post-francescana (nel rapportarsi dei personaggi al tenore dell'inquadratura, c'è un che di rosselliniano, un farsi flagrante, delle cose e dei protagonisti) e  che si munisce di consapevolezza politica e rivendica né più né meno che la sua sopravvivenza. C’è qualcosa di evidentemente pasoliniano in questa convergenza della spiritualità nella politica (e viceversa), e nella politica dei corpi innanzitutto, immersi nella polvere, nelle esalazioni della terra.  

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