Il digitale nel cinema di Francis Ford Coppola è sempre stato un elemento traumatico, qualcosa impossibile da applicare in maniera “invisibile”, ma piuttosto un’invasione che lascia segni violenti, una massa estranea che rimane a vista, come spoglia senza vita che galleggia sulle immagini.

In Francis Ford Coppola’s Megalopolis, esattamente come in Bram Stokers Dracula trentadue anni prima, la computer grafica e gli effetti visivi computerizzati sono per Coppola qualcosa di doloroso da maneggiare, da accettare come vizio inevitabile della contemporaneità. Se nel 1992 la decisione fu radicale, quella di licenziare in tronco il team degli effetti digitali per tornare alle origini del mezzo cinematografico (miniature, matte paintings, reverse photography e front projection), rinunciando completamente alla computer grafica, in questo caso - pur licenziando anche stavolta, a metà della lavorazione, il team che se ne stava occupando - l’alterità del digitale viene accettata e accentuata, mai camuffata, continuando un processo di sperimentazione linguistica cominciato con Youth Without Youth (2007, prima sua produzione quasi interamente digitale) e Tetro (2009), poi deflagrata con Twixt, sconfinamento nel videogioco, allucinazione poligonale sull’abisso autobiografico (la morte, in un incidente in motoscafo, del primogenito Gian-Carlo, nel 1986).

Megalopolis è per Coppola il suo film-cattedrale, ma con i mattoni a vista, progetto monumentale costitutivamente pericolante, di cui si vociferava fin dagli anni ’80, autoprodotto con 130 milioni di dollari perché ritenuto da tutti troppo difficile da finanziare con le modalità tradizionali. Un kolossal retrofuturista che è anche l’autoritratto dell’autore come ubermensch già sconfitto, ridottosi a giocare con la titanica possibilità di fermare il tempo con uno schiocco di dita, senza però che questo “superpotere” abbia effettivamente una significativa capacità di cambiare le cose e agire sul presente. Nessuna speranza viene riposta nel supereroe, tutt’al più nell’umanissimo eroe “vidoriano”, sul modello di quello de La fonte meravigliosa tratto da Ayn Rand. Una dimensione totale di débâcle, di fallimento ab orìǧine, che è forse la cosa più affascinante di un progetto illogico nella sua magniloquenza, nel suo voler raccontare in maniera definitiva e onnicomprensiva l’America contemporanea, la sua decadenza, le sue divisioni, la sua disperazione nell’era (post?) Trump, nel totale disinteresse dei codici con i quali questo genere di epopee di potere famigliare sono state recentemente proposte con successo (si pensi ovviamente a Succession).

Due uomini si confrontano e, attraverso di loro, due concezioni opposte del mondo e dell’urbanistica: quella di un sindaco nel solco di David Dinkins e quella di un architetto geniale, inventore di un materiale rivoluzionario, alter-ego idealizzato di Robert Moses, che si oppone alla città come spazio ammorbato dai propri rifiuti, luogo dello spreco, centro di segreto dominio che aumenta le proprie dimensioni come una formazione patologica in rapida espansione. In questo senso Megalopolis trova un inaspettato punto di contatto con Tomorrowland di Brad Bird, non a caso ringraziato nei titoli di coda. In quella stranissima opera disneyana, in tensione tra opposte necessità industriali e velleità autoriali, la fine del mondo si configurava come profezia autoavverante, come ipnosi collettiva indotta da un ripetitore (il “monitor”) che mostrava all’umanità, sebbene inconsciamente, come sarebbe stato il proprio futuro.

Il “mondo di domani” secondo Brad Bird era modellato sull’utopia dello stesso Walt Disney e del suo Experimental Prototype Community of Tomorrow, ovvero una città del futuro destinata a non essere mai davvero completata, per sempre “in potenza”, utile a testare nuovi modi di vivere in comunità e nuovi materiali con cui migliorare l’esistenza dell’uomo nell’ambiente che oggi gli è più congeniale, ovvero quello urbano. Il sogno radicale di una nuova organizzazione della società poi diventato un theme park con biglietto d’ingresso (esiste forse più ironico ed emblematico disfacimento di un’utopia?).

Ma quel sogno di un progetto destinato a non terminare mai, a essere invece infinitamente aggiornabile, rimodulabile, continua occasione di collaudo, è lo stesso che Coppola ha cullato in questi ultimi due decenni con la sua idea di cinema come organismo vivente - che è ciò che si dice appunto delle città nella moderna concezione urbanistica fondata dal botanico Patrick Geddes - in cui anche l’innovazione tecnologica, quindi la computer grafica, è una produzione di questo stesso organismo, una sua peculiare proprietà emergente, manifestazione esteriore di un modello che si sviluppa organicamente più che il risultato di una manomissione operata da fuori. Se è vero quindi che ogni tentativo di progettazione urbanistica non può che essere interattivo e basato su piccoli aggiustamenti tra i luoghi e gli abitanti, non solo umani, della città, come ci spiegava Geddes, allora questo vale anche per il cinema e i suoi spettatori.

Secondo l’idea iniziale di Coppola, Twixt nel 2011 avrebbe dovuto trasformare i registi in DJ, spingendoli ad andare in tour con i loro film per “remixarli” continuamente, creando versioni sempre diverse della loro opera. Nelle prime proiezioni pubbliche di quell’abbagliante fiaba gotica, Coppola con un tablet selezionava al volo le scene, cambiando di volta in volta la loro successione nel montaggio, sostituendo in alcuni punti la voce fuori campo di Tom Waits con la sua voce dal vivo, mentre il compositore Dan Deacon riarrangiava la colonna sonora in tempo reale. In maniera non del tutto differente, anche se meno dirompente, il pubblico di Cannes ha potuto assistere alla performance che ha accompagnato alcune delle proiezioni di Megalopolis, con l’intervento improvviso di attori in sala che, dialogando con le immagini su schermo, hanno contribuito a trasformare l’esperienza cinematografica in un “live show”.

Se in Tomorrowland si provava però la vertigine del vuoto, davanti a scenari completamente finti, creati dal nulla, davanti a utopie posticce, in Megalopolis è ben presente una realtà urbana precisa e circostanziata, che è quella di una New York imperiale, che sintetizza in sé l’America tutta e forse il mondo intero. Pur incistata da una computer grafica che, attraverso fenomeni di coalescenza, fusione, sovrapposizione, contribuisce alla formazione di configurazioni cinematografiche complesse e composite, la città di Coppola è, senza mai alcuna ambiguità, la New York che abbiamo imparato a frequentare anche grazie al suo cinema, sulla cui precedente mitologia ne viene fondata una nuova, per sovraincisione e non per sostituzione.  

Coppola ha cominciato a girare questo suo film-cantiere, sotto mentite spoglie, già nel 2001, con l’aiuto di Ron Fricke (leggendario direttore della fotografia su Koyaanisqatsi), documentando tutte quelle azioni che rendono una città quel che è: la distribuzione alimentare, la manutenzione delle infrastrutture, lo smaltimento dei rifiuti. Un ancoraggio nella realtà prima di cominciare a ipotizzare la storia di finzione, rovina e decadimento che sarebbe diventata quella di Megalopolis. Una preliminare esplorazione delle immagini dei luoghi reali su cui poi si sarebbe innestata la science fiction (come nel bellissimo The Creator di Gareth Edwards). Ed è forse questa maggiore aderenza a ciò che già c’è, al tessuto pre-esistente, la principale differenza, nel cinema come nell’urbanistica, tra chi deve progettare città (Megalopolis) e chi invece parchi divertimento (Tomorrowland).

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