Il cinema non può che stregare con il suo potere ipnotico, i suoi snake eyes, il piacere della mani-polazione con una protesi meccanica ma adeguata come un guanto, il passo/ritmo sensuale, l’idillio del rito collettivo come un sabba, la conseguente tra(n)s-formazione dello spettatore in testimone/martire di un’esperienza che muore nel tempo di una rappresentazione.
Zemeckis in questa nuova traduzione filmica del romanzo omonimo di Dahl ha compreso che streghe e cinema sono indissolubilmente e irreversibilmente legati. Infatti la prima immagine è proprio quella di un proiettore, un occhio tecnologico che rivela la Storia di streghe “realmente” esistenti e di innocenti vittime, poi carnefici. La narrazione comincia nel 1968 quando negli USA muore Martin Luther King ma non il suo (American) Dream profanato dalla “supremazia bianca” (invisibile ai media/al cinema) ai danni del “popolo nero” in una eterna lotta come gatti e topi. Le streghe, nonostante l’ambientazione e i personaggi simbolici, non è necessariamente (solo) un film politico e gioca su una superficie opalescente (che nasconde la rimozione/verdrängung di una comunità) dalla raffinata e brillante apparenza (lo shining della settima arte). In altre parole/sembianze questa pellicola è la chicca ben confezionata al cianuro nella mano di una gentile signora in uno degli scatti iniziali oppure è l’elegante, sontuosa sala (trucco) che consente di (s)vestirsi, mutare aspetto e in cui ognuno al suo posto (nascosto nell’ombra o seduto comodamente) può osservare la luce del mito che diventa spectaculum.
La “sala” è il luogo dell’immagin-azione/utopia per eccellenza, è la finestra/schermo sul mondo. Non c’è “visione” senza di essa e quindi alcuna metamorfosi, solo sterile e statica conservazione, destinata a finire, senza (ritorno al) futuro. La strega, come pure “l’uomo nero”, è fascino e paura, è lo straniero/un-heimlich che viene svelato e che cambia e (in)forma uno sguardo candido. Il punto di vista si ribalta (come l’auto guidata dai genitori del piccolo protagonista che ricorda la cabina dell’aeromobile di Flight guidato anche in quel caso da un uomo di colore) e denuda i “ruoli” e la mission(e) di ciascuno nella società.
Zemeckis dirige con la perturbante leggerezza di Uncle Walt (Disney) raccontando con stile antropomorfo di eroici bambini che si convertono in “topolini” (cresciuti in fretta, come per magia) e donne accoglienti come una chioccia, astute come serpenti, goffe e superficiali come papere (la discussa fisionomia delle streghe: calve, con una bocca smisurata e piatta, mani e piedi palmati che somigliano a zampe dall’incedere irregolare).