Trovi, nella prima mezz'ora del film di Lucile Hadžihalilović, La tour de glace, in concorso a Berlino75, quello che gli occhi in attesa, invasati di forme si aspettano: il vibrare, trascolorare dell'immagine in quanto microcosmo a sé, cosa a parte, ad arte, anche se l'unica arte possibile sembra essere quella di rendere possibile la libertà fermentante dell'immagine. Lo sguardo è desiderio di vedere, nella prospettiva di Lacan: ma non solo quello dello spettatore, anzi il suo è il meno importante rispetto al desiderio di vedere dell'immagine, che ci riguarda.
È inutile tornare ancora al concetto di realismo di Bazin o a Deleuze, alla sua idea di veggenza in quanto corpi, panorami in fibrillazione sullo schermo, che hanno sviluppato la capacità di vedere, di guardarsi intorno: basti sapere che la fibra dell'immagine non è data, non è data morta, ma è semovente nella misura dello sguardo. Che è il desiderio individuato nello scorcio, una sorta di solecismo nella veduta, un'increspatura del segno nel vasto, devastante pianoro dell'immagine, che nel momento in cui la si induvidui, guarda, dona lo sguardo al soggetto.
Si direbbe che guardiamo solo quando l'immagine acquista la vista riflettendosi nei nostri occhi: il nostro sguardo è il riflesso di quel solecismo. Ecco, il film di Hadžihalilović per i primi trenta o quaranta minuti si guarda intorno, poi ti punta e ti prende, ti tiene, ti dona lo sguardo, prima di lasciarti, divenendo una copia, per giunta sbiadita di Finalmente l'alba di Saverio Costanzo, che invece aveva il pregio di farlo durare, quello sguardo. Ma cosa c'è in questa prima parte di così affascinante? Ci sono condizioni atmosferiche pure, cristalli puri, per usare ancora il lessico di Deleuze, eventi slegati dall'egida narrativa e dotati di una loro sostanza di pura presenza.
Soprattutto una pista di pattinaggio in piena notte, un po' decadente, retrò, il cui fascino sta proprio nella sua consunzione, nel suo decoro tutto analogico: circonferenza, recinto tutto cinematografico, semiologico; eremo fatto di suggestione, presentimenti; poi simbolo, spavento (estasiante, estenuante) del vuoto, della solitudine. È una notte favolosa, colma di frequenze e sequenze: Jeanne resta sola in questa notte chiusa su di sé, catafratta del proprio nero, muto mistero. Troverà le quinte di un teatro di posa in cui rifugiarsi, altro luogo straordinariamente cinematografico, non per la sua funzionalità di luogo atto alle riprese, alla pratica del cinema (industriale), ma per la sua natura fuori dal tempo, la sua ontologia di nido, di zona a parte bagnata dalla penombra e dai raggi provenienti da un prisma, un pendaglio rubato dal vestito della regina delle nevi.
Cristallo appunto, entro cui scorgere lo spavento e il riparo, la paura e l'estasi degli spazi angusti che, per questa stretta finitudine, avendo pienamente coscienza del limite, dicono, per contro, in contrappunto (per coscienza di contrappunto, per ineluttabilità del contrappunto, se è vero che esiste il punto), di infiniti, di infinite, favolose rifrazioni. Se c'è un film in cui sia possibile scorgere il senso, l'essenza stessa della favola, questo è La tour de glace, salvo poi smarrirsi dopo la prima parte in una secca ritmica, in una dispersione di simboli (che tornano vibranti solo nel finale), anziché una disperazione di simboli: in una concentricità metacinematografica che però ha perso la propria vertigine.