Vista nel suo braccio acquatico, nel mezzo di due strati residuali urbani, Oslo si sparge agli occhi, fluttua, in apnea nel prologo: condensata in prolessi narrativa nel doppio sguardo costruito da Trier, prima con la messa a fuoco di lei, al di qua della balaustra, che fuma nel suo vestito nero, stretta nell’elastico, sottile fra i capelli come la striscia a percorrere la schiena; che si gira, le spalle allo spettatore in attesa, volge la testa a quello che appare dall’altra parte salire, poggiarsi sui profili alti della costa; poi con la focalizzazione delle cose, interne ed esterne a quello stesso fluire, in una sorta di orfica corrispondenza del sé, cosmogonia che inizia da lì, da quelle pupille scosse, liquefatte, sempre sul punto di annegare nelle acque trattenute a stento di quel mare.
È l’inizio della messa in scena di un meccanismo digressivo che il regista sceglie di adoperare come cifra stilistica della sua opera, strizzando l’occhio – al modo di una Renate Hansen Reinsve dai tratti da diva, che ammicca alla macchina da presa nella parte centrale del film – alla tentazione di alcune teorie di gridare al re nudo, invocando la consumata dicotomia tra male e bene, corretto e non corretto, precarietà e stabilità, uomo e donna, figlia e padre, madre e figlia, madre e madre, arte e vita; restando, questa tentazione di semplificare la multisfaccettata portata semantica dell’opera, tutta interna agli schemi, come tentativo di dare forma secondo i correnti canoni, calibrata sulle consuete e accomodanti misure del dilagare dello spettacolo – della spettacolarizzazione del vissuto, e del vivibile – alla contemporanea, squilibrante condizione d’ essere trentenni e quarantenni, donne e uomini in un microcosmo (Oslo, appunto) che potrebbe essere scenario di storie simili a quella raccontata, seppure con modalità rapsodiche, a tratti deformate dal sogno o dalle allucinazioni. E infatti quelle che sembrano essere tematiche di grido, per le quali si accusa o si parteggia, nelle quali ci si immedesima o dalle quali ci si allontana con sdegno, falsamente scandalizzati per tanta sfrontatezza, insensibilità, superficialità, sono, in realtà, continue occasioni, per Trier, di parlare di qualcos’altro, schernendo la pretesa di avere ragione, di stare da questa parte dell’obiettivo a dire e a giudicare, a vedere quello che si vuole, che si pretende di vedere e di sentire: invece dallo schermo è tutto un invito a indirizzare altrove l’attenzione, monito a spostare lo sguardo, guardare al di sotto, al di là, con sottile sarcasmo, amaro divertissement, lucida disperazione. Di femminismo e di delusioni ancestrali, dell’accendersi improvviso degli occhi da lato a lato di una stanza e del morire irrimediabile delle passioni si dice, si vede: è tangibile nel racconto per immagini, nel frammento degli episodi costruiti con cura ma inseriti nel flusso delle scene come per caso, come derivanti dalla promenade visionaria dello stesso Trier, che appare compiaciuto di lasciar cadere lo spettatore disattento nel tranello, lasciando fare, immaginare contesti e situazioni che non sono che spiragli su voragini, domande aperte e irrisolte sulla complessità e la pluralità del senso di vivere e di vedersi vivere, di amare e di lasciarsi amare, di scegliere, di cambiare prospettiva, valutare diversamente, ripensare, decidere e fermarsi, tornare indietro, perdersi, riavvolgere la pellicola.
È un film, siamo all’interno della macchina, la vista è scossa, insicura, percossa dall’intensità delle particelle luminose, del buio invischiato in tanta acuta luce: possiamo scegliere di semplificare, di stare al gioco del regista, di accettare di essere indotti, cioè, a credere che La persona peggiore del mondo inquadri in un certo senso grandi questioni di interesse collettivo che sì, vengono toccate – le problematiche ambientali sono affrontate, così come l’horror vacui che percorre le generazioni, oppure la questione della maternità, desiderata o no, vissuta o no, oppure vissuta a metà tra rivoli di sangue annaspante nel getto dell’acqua, lento a scorrere giù per le gambe, sul piano freddo, bianco dove poggiano increduli due piedi nudi – ma toccate, appunto, come per inciso, perché sia più pregnante invece, nel paradosso dell’apparente leggerezza dello stile, attraverso lo scandalo delle parole, dei gesti e delle azioni, con l’uso dissacrante che si fa dell’ambiguità delle immagini e di quello stesso dire senza riserve, deformate dall’incubo, o sublimate dal desiderio e dal sogno, la violenza della difesa disperata della libertà: il bisogno di restare umani, sottili come vetro colorato da cui si affaccia, fotografato, un volto ormai esangue ma al culmine massimo della vita quando la vita sta per essere perduta.
È il desiderio di spingere fin dove si può arrivare, di correre incontro a quella parte remota e incomprensibile di sé che si cerca nell’altro, spegnendo la luce, fermando il tempo – il tempo degli altri al di fuori di sé e del proprio bisogno di fuggire, andando fra i palazzi e le strade e i passanti immobili lasciati indietro, alle spalle –, è la trasgressione delle lacrime negli occhi, la vertigine del passato che ritorna, la premonizione di un altro giorno.