Alle rovine terribili della storia Bruno Moroncini oppone questa monografia, edita per «Cronopio», che induce a riflettere sul nostro tempo in delirio, fucina di pensieri totalizzanti, dispotici, dissennati che passano attraverso l’esaltazione dell’individualismo a ogni costo, meccanica di corpi svuotati di ogni possibilità, se pure minima, di redenzione.

E questa “storia” d’Italia, la nostra, che dorme ancora sotto le macerie di un passato che resiste nella sua forma più totalitaria, che è quella dei consumi – e che nella riflessione dell’autore assume i contorni inquietanti di un discorso più ampio sulla società attuale, che si intuisce, a seguito dell’analisi di quell’altra intuizione, possente, predittiva del poeta Pasolini – inizia dal confronto con Aldo Moro per passare, attraverso  il «sintomo» della lingua, a individuare proprio in quest’ultima la misura delle cose: nello specifico, del potere, o del vuoto di potere, nella sua valenza personale e collettiva.

Una lunga «digressione» (come la definisce lo stesso autore) sui meccanismi e sul desiderio del potere che Pier Paolo Pasolini ha conosciuto quando in questa terra desolata, testimone autentica della vita soltanto nella sopravvivenza, estrema, e solo ormai mediante l’oralità, nella cultura contadina, per un momento tornavano le lucciole, ultime superstiti di un cambiamento radicale che è anche indice di una «mutazione antropologica» ormai compiuta: descritta soprattutto attraverso l’analisi dell’opera testamento dello scrittore regista, Petrolio, oltre che ricorrendo a film come Edipo Re e Salò il cui filo conduttore è l’origine del potere, individuabile freudianamente già nell’infanzia e in quel processo di marginalizzazione del padre, figura contraddittoria, ugualmente e fortemente presente nell’uomo Carlo Alberto che pure voleva il figlio poeta.

In esergo al primo capitolo si leggono versi di Marina Cvetaeva, traccia allegorica di quello che Moroncini definirà «un resto» nella bellissima, vitale conclusione di questo libro: «Ci sono al mondo esseri superflui, creature in più, aggiunte senza peso./ (Assenti dagli elenchi e dai prontuari, inquilini dei pozzi più neri.)/ Ci sono al mondo esseri cavi, esseri presi/ a spinte, muti: letame/ e chiodo per gli strascichi di seta […]». Un poeta, il poeta non è che questo dire muto, una cavità piegata sulla comprensione dell’uomo, residuo invisibile, che rompe e disgrega, frantuma e avanza; un approssimarsi per eccesso da cui si genera una forma, la forma della creazione dell’opera – che è l’essere nel linguaggio e, nel caso specifico, nella «lingua scritta della realtà», il cinema – continuamente dislocato rispetto al presente che pure tenta di abitare interpretandolo, sanguinando. Ed è, questo in più, qualcosa che resta: «un geroglifico inafferrabile e angosciante», l’atto potente ed erotico, creante, desiderante, della scrittura.

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