Sono tutti in vario modo interessanti, e di proficua lettura, i saggi contenuti nel recente volume edito da Ombre Corte, L’insorto del corpo. Il tono, l’azione, la poesia. Saggi su Antonin Artaud (a cura di Alfonso Amendola, Francesco Demitry e Viviana Vacca): interessanti ma non esenti (salvo qualche eccezione) da un certo manierismo.

Perché? Perché credo che oggi, scrivendo su Artaud (e ribadisco “scrivendo”), sia molto difficile sottrarsi al fascino meduseo della sua scrittura: una scrittura dis-identitaria e dis-organizzante, certo, che però ha l’effetto paradossale, proprio tramite la forza disperata che ne promana, di indurre quasi alla mimesi, all’imitazione – e l’imitazione, la mimesi, anche se perseguite con sincerità e passione, evocano inevitabilmente la sempiterna esegesi, l’esegesi sull’esegesi.

Artaud e Deleuze. Artaud e Foucault. Artaud e Carmelo Bene. Artaud e Sarah Kane. Artaud e la filosofia. Artaud e le neuroscienze. Artaud e ……… Artaud e ……… C’è sempre un richiamo ad Altro, come se non si potesse parlare di Artaud (e in effetti non si può), se non parlando di qualcosa o di qualcuno che non sia Artaud. Non esiste, del resto, soggetto-Artaud; non esistono che soggetti fratti o plurali.  

Che fare, allora? Credo che l’unica scrittura ormai appropriata nei suoi confronti sia la scrittura del corpo. Gli attori, i registi teatrali o cinematografici, tutti coloro che col corpo e sui corpi lavorano, capiranno cosa voglio dire. Forse solo loro sono in grado, e sarebbe ora, di insegnare a farsi un Corpo senza organi, come ha insegnato Deleuze, non semplicemente di scriverne (gli esempi del resto non mancano, da Grotowski a Julian Beck a Carmelo Bene). Oppure si, scriverne ancora, ma solo da parte di quelli che sono capaci di scrivere col corpo, se una cosa simile è possibile per chi non sia Artaud. Scrivere col corpo o, come dice Antonio Rezza, leggere senza occhiali (naturalmente metaforici). 

Parecchi anni fa, mi avvenne di segnalare, per esempio, certe assonanze che trovavo tra il lavoro di Rezza e quello di Artaud. Nel suo contributo a questo volume, Rezza mi dà torto e insieme ragione, proprio confessando di non aver mai letto niente di lui. Non ne ha mai letto niente, ma se ne fida. E gli accademici? “Lunga morte ai vivi che sopravvalutano la loro dispotica presenza”. Ma forse sono i curatori stessi del volume ad aver predisposto la trappola, la deflagrazione finale che spappola ogni precedente certezza, accademica o filosofica.

Per chi in particolare si interessi di cinema (e di media tecnologici), il volume lascia comunque aperto un interrogativo, a cui viene voglia di rispondere: proprio Il cinema era in grado di realizzare quel Corpo senza organi, quel Corpo elettrico, quel Corpo senza carne, di cui Artaud parlava, senza forse riconoscere da dove gli provenisse una tale suggestione - il cinema, poi la radio. Il Cso per lui era tutt’altro che un’Ombra o uno Spettro, non aveva nulla di incorporeo, era Corpo in opera, Corpo liberato – si, ma il cinema intanto, strappato ai mercanti e ai narratori di storie, avrebbe potuto cominciare a liberarlo.

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