“Un cerchio con diversi centri. Come è possibile? Non so, ma di fatto è così, ci sono cerchi che hanno più centri”

Tre città, Atene, Istanbul e Odessa, tre anime vagano inquiete, una prostituta ucraina, un profugo sudanese e un faccendiere turco; la storia è quella di un uomo, della sua vita e dei suoi ricordi. La memoria, unica e frantumata, narrata da corpi diversi, in luoghi diversi, in un tempo frammentato, le cui linee anacronistiche si rincorrono e si sovrappongono. Diversi piani temporali si intersecano rendendo il fluido narrativo unico, esattamente come le reminiscenze degli uomini confluiscono in una sola direzione: la storia, dove la storia di uno, di molti, è la storia dell’umanità, un’umanità ferita e dolorante. Il dolore è la direttiva lungo la quale corre e si dispiega il filmico di Partenonas, di Mantas Kvedaravičius, presentato in concorso alla trentaquattresima Settimana Internazionale della Critica, un racconto di pelle livida, calpestata e tumefatta, che emana l’inconfondibile odore di morte, in un non luogo dell’essere.

I corpi si muovono nella penombra e vengono lentamente risucchiati dal buio, illuminati da neon, dai blu ai rossi, ma è l’oscurità lo spazio delle fragilità umane, da cui emergono i volti illuminati da luci rembrandtiane, presentando ora visi, ora figure incomplete, sezionate da una mdp tanto prossima al corpo, alla quale sfugge, volutamente, la completezza, ma che si sofferma sui dettagli, affidandosi alle emozioni colte in un battito di ciglia, nello schiudersi di una bocca o in un’andatura scomposta nel cuore della notte. È un vagare, con poche soste, movimenti circolari della macchina seguono i corpi assorbiti dalle proprie esistenze, fluttuazioni vorticose indugiano sui vari personaggi della sinfonia orchestrata magistralmente da Kvedaravičius, e si torna al cerchio e alla sua pluralità di centri, di spazi, di vedute e di tempi. Così l’osservare dipende sempre dal soggetto osservante, offrendo allo sguardo una miriade di sfaccettature dell’oggetto osservato, e ciascuna è funzionale a tratteggiarne la complessità e la completezza. 

Se apparentemente il regista sembra deputare al reale la narrazione della sua storia, invero gli spazi che ospitano la fitta trama narrativa sconfinano nell’immaginario e la scena assume i confini evanescenti dell’onirico.
L’esplorazione degli luoghi è una ricerca dolorosa, la Grecia, il Sudan e l’Unione Sovietica, potrebbero essere qualsiasi luogo dell’esistenza e le venature di dolore che accompagnano i protagonisti sono quelle dell’umanità intera. Nella dimensione dei sogni, e degli incubi tratteggiata dal regista, la realtà è sminuzzata, come nelle graphic novel è relegata a spazi marginali, quasi indecifrabili; i frames si susseguono come vignette, confezionano immagini scomposte come nei fumetti, il ritmo cadenzato del reticolo narrativo è proprio quello dei comics, come le strisce di Little Ego, di Vittorio Giardino, che scorrono nelle scene finali, e quelle che ritraggono le vicende dei personaggi nei titoli di coda.

Il corpo vissuto come percezione e la memoria di ciò che è stato, di ciò che (si) è vissuto torna a vivere, riproposto ed esplorato, come parti di un archivio visivo, stampate su nastro e pellicola.
Immagine dopo immagine Kvedaravičius dà voce alla sofferenza del vivere, tra le donne di un bordello che parlano di amore e ideali, per le strade scure della malavita e le solitudini umane. Tutto è avvolto da tenebre materiche e in un raro momento, in cui la luce inonda lo schermo, lo scenario è quello mortifero in cui va in scena la morte, “perché quando si cade si è sempre soli e tutti fuggono”, sottolinea il regista. 

“Ma radunata già nel suo vacuo aspetto stava una moltitudine difficile a distinguersi, un milione di occhi e di stivali in fila senza espressione in faccia, in attesa di un segno...”(Auden, Lo scudo di Achille), così le parole di Auden, citato in apertura, dipingono quella moltitudine di corpi, che vivono, soffrono, lottano e sopravvivono di espedienti, ai margini della società, protagonista di Partenonas. Il tappeto sonoro, sin dalle prime scene, si dispiega accompagnando tutto il flusso filmico con sonorità che rimangono sovente sullo sfondo dell’azione, con rumori, ora più soffusi ora incessanti e martellanti, ma sempre presenti; è il fragore degli ambienti in cui si muovono i personaggi, voci, tumulti, schiamazzi, è il frastuono della vita, così vicina ma sempre distante, una distanza sterminata, che si muta in abisso dal luogo dell’esistenza. Partenonas rappresenta per Kvedaravičius il debutto nel cinema di finzione, dopo i suoi lavori precedenti, Barzakh e Mariupolis, presentati entrambi alla Berlinale; il regista si spinge oltre, al di là dei limiti della macchina cinema e dell’uomo, in una tensione continua, alla ricerca dell’essenza umana, dove la macchina da presa è lo strumento e lo spazio della libertà, fedele a un personalissimo nomos, nel tentativo di aprire nuove strade, di liberare lo sguardo dalla palpebra, di andare oltre lo schermo, nella totale adesione al reale ma, al contempo, sconfinando nell’onirico, in una nuova percezione sensoriale, mistica e misterica del cinema.


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