Il buco, scritto (con la talentosa Giovanna Giuliani) e diretto da Michelangelo Frammartino, è un film di immagini fuori dagli sche(r)mi: singolare e tridimensionale. Anche la narrazione parte da una storia inconsueta: nel 1961 un gruppo speleologico di origini piemontesi esplora per la prima volta l’Abisso del Bifurto, denominato anche "Fossa del Lupo", un profondo inghiottitoio di circa 680 metri sulle pendici del Pollino in Calabria. Parallelamente si raccontano gli ultimi giorni di un vecchio pastore indigeno.

Si tratta dell’opus nigrum di un artista che non si pone confini, senza attori professionisti e senza commento musicale, persino senza dialoghi: un autentico salto nel buio per operatori e spettatori. Ad emergere sono elementi dis-umani, dis-attesi, dis-tesi che marcano il ritmo delle sequenze che scorrono, simili alle onde di un fiume carsico e sub-liminale. L’eco delle voci terrene e indistinte ri-suona come un discanto, il naturale richiamo di un eterno contrappunto. Lo sguardo del cineasta milanese ispira rimembranze, remote sensibilità, ricordi del passato che si esprimono in foto ritratti da rotocalchi sparsi che bruciano e illuminano occhi rivolti al futuro. Ogni figura è in stato evolutivo, un viaggio in una “camera oscura”, una detection territoriale senza soluzione… di continuità. Si scorge la stessa ambizione del ferrarese Antonioni che imponeva al suo cinema un blow-up interminabile, un corpus con contorni sempre più estesi, ingranditi ma che, nel suo dilatarsi, si scomponeva e si dileguava rivelando la sua inafferrabilità.

Frammartino adotta prospettive inusitate ma sempre gli interessa la profondità di campo, la ricerca di un punto di fuga de-limitando il rapporto dimensionale uomo/spazio. La cronaca degli eventi descritta per sottrazione di parole e sentimenti mira all’essenza/assenza umana, alla fenomenologia dell’esistenza, a segnare e ri-cavare le ombrose forme della conoscenza del reale. La luce della pellicola (digitale) magistralmente ripresa da Renato Berta (che ha collaborato con Godard, Rohmer, Resnais, Oliveira, Martone), si espone ad una riconfigurazione visiva, ad un addestramento visuale che implica l’utilizzo di nuovi dispositivi di percezione, di (ri)mediazione gnoseologica. La fotografia mitizza il cinematografo e viceversa. Alla superficie della voragine ci sono due person(a)e che giocano a palla con i piedi ma lo scambio potrebbe mimare anche una partita di tennis, un continuo rimandare il “senso” (di una traiettoria, di una doppia trama, di un fuori campo) della mise en abyme, sospesa tra il nulla e il mondo (sferico).

L’orifizio della grotta somiglia (e un eloquente montaggio lo suggerisce) alla cavità orbitaria che contiene il bulbo oculare dell’anziano morente e che apre ad un “cosmo” interiore.  Le pareti della spelonca possono evocare quelle del corpo umano, perigliosi anfratti o rocce calcaree assumono la sagoma semilunare di una valvola aortica, alberi e conche si presentano a sembianza di tronchi o alveoli polmonari, camere d’aria poligonali, creste terrestri si manifestano a guisa di solchi cerebrali. E così il film diventa la proiezione di un viaggio allucinante, un lungometraggio di fantascienza, un romanzo ucronico di Asimov, uno spettacolare e avvincente innerspace in cui si registrano rumori di fondo che gradualmente si riducono e il silenzio dell’infinitamente piccolo coincide con l’infinitamente, po(i)eticamente grande. Questa odissea nello spazio si conclude tra le nebbie e nell’inchiostro di uno speleologo che mette nero su bianco il percorso effettuato (come la caméra-stylo del regista che “segna” luoghi e tempi) e sembra scrivere un noto haiku giapponese di Matsuo Bashō:

Le nubi di tanto in tanto

ci danno riposo

mentre guardiamo la luna.

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