Il tentativo, dichiarato, di Harmony Korine in questa sua nuova fase sperimentale è quello di ipotizzare ciò che viene dopo il cinema. Se in tantissimi hanno annunciato, a vario titolo e in maniera non sempre convincente, la “fine del cinema”, in pochi hanno effettivamente tentato di immaginare cosa ci può essere al di là, verso quali luoghi traghettare l’anima di questo medium apparentemente morente.
Korine, già con il precedente Aggro Dr1ft, era approdato a uno strano connubio tra video-arte e videogioco: estenuante cerimonia sperimentale, interamente filmata con una telecamera termica, piena di rabbia e amore, che sfiniva, arrivando però a rendere piacevoli le sue immagini magmatiche, laviche, che colavano davanti ai nostri occhi trascinandosi appresso i detriti del cinema che era stato spazzato via. Se però Aggro Dr1ft era un anti-film che, ironicamente, trovava il suo culmine nell’esperienza collettiva al cinema, con un impianto audio adeguato e nel buio della sala, questo successivo Baby Invasion si fa ancora più radicale e mette a punto un’esperienza che di cinematografico ha ancora meno, che sembra essere stata pensata per una fruizione completamente differente: né al cinema e né in salotto, ma piuttosto nei club e nelle discoteche, dove pure il regista americano aveva proiettato il precedente lavoro accompagnandolo con un dj-set.
Sembra essere proprio quella la “destinazione d’uso” principale di Baby Invasion e non si fatica ad immaginare un tour del producer inglese Burial - che qui firma la colonna sonora techno - con il film di Korine a svolgere la semplice e passiva funzione di “visual”. Baby Invasion, infatti, non esige la costante attenzione dello spettatore, ma può invece essere lasciato scorrere in sottofondo mentre si fa altro (ballare, ad esempio). Che poi è lo stesso metodo con cui si fruiscono le dirette degli streamers su Twitch, che il film simula in maniera molto dettagliata. A differenza di Aggro Dr1ft, stavolta Baby Invasion non replica troppo fedelmente l’estetica del videogioco, la sua computer grafica e i suoi schematici modelli di movimento, ma piuttosto il flusso video live di chi ai videogame ci gioca per il piacere del pubblico che, in tempo reale, sulle piattaforme streaming, commenta, scherza, tifa, utilizzando la chat. Che qui scorre, esattamente come avviene su Twitch, al lato dello schermo.
Insomma, non è un film nel senso canonico del termine e non è nemmeno un videogioco o l’imitazione di un videogioco nel senso canonico del termine, non essendoci degli obiettivi e non essendoci un’effettiva interazione dei personaggi con un mondo simulato. Anche tutti gli inserimenti grafici, le sovrimpressioni, le caotiche scritte che compaiono, non sono tanto quelle che troveremmo in un videogioco, ma sono invece più simili a quelle che segnalano sottoscrizioni, obiettivi di visualizzazioni, durante le dirette degli streamer. Baby Invasion è un mix di tutte queste cose (film, videogioco giocato e videogioco stremato) che riflette su come i videogames abbiano ridefinito il significato di quei segni che un tempo avremmo definito “cinematografici”. Innanzitutto la violenza grafica.
Già Hal Foster, citando le macabri immagini di morte in Ambulance Disaster (1963) e White Burning Car III (1963) di Andy Warhol, sottolineava come la ripetizione ossessiva dell’immagine violenta non costituisse tanto uno strumento di “desensibilizzazione” rispetto ad essa bensì la mediazione necessaria per ricondurla all’evento reale, alla violenza che c’era nel mondo fuori dalla finzione dell’immagine. Korine si chiede se questo vale ancora se l’estetica di riferimento è quella, appunto, del videogioco, il medium che più di tutti ha annullato la separazione tra comico ed efferato, rendendo meno “scandalose” immagini e azioni che in altri tipi di contesti - non solo reali, ma anche cinematografici o televisivi - avrebbero suscitato un’immediata reazione di sdegno e disgusto.
La ripetizione dell’atto violento nel videogioco segue le stesse logiche indicate da Foster o, al contrario, la sua dissociazione dalla realtà è totale e irreversibile? Può essere il videogioco “un catastrofico atto di testimonianza” - che è una definizione coniata per Blood Meridian di Cormac McCarthy dal filosofo Steven Shaviro - in cui le tracce del reale sono ricalcate con il sangue?
Ampliando l’analisi al mondo digitale nella sua totalità, il film canalizza la violenza ma anche la sua sostanziale impunità, dal momento che non sembrano mai esserci potenziali conseguenze per le azioni sanguinarie che vengono commesse, come se queste avvenissero in un territorio sul quale nessuno ha davvero giurisdizione. Mettendo in scena un first-person-shooter che rimescola alcune delle idee di Spring Breakers e Trash Humpers, il regista gioca su diversi temi, tra cui quelli della tecnologia e dell’intelligenza artificiale, ma anche dell’anonimato online, della possibilità di nascondere la propria identità e, quindi, anche l’identità dell’autore dietro l’opera.
Lo sa bene Burial, che nei primi anni di attività musicale decise di lavorare in incognito. Baby Invasion è, quindi, anche rispetto ad Aggro Dr1ft, sempre meno un film di Harmony Korine e sempre più un prodotto del collettivo EDGLRD. Una sperimentazione corale che assume in entrambi i casi una dimensione farsescamente spirituale, che si sostanzia in una discesa agli inferi (Aggro Dr1ft) o nella tana del coniglio (Baby Invasion): proiezioni mistiche poligonali, immagini sacre di una nuova religione vaporware.
È un organismo autosufficiente quello di Korine. Un film senza pubblico, dal momento che ignora quello reale e ne crea uno fittizio, le cui reazioni ci appaiono direttamente in sovrimpressione. Una sottile ironia che gioca anche sull’insensato desiderio di “reaction” immediata che dal mondo dei videogiochi ha già contagiato quello del cinema, in cui spesso l’opinione - istintiva e istantanea, non ponderata - conta più dell’opera. Ed è un gioco senza giocatori, considerando il limitatissimo e marginale coinvolgimento del protagonista Yellow, che non diventa mai davvero un elemento attivo nelle dinamiche del gameplay.
E lo stesso Yellow non è un attore o un personaggio filmico, dal momento che non è funzionale ad alcuna trama, e non è neanche effettivamente un “player”: è anch’esso, come tutto il resto, come i mitra, i cadaveri, le monete e le facce di neonato, un segno. Se questo fosse stato un film tradizionalmente inteso, avremmo chiesto a quel misterioso mercenario uno sforzo d’azione. Qualcosa che, invece, semplicemente cambiando estetica di riferimento, traslando l’esperienza in un altro campo semantico, percepiamo come non più necessaria.