Pubblicato per la prima volta nel 1967 e ripubblicato postumo nel 1995, Germania segreta di Jesi ritrova una nuova veste editoriale a cura di Andrea Cavalletti nel volume che qui recensiamo, il quale accoglie anche interessanti materiali inediti in appendice.
Questi ultimi, come precisa lo stesso curatore, restituiscono un’idea del travaglio intellettuale che ha preceduto o accompagnato la scrittura del libro Germania segreta. Fra tali inediti, tutti interessanti, spicca a nostro avviso la lettera inviata dall’autore a Erwin Panofsky il 15 gennaio 1965, nella quale Jesi chiede lumi al grande studioso a proposito delle immagini demoniache presenti nell’arte di Bosch, avanzando l’ipotesi che nei suoi dipinti manchi la presenza di un “volto che impietra”, quasi che esso sia stato lasciato fuori campo.
Lo studio delle metamorfosi del volto demonico è al centro dell’interesse del libro Germania segreta, il quale può definirsi, come scrive Cavalletti in una nota bibliografica interna al volume, «un discorso sui problemi della cultura germanica (e un saggio di fenomenologia del manifestarsi di tale cultura)» (p. 324). Infatti Jesi, attraverso lo studio di vari autori di cultura tedesca fra Ottocento e Novecento, da Mann a Hesse a Rilke a George, da Goethe a Wagner, per citarne solo alcuni, fa emergere importanti e fondamentali problemi storico-culturali: quale sia il rapporto con il passato presupposto dal mito, quale differenza sussista fra le divinità pagane e la loro demonizzazione moderna, che cosa sia il mito genuino e quello tecnicizzato, secondo le definizioni di Kerényi, e quale sia in ultima istanza la sostanza più autentica dell’umanesimo.
La tesi che regge questo profondo studio di Jesi è quella secondo cui la cultura tedesca del Novecento ha messo in atto ciò che nell’ambito della mitologia viene definita la “reversione del mito”, ovvero la sua trasformazione, alterazione e deformazione, derivanti da una reinterpretazione dello stesso in un contesto storico ormai mutato. Nel caso specifico della Germania primonovecentesca, tale reversione avrebbe come spinta un viziato rapporto con il passato, tipico della classe borghese, caratterizzata da un desiderio di ritorno ad esso come fonte di rinnovamento.
Secondo Jesi, infatti, il mito vive la situazione paradossale di non avere tempo né luogo: il suo passato, quindi, può essere considerato solo come il fondamento delle esperienze umane scaturito dalle sue profondità e mai come l’esperienza di uomini trascorsi. Se esso viene relegato in una dimensione passata della quale si prova nostalgia, il mito allora diventa il rimpianto per una società o forma di vita trascorse e come tale si presta ad accogliere un desiderio di morte. Quando gli dèi del mito si trasformano in demoni, per Jesi vi è una negazione della vita e dell’umanità e tali negazioni dominano la maggior parte della cultura tedesca degli inizi del Novecento.
Jesi riflette sul fatto che il mito può considerarsi genuino quando sgorga dalla memoria artistica portando con sé quella che Frobenius definiva “commozione” e inducendo nell’uomo la meraviglia della scoperta di un linguaggio valido universalmente per la collettività. Tale accesso al mito, quindi, per lo studioso, è la sostanza più profonda dell’umanesimo, inteso come ritorno all’umano, al collettivo, all’universale. Pertanto, dal momento che il mito genuino consente l’armonizzazione dell’uomo con la natura e «quasi con il substrato biologico dell’essere» (p. 181), il mito tecnicizzato è il mito deformato, ovvero «la deliberata evocazione di miti compiuta dai tecnicizzatori della mitologia» che hanno asservito il mito ad altri scopi, primo fra tutti quello di creare una memoria del proprio passato biografico o di una intera nazione (p. 185).
Le immagini mitiche come immagini demoniche e fantasmatiche non sono più foriere di conoscenza universale, ma di turbamento e di ossessione. I creatori di miti nazisti, quindi, secondo Jesi, confusero il volto terribile e portatore di morte della Gorgone, simbolo per i greci di sconosciuti e antichi terrori, nel volto di un assassino e così il suo mistero diventò un oggetto reale e concreto, il delitto. Fino a quando, infatti, la morte è intesa quale tragico limite della natura umana, come in Leopardi, la riflessione su di essa è un compito autenticamente umanistico, ma quando essa diventa devozione colpevole al mostro si trasforma in giustificazione metafisica del delitto.
Non è intenzione di Jesi cercare nella cultura borghese fra fine Ottocento e inizi Novecento precursori del fascismo e del nazismo, perché lo studioso tiene ben distinto il fenomeno sociale e politico di volgare e bassa delinquenza dalla cosiddetta “malattia dello spirito” della borghesia europea che si era fatta idolatra del male e della morte e che in alcuni casi si macchiò anche della colpa della collaborazione con i regimi. L’obiettivo più profondo di questa indagine è quello di distinguere la funzione umanistica del mito dall’aberrazione della giustificazione dei delitti attraverso la costruzione di falsi miti. E tale analisi è condotta con grande rigore e finezza di approcci ai testi letterari, dei quali Jesi disvela criticamente stili e generi, soffermandosi spesso sull’uso dell’ironia e della parodia, quest’ultima, ad esempio, considerata in Thomas Mann come lo strumento principe riservato all’artista per accedere umanisticamente alla “commozione” senza correre il rischio di esserne annichilito.
L’autore insegue soprattutto le metamorfosi di alcuni miti antichi, come ad esempio quello della fanciulla divina e quello del puer aeternus. La trasformazione di Kore nelle immagini della femme fatale risente, a parere di Jesi, della trasformazione della divinità infera in demone e «il demonismo e la deformazione orrida del mito sono sempre negazioni della vita e dell’umanità» (p. 127). Allo stesso modo indaga le figure letterarie in cui emerge l’epifania del mito del fanciullo e Jesi ricorda la riflessione di Kerényi per il quale l’immagine del dio fanciullo non è mai connessa nella mitologia classica con quella del dio adulto, perché dal mito è sempre espunta la dimensione della successione cronologica. Alla perenne infanzia cosmica e impersonale del mito genuino si sostituisce quindi l’immagine del fanciullo da cui si svilupperà un determinato uomo; e a tale proposito Jesi porta alcuni esempi di personaggi di romanzi di Thomas Mann per riflettere sul fatto che «nella violenza fatta alla natura mitica del divino fanciullo si percepisce la frattura o l’alterazione subita dal tempo mitico delle origini, divenuto passato personale in quelle strutture biografiche» (p. 296).
In conclusione, quindi, aver ripubblicato il volume di Jesi a molti anni dalla sua uscita è stata una operazione oltremodo meritoria per l’estremo interesse di un testo che necessita di essere rimesso al centro della riflessione storico-culturale intorno a che cosa sia il mito e a quale sia il suo legame con l’umanesimo, dato che l’autore ci ricorda in modo sferzante che «chi sia certo entro di sé del fallimento di ogni umanesimo, dovrebbe almeno non fare di tale certezza un programma politico» (p. 292).