Quella del regista iraniano Mohammad Rasoulof è una storia di cinema clandestino, che resiste trovando sempre nuove vie per realizzare i propri film nonostante la censura del regime, gli arresti, i trattenimenti, le multe e le angherie di un potere che non ammette la libera espressione attraverso l’arte.
Lo scorso maggio, a seguito della condanna a otto anni di carcere (poi ridotti a cinque) e alla confisca dei suoi beni da parte di uno dei Tribunali della Rivoluzione Islamica, che lo ha accusato di agire “contro la sicurezza nazionale”, il regista dissidente ha scelto, a malincuore, di fuggire dal suo Paese d’origine, dove l’intensità della repressione ha raggiunto un livello di violenza e invasività senza precedenti.
Il suo nuovo film, Il seme del fico sacro, in uscita a febbraio nelle sale italiane, ha vinto il Premio Speciale della Giuria allo scorso festival di Cannes, dopo una lavorazione avvenuta in assoluta clandestinità, contravvenendo alle regole imposte dal regime e aggirando i controlli con stratagemmi tanto creativi quanto azzardati. Seguita da una fase di montaggio condotta tra l’Iran e l’Europa, mentre il regista viaggiava a piedi tra le montagne per raggiungere, all’ultimo minuto e in massima segretezza, la Croisette. Alla fine la première del film si è inaspettatamente svolta alla presenza di Rasoulof, da quel momento ufficialmente in esilio.
Il seme del fico sacro prende il via dall’attualità - dalle immagini che documentano le proteste del popolo iraniano dopo l’uccisione di Mahsa Amini e la terrificante repressione delle stesse - ma pian piano si trasforma in qualcosa di completamente differente, in un thriller metafisico capace di inserire la storia famigliare che racconta in un contesto storico più ampio. Ne abbiamo parlato con il regista a Lucerna, in occasione degli European Film Awards 2024.
Questo suo nuovo film è una finzione che si nutre di immagini vere, quelle che circolavano sui social network, che hanno permesso al movimento “Donna, Vita, Libertà” di organizzarsi e crescere. Donne bastonate, corpi stremati caricati sui furgoni dalla polizia… È un film nato da un’urgenza di denuncia, di indignazione verso quello che stava accadendo?
In realtà il film nasce ancora prima delle proteste di piazza. Negli ultimi quindici anni ho sempre avuto a che fare con gente che lavorava per il regime, per il suo sistema giudiziario corrotto. Guardie carcerarie, giudici, censori e così via. E quindi mi sono sempre chiesto che cosa spingesse queste persone a collaborare con il regime, se ci fosse una differenza antropologica incolmabile rispetto a quelli come me o se invece ci fosse qualche sussulto anche in loro. Mentre mi trovavo in carcere, una delle guardie mi ha confessato in gran segreto di vergognarsi di quello che era costretto a fare quotidianamente, che i suoi figli gli avevano tolto la parola e che più di una volta aveva pensato di suicidarsi. È stato questo incontro che mi ha fatto venire voglia di raccontare la storia di una famiglia in cui è presente questa frattura, una storia che mi aiutasse a indagare la psicologia di persone come lui.
Io però sono sempre stato affascinato dal documentario e non a caso il mio primo film (Gāgomān, ndr) era più un docudrama che un film di finzione. Il mio cinema, d’altronde, ancora oggi, prende il via dalla realtà che vivo, dal mondo che mi circonda. È inevitabile. E se le sceneggiature funzionano è perché racconto di cose che ho vissuto in prima persona, di esperienze che ho toccato con mano. Le immagini di quello che stava accadendo per le strade erano talmente scioccanti e dolorose che non potevo ignorarle.
Mi pare che il suo cinema, prima estremamente metaforico, si sia mosso negli ultimi anni verso un approccio più realistico. In questo, però, Il seme del fico sacro rappresenta un tentativo di sintesi tra le due anime…
È proprio così. Il mio cinema all’inizio era molto più metaforico, perché la mia fonte di ispirazione principale era la poesia, la letteratura, iraniana, che doveva necessariamente esprimere determinati concetti sotto forma di metafora per evitare la censura del regime. E allo stesso modo facevo io. Mi sono però reso conto che questo approccio nasceva dalla paura e che in qualche modo dovevo liberarmi di questa necessità, e che non volevo più essere vincolato alla metafora per dire quel che volevo. E così, negli ultimi anni, il mio cinema si è fatto più realistico. In quest’ultimo caso, però, ho cercato una nuova forma, per bilanciare naturalismo e astrazione. Sono tornato a utilizzare la metafora, ma in maniera decisamente più libera rispetto al passato, come strumento retorico, artistico, utile alla narrazione, e non imposto da esigenze esterne. Come strumento anche per creare tensione.
Dimostrando che si può fare cinema “politico”, militante, giocando con il genere, in questo caso il thriller.
In Europa o in America realizzare un film “politico” vuol dire una cosa ben precisa. Si tratta di un genere ben codificato e riconoscibile, che ha un proprio perimetro di azione. Quando si lavora in Iran o in qualsiasi altra nazione non democratica, questo confine non esiste più. Tutto è politico, persino il meteo di Teheran. Cose scontate altrove, come il colore dei capelli delle donne, in Iran non lo sono. Quindi per raccontare l’Iran è inevitabile fare un film politico. E sarà sempre così per me, anche adesso che vivo in Europa. Sicuramente continuerò a raccontare il mio Paese, ma mi piacerebbe anche dedicarmi a qualche progetto che abbia degli orizzonti più ampi e che non si limiti solo a quello. Adesso ne ho la possibilità.
Il film, man mano, conduce lo spettatore verso il passato dell’Iran, specialmente nell’ultima sezione, quando la trama si sposta tra le rovine della vecchia casa di famiglia. In che modo le vicende raccontate dialogano con un passato collettivo?
Come abbiamo già detto, il film racconta innanzitutto di una famiglia e delle sue divisioni interne. Ma la domanda principale che il film pone è: perché esistono queste divisioni? La risposta sta nell’eterno conflitto tra tradizione e modernità che ha caratterizzato la storia dell’Iran degli ultimi 150 anni e ne ha influenzato la politica. Quindi ho pensato che fosse fondamentale proiettare la storia privata di questa famiglia sullo sfondo della storia iraniana nel suo complesso ed è così che, nel capitolo finale del film, ci sono in realtà due linee temporali e narrative. Mi piace pensare che ci siano due movimenti opposti: uno è quello della trama che va avanti, che prosegue, l’altro invece va a ritroso, alle origini di una concezione patriarcale radicata nel personaggio principale e che ha origini molto più lontane e complesse. Quando il potere sente che comincia a mancare la terra sotto i piedi, tende a diventare repressivo. Ed è questo che ci permette di utilizzare la famiglia del film come rappresentazione di tutta la società.
E di riflettere anche sul ruolo dei più giovani in questo cambiamento…
Le nuove generazioni hanno già ottenuto un grande successo nel corso di questi anni. Quello di smascherare definitivamente il regime e chi lo sostiene. Per troppo tempo chi lavorava per il regime fingeva di essere diverso da quello che era realmente, cercava di camuffarsi. Oggi questo non è più possibile e tutti sono ormai usciti allo scoperto. Altra cosa importante, è che questi movimenti hanno svelato anche quanto sia fragile la legittimazione che questo regime si è dato da solo. E che oggi è ai minimi storici.
Come è stato possibile pianificare le riprese di un film così complesso sapendo che i piani sarebbero potuti cambiare da un momento all’altro, visto che lavoravate in clandestinità?
Quando ho iniziato a lavorare a questo film, avevo davvero paura di non essere in grado di raccontare bene questa storia. Di fare un brutto film e di essere criticato per questo. Come succede già in Iran, dove scrivono che sono un pessimo regista (ride, ndr). Dall’altro lato, se uno lotta ogni giorno per la propria libertà personale, deve essere in grado anche di perseguire una propria libertà artistica, senza porsi troppi problemi. E poi, in tutta sincerità, ero convinto che non sarei mai riuscito a finire il film. Quindi mi son detto: facciamo un po’ quello che ci pare. Ovviamente quando si gira un film in segreto, come facciamo noi, capita molto spesso che ci sia la necessità di cambiare i propri piani all’ultimo minuto perché c’è qualche complicazione. Io spesso non ero presente sul set, perché troppo pericoloso. Ma dirigevo a distanza. E in alcuni casi ho dovuto rinunciare a quello che avevo in mente perché non sarebbe stato possibile realizzarlo nelle condizioni in cui operavamo. Ma devo dire che questa cosa col tempo mi è servita come stimolo. Prima mi infastidiva molto, ma adesso la vivo come un’occasione per tirare fuori la mia creatività più istintiva.
Proprio per questa condizione di clandestinità, il film è stato realizzato con l’aiuto di alcuni collaboratori qui in Europa. Come è avvenuta la comunicazione con loro?
Fin da subito avevamo deciso di montare il film all’estero, perché farlo in Iran sarebbe stato troppo rischioso. Quindi ogni giorno nascondevamo i “giornalieri” in un posto sicuro e creavamo dei proxy link affinché dalla Germania potessero scaricare i file. Questo è stato fatto da Andrew Bird, un mio amico con cui avevo già lavorato al montaggio di altri miei film. Così come è stato indispensabile l’aiuto di Jean-Christophe Simon e degli altri che hanno collaborato alla produzione in Europa, perché all’epoca non sapevamo se ci sarebbe stato effettivamente un film da proiettare e distribuire. Non avevamo modo di firmare un contratto, quindi tutto si è basato su un accordo informale. È stato un processo particolarmente laborioso, anche per Andrew non parla persiano, quindi non so neanche io davvero come abbia fatto a montare il film così velocemente, mentre noi continuavamo a girare. È un segreto che non mi ha ancora confessato (ride, ndr). Quando è stata emessa la condanna definitiva, quella a cui non potevo più appellarmi, ho chiamato i miei collaboratori europei e ho detto loro: da questo momento il film è nelle vostre mani perché non so quando e come potrò nuovamente comunicare con voi.
Questa collaborazione, inoltre, ha permesso anche alla Germania di poter scegliere Il seme del fico sacro come propria candidatura nazionale per gli Oscar.
Non avrei mai immaginato di trovarmi nel bel mezzo di una campagna per gli Oscar, perché mai ovviamente la Repubblica Islamica dell’Iran avrebbe sostenuto la candidatura di un mio film. La scelta della Germania di candidare il Il seme del fico sacro mi ha davvero commosso. Non avevo mai pensato prima d’ora a un’opzione del genere. Pensavo a me stesso esclusivamente come un regista iraniano, mentre adesso ho capito che ci si può riconoscere anche negli altri. Il valore di essere una comunità senza confini. Quello che ha fatto la Germania, scegliendo di rappresentare il proprio Paese, dal punto di vista cinematografico, attraverso un’altra cultura, è stato davvero di grande ispirazione per me. Ho sempre avuto un legame speciale con questa nazione. Nel 2005 sono stato invitato al festival di cinema di Amburgo, dove ho vinto il premio della critica per L’Isola di Ferro, il mio primo film di finzione. Mentre camminavo per strada, cercando di raggiungere la cerimonia di premiazione, una signora mi ha fermato e mi ha regalato una mela verde. Dicendomi: mi è piaciuto molto il tuo film e ho colto questa mela per te dal giardino di casa mia. Ecco, non credo ci sia altro da dire. Non è una cosa scontata, considerando che ultimamente, a Los Angeles, è successa una cosa opposta, ovvero che una signora americana è venuta da me dopo la proiezione del Il seme del fico sacro per dirmi che secondo lei il personaggio del patriarca Iman aveva ragione e che le figlie avrebbero fatto bene ad ascoltarlo. Perché alla fine voleva solo proteggere la sua famiglia. È stato scioccante.