«I film dovrebbero essere fatti da donne carine che mostrano cose carine», scrive un critico citando Renoir, ma di fare delle cose «carine» alle registe dei cortometraggi del focus Elle presentato a quest'edizione di Concorto Film Festival, non interessa granché. Sulla scia dei neonati movimenti femministi, negli studi di cinema e di serie tv, sembra aver preso di nuovo vita - ovviamente riattualizzandosi, se consideriamo quanto già c'era stato negli ultimi anni del secolo scorso - una riflessione che muove dal bisogno di una presenza femminile (attenzione, non forte, come si è soliti pensare) creatrice, che mostri problematiche e contraddizioni, anche scomode, della propria condizione. Identità di genere, intersezioni di classe, etnia e orientamento sessuale, o ancora questioni delicate quali aborto o malattie tabù che insorgono nelle donne, sono temi ormai presenti in molte narrazioni cinematografiche e seriali e che compongono anche l'eterogeneità tematica - ma anche stilistica, come vedremo - dei cortometraggi di Elle.



Su larga scala penso a Jill Soloway, riferimento fondamentale per parlare di serialità e questioni di genere. Transparent e I Love Dick, ma specialmente la seconda delle due, parlano di desiderio femminile nei suoi aspetti più torbidi e meno convenzionali, di forza dirompente-distruttiva-creativa, in un'inversione di genere dove il soggetto narrante e performante è quello femminile. In Soloway c'è poi la trasposizione per immagini di quello che oggi chiamiamo femminismo intersezionale, ad esempio, mettendo in evidenza la sovrapposizione delle diverse identità sociali: l’idea è che tutte le varie forme di categorizzazione sociale e le loro relative discriminazioni siano intersecate tra loro e che ritroviamo, tra le righe, in Juck, cortometraggio svedese di Olivia Kastebring, Julia Gumbert e Ulrika Bandeira. Non è un caso che abbia cominciato da Soloway, dato che questo corto mi sembra essere sorprendentemente costruito in modo molto simile al quinto episodio di I Love Dick. In questo episodio, le parole delle protagoniste che si "confessano" alla macchina da presa funzionao come saggi di "filosofia performativa”, come sostiene la scrittrice Chris Kraus, mettendo in piedi una macchina mostruosa dove Dick (l'oggetto di desiderio e l'uomo) viene messo spalle al muro. Lo stesso fanno le protagoniste di Juck: la loro danza, quel muoversi volutamente scomposto e mascolino davanti allo sguardo attonito dei passanti, in metropolitana e in città, accompagnata dalla voce fuori campo che evoca stati d'animo, ansie, inquietudini, è il loro modo di ribellarsi, tramite un'istanza rivoluzionaria che trae la sua forza ancestrale proprio dai corpi. 


I vissuti e desideri delle donne sono diversi, perché varie sono le realtà storiche e sociali dei corpi. Questo lo sanno bene Camila Kater, Marleen Valien e Alma Buddecke, registe, rispettivamente di Carne e Hot Dog. Come dicevamo all'inizio, queste registe non hanno avuto intenzione di fare delle cose «carine» nel senso più comune del termine: i temi affrontati riguardano le istanze dei corpi, le loro storie e caratteristiche, senza soluzione di compromesso con ciò che siamo soliti vedere. Carne è un cortometraggio di animazione che mostra lo sviluppo del corpo femminile e tutto quello che, in termini sociali e culturali, ne comporta, dove ogni capitolo viene realizzato con una tecnica differente, animazione, pittura, acquerello, stop motion e pellicola. Hot Dog si serve invece del simbolo per eccellenza del fallo maschile per una disamina ironica e consapevole dell'organo genitale femminile. La vagina è protagonista assoluta. La protagonista del corto le dà un nome, parla di come e quanto abbia influito nella nascita e nell'evoluzione del suo desiderio, passando per i primi timidi tentativi di autoerotismo alle prime, dimenticabili, esperienze sessuali. Il tentativo, in entrambi i casi, è quello di restituire dignità e valore, soprattutto conoscitivo, a quelle zone dei nostri corpi che spesso non consideriamo, o che denigriamo per retaggi socio-culturali e pregiudizi che ci vengono inculcati. 


Queste registe agiscono, come detto pocanzi, senza soluzione di compromesso perché questi corti ci mostrano anche le istanze dei corpi meno rassicuranti e in che modo il corpo della donna affronti problematiche quali aborto o malattie ancora (purtroppo) semisconosciute, circostanze vissute spesso in totale solitudine. What do you know about the Water and the Moon di Jian Luo racconta la vicenda di una donna che sceglie di sottoporsi ad un aborto farmacologico. Al momento dell'espulsione del feto, in una sequenza onirica e surreale, la donna si ritrova con una piccolissima medusa, potentissimo correlativo-oggettivo di tutta la gamma di sentimenti e ambiguità che si trovano a vivere le donne in situazioni del genere: senso di colpa, senso di abbandono, rimozione, bisogno di attaccamento. I dialoghi sono ridotti al minimo e nel corto tutto incede lentamente, quasi a voler rendere uno stato di sospensione emotiva ed esistenziale, di irrequietezza. D'altro canto, e di tutt'altro approccio, c'è End-O di Alice Seabright. Com'è chiaro dal titolo, il corto parla dell'endometriosi, malattia da cui sono affette molte donne, invisbile e difficile da individuare perché molto spesso i sintomi sono confusi con quelli del ciclo mestruale. Il tono è quello di una commedia quasi alla Fleabag, dove la drammaticità di certi momenti viene stemperata da tempi comici definiti e da un uso consapevole dell'ironia. End-O sfiora anche il tema dell'incomunicabilità tra partner quando si tratta di "esporsi" nella propria malattia, fuggendo a prescindere. 


Concorto Film Festival ha presentato una sezione dedicata alle identità femminili composita ed eclettica, ma in selezione ufficiale vediamo il cortometraggio forse più delicato e complesso. Clean with me di Gabrielle Stemmer prende le mosse da un canale youtube abbastanza inquietante di casalinghe che condividono le loro esperienze di ansia sociale, attacchi di panico e crisi di nervi, energie negative che soltanto il pulire - compulsivamente - poteva espellere. Madri di famiglia, spesso giovanissime e spose di militari. Sole e senza alcun appiglio familiare né amicale e dislocate in moltissimi punti degli Stati Uniti, come mostra la regista alla fine. Clean with me è un cortometraggio di difficile interpretazione perché mette in campo una molteplicità di questioni, che riguardano l'autodeterminazione, la scelta di queste donne di vivere in quel determinato modo (e quindi, se hanno così scelto, perché giudicarle?) senza però considerare il contesto culturale e sociale in cui sono cresciute: patriarcale, tanto più nell'entroterra americano, classissta ed eteronormativo. Che vivono per gli altri e che probabilmente mai più vivranno per loro stesse.

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