«Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso. Umile, cavalca un asino, un puledro figlio di asina» (Zaccaria, 9,9)

Un filo rosso lega l’asino Eo al fuggiasco dallo sguardo allucinato di Vincent Gallo che attraversa l’innevato, splendido Essential Killing. E’ la rinuncia alla parola, bilanciata dal primato dei sensi: della vista, sicuramente, ma anche dell’udito, di quella percezione tattile dei suoni sempre così decisiva nel cinema di Jerzy Skolimowski. Eo, protagonista dell’ultimo film del grande maestro polacco, è un corpo senziente ma non parlante, proprio come quello del soldato afghano in fuga. Attraverso i grandi occhi di Eo è filtrata la realtà (o presunta tale) di un mondo che sembra aver perso ogni speranza: ad essere offerti alla sua contemplazione sono esseri umani infelici e animali resi infelici dagli esseri umani, in un gioco al massacro senza scampo.

In quello che è a tutti gli effetti un road-movie a dimensione di quadrupede si succedono circensi tristi, ultras violenti, preti in crisi: per ognuno di loro Eo ha uno sguardo di pietà e di compassione. E’ la suprema condivisione di una condizione di subalternità a cementare lo sguardo dell’asino con una umanità totalmente schiava delle logiche del profitto e delle apparenze, della legge del più forte e del pregiudizio contro il debole. Uno sguardo che in alcuni momenti decisivi sa però farsi gesto, resistenza, rivolta.

Il protagonista dell’ultimo film diretto dal regista di capolavori come Deep End e The Shout è la reincarnazione e ricapitolazione di quella particolare genia di individui che da sempre popola il cinema di questo autore unico e inafferrabile. Spiantati, apolidi, fuori posto e unfit. A partire dall’indimenticabile “doppio” dello stesso regista (nelle vesti di attore) pedinato nei primi, godardiani esperimenti dietro la macchina da presa: uno studente di ittiologia fuori corso, renitente alla leva e dissipato in occupazioni senza scopo. Da allora tutto il suo cinema ha costruito una galleria di personaggi memorabili perchè fuori da ogni canone, saldi nella folle e metodica adesione ad un sistema di regole di cui sono gli unici osservanti e custodi. Non c’è immagine della protervia più proverbialmente tenace di quella dell’asino, quadrupede a cui la vulgata riconosce però anche altre caratteristiche: la fedeltà al padrone, la silenziosa predisposizione alla fatica, l’ignoranza di chi non sa o magari non è interessato a sapere.

La rinuncia alla parola come veicolo principale di senso permette a Skolimowski di marcare in filigrana un sottotesto tutto politico al film, che nel suo percorso narrativo come nella sua vicenda produttiva, attraversa il cuore dell’Europa in un transito senza soluzione di continuità. E senza confini. Solo gli echi delle diverse lingue parlate dagli uomini segnalano il passaggio di Eo da una nazione all’altra, lungo un viaggio privo di indicazioni geografiche. Il regista ci (e si) abbandona così allo sguardo (letteralmente) spaesato del suo protagonista migrante, suggerendo che forse più di istituzioni e palazzi del potere, il fattore unificante del Vecchio Continente va cercato nella comprensione profonda di un linguaggio altro, che fa a meno della parola ma sa penetrare con la sua sensibilità l’essenza delle cose.

L’afasia, tratto comune a molti protagonisti dei film del regista, racchiude in sé anche il valore intrinseco dell’universalità, e rimanda alla stessa condizione di un “senza patria” della macchina da presa come Skolimowski, abituatosi ad asciugare i suoi film dai dialoghi proprio dopo aver lasciato la Polonia negli anni 60. Nella sua galoppata attraverso lo spazio e la storia, Eo si avvicina ad un film che ne è in qualche modo il suo gemello americano: il magnifico War Horse spielberghiano, altro affresco di un intero continente affidato alla corsa inarrestabile di un destriero. Bresson rimane ispirazione ideale e motore immobile, ma non potrebbe essere più distante. Alla ieratica fissità di Balthazar, Skolimowski sostituisce un linguaggio di puro e costante movimento, percorso da continui scarti, fughe, slittamenti. Come sempre nel cinema inquieto di Skolimowski il movimento è sinonimo di libertà, e unica destinazione possibile.  

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