C'è una dimensione analogica, di (precario) artigianato degli accrocchi, fumanti, unti, che risulta interessante nel First man di Chazelle - a fronte, peraltro, di molte altre parti invece stantie e stereotipe -; un intrico di lamiere, saldature, tubi zigrinati che te la fanno sentire tutta l'alta velocità (e la precarietà, l'incrinarsi del concetto stesso di sopravvivenza, di resistenza agli urti, allo schianto) con cui gli astronauti vengono scagliati nell'etere: vibrazioni vertiginose di plance, lampadine rosse di allarme, rutilare di cabine lanciate, lasciate a turbinare follemente nell'interstizio spaziale.
Film di scienza dunque, (si tratta dell'impresa dell'Apollo 11 nel 1968) non di fantascienza: di meccanica, leve, manopole, altimetri; non di elettronica, di led e computer in astronavi tecnologiche: il che riguarda la discontinuità del registro del film, tra artigianato (l'analogico appunto, la rudezza del materiale cinematografico in alcune sequenze ferrose, meccaniche) e l'industriale, la confezione, gli schemi narrativi del digitale, certa patinatura del cinema industriale, tra cui l'affresco degli anni Sessanta, all'insegna dei principi basilari della cultura americana, la famiglia, la paternità, la patria a cui sacrificare vite di pionieri, e a cui Armstrong pare essere, anche masochisticamente, assoggettato, quando poi, alla fine, è solo questione di approssimazione all'anima della figlia morta: la luna allora, questa plaga argentina irrangiungibile, è una specie di purgatorio che può accogliere il braccialetto della bambina, liberando forse Neil dall'ossessione del suo ricordo.
Ma quando il film riparte alla conquista dei cieli, avverando traiettorie, agganciandosi a una navicella sospesa al di là dell'atmosfera, o atterrando tra i crateri della luna, avviene come un'agrimensura, un'idea meno astratta delle distanza che separa il mondo dal suo satellite. E c'è in questo colmare le distanze, nel rimbalzare sull'atmosfera a velocità supersonica, come un'ebrezza del volo, un'apnea, che fa dimenticare la propaganda dell'uomo bianco, le case a schiera, la retorica e l'affettazione emotiva dell'industria, di certa industria, e se mai si accorda al ritmo, alle esorbitazioni di batteria e jazz orchestrale che erano state di Whiplash (film forse sottovalutato), non senza ineffabile masochismo.