Orsi. Orsi ovunque. Orsi nei boschi. Orsi nelle suburbie. Orsi nelle sale cinematografiche. Quando scrisse Hitler, Giuseppe Genna fece una assai interessante disamina sul lupo e le sue apparizioni nella storia: il lupo, fenrir nella tradizione norrena, si affaccerebbe nell’immaginario collettivo al principiare di stagioni di morte, sarebbe metafora del male che si fa uomo e distrugge.

La narrativa e la filmografia copiosa su lupi e lupomani, negli anni 20 e 30 del vecchio secolo, presagiva secondo Genna l’avvento e l’armageddon del Terzo Reich. E allora l’orso? Esiste una stagione dell’orso? Non ci sono casistiche così circoscritte. I riferimenti, nel cinema del passato prossimo, sono l’orso vs Leo Di Caprio in The Revenant di Inatrritu, ad esempio, oppure l’orso in quanto pelle in quanto esosecheletro rituale per il martirio del maschio, sul finire di Midsommar di Aster. Fenomenologie piuttosto distanti e scollegate, cui possiamo aggiungere i riferimenti ad un orso verosimile, nickname Papillon, ne Il Sol dell’Avvenire di Nanni Moretti.

Nel reale, ancora, un orso ammaestrato fu scelto per inaugurare la prima partita dei mondiali di calcio in Russia, nell’anno 2018. L’orso fu attrazione ma non mascotte, si badi bene, perché la mascotte di quell’evento sportivo era il lupo siberiano. Può ben darsi quindi che si celi la paura del Vlad sanguinario dietro la discesa in campo dell’orso che fu lupo, e che attrae, ma al contempo respinge. L’orso venuto dall’Est, la minaccia di un piano di rinselvatichimento e di ripopolamento dei boschi sfuggito di mano, diventato minaccia tangibile per i runner, per l’Occidente che corre. Elucubrazioni plantigrade, come se non ci fosse un domani. In sala intanto furoreggia Cocaine Bear, in italiano, fedelmente, Cocainorso.

85 milioni di dollari in biglietti staccati nell’universo mondo, 65 nei soli USA. Un bel risultato, a programmazione non ancora esaurita, per un film strampalato ma non sgangherato, forte di un budget produttivo di 30 milioni di dollari circa. Ispirato alla vera storia di un povero animale che incappò in un borsone di coca piovuto dal cielo, ne assaggiò il contenuto e subitaneamente stramazzò stecchito. Pablo EscoBear, lo chiamarono i media yankee. Pablo è vivo in questo film invece, è una lei invece che un lui, non muore ma è animata da una furia tossica superdopante, ed è destinata a sviare le aspettative. Ma non è un film Asylum!, urlano gli ortodossi degli horror di grana grossa, apologeti di quella casa di produzione che ci ha fatto piovere addosso squali e creature immonde ogni tre per due.

Ma sto film è un Coen-caine Bear, è figlio illegittimo dei Coen Bros!, gridano altri, di palato più fine ma a corto di stereotipi e clusterizzazioni. Hanno tutti ragione, a conti fatti. Cocaine Bear non è un horror propriamente detto, né ecohorror né creepy pasta horror, vero. Cocaine Bear mostra qualche derivazione da un certo modo di narrare comunità gonze, modo che è (è stato) prerogativo dei fratelli Coen, vero anche questo. Ma non basta. Cocaine Bear è un film che traccia un percorso del tutto originale verso un pubblico composito, composto da adulti e ragazzini. Un film per famiglie? Sì, potremmo chiamarlo così. Un crogiolo di commedia, azione, morti truculente. Dai primi frame è infatti chiaro che la regista Elizabeth Banks intenda menarla in caciara, travisando tutte le aspettative. Strappa risate a scena aperta con dialoghi irresistibili, anche interminabili, ma costruiti con geometrie perfette. Ricorda da vicino i fasti di Kevin Smith, e ne ha ben donde, perché Banks è Miri di Zack & Miri make a porno, di e con Kevin Smith appunto.

Non bastasse, Banks ha saputo apprendere anche da Raimi che l’ha diretta nella Spider-Man Trilogy. Aveva toppato con lo sgangherato Charlie’s Angels del 2019, ma ora è Miri makes a movie, per un pubblico sì babbione ma non autolesionista, che vuole lo scompiscio ed anche l’azione, meglio se sanguinolenta, e in Cocaine Bear ce n’è di ottima. Banks​ sa riempire le inquadrature, posiziona la mdp in modo sfrontato, utilizza pezzi di corpo e battiti cardiaci come elementi narrativi, padroneggia spazi indoor ed outdoor. Costruisce una delle scene cult dell’anno: il Cocainorso erompe di dietro una porta e si lancia all’inseguimento di un’ambulanza, schivando gli spari di una grassa ranger in lettiga che spara e smadonna, mentre i Depeche cantano Just Can’t Get Enough. Ci sono i plantigradi, ci sono anche parecchi umani strampalati, personaggi principali e secondari, un’umanità composita di ragazzini e narcos e sceriffi e madri coraggiose. Cocaine Bear è il film che ci tira su, perché in fondo bears just wanna have fun.

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