Nella prefazione alla Persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter si legge «io lo so che parlo perchè parlo ma che non persuaderò nessuno […] o in altre parole “è pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la risputi"», che dice, implica, la volontà di una resistenza umanistica, di un parlare produttivo, persuasivo, in tempi di Rettorica propagante, prevaricante (certo, la retorica, la sorba risaputa del mondo volgare, ottuso, privo di dialettica, ma non per questo non veritiera e pressante e denunciabile) e riguarda ovviamente anche quello che si può e si deve dire a proposito delle opere, delle immagini (e che oggi si fa con sempre maggiore violenza, senza argomenti, anzi con il gusto, il compiacimento di non averne, di dileggiare opere e autori, in estasi da followers), visto che sto qui proprio per dire delle immagini di D'Anolfi e Parenti.

Cioè autori in cui è così chiaro e naturale il portato etico, comunitario, ma mai sfacciato, spacciato con senso di superiorità, bensì incarnato allo svolgersi, al dispiegarsi delle cose e delle immagini dentro la flagranza dell’evento: quella fiducia nel discorso ancora più essenziale oggi soprattutto nell’Italia degli slogan e degli atti razzisti, classisti, sessisti, a cui del resto una sinistra residuale non sa che rispondere con una parodia d’accatto, tutta una pantomima di freddure e pruderie che si realizza nella penombra di una stanza, all’insegna di monitor e tastiera.

In effetti in Blu, cortometraggio presentato a "Orizzonti" dell'ultima Mostra di Venezia, spicca la serietà, il progressismo dell’assunto - che implica sempre la progressione immaginale (scorrendo sulle rotaie, conquistando spazio alla roccia) -, appunto un umanesimo coriaceo, che ovviamente era già dei film precedenti dei due registi: ancora la materia refrattaria, misteriosamente pervicace, colta nel modificarsi in rapporto al lavoro umano; una simbiosi miracolosamente riproducibile al tempo della massima dissipazione ambientale, che è il contesto privilegiato del loro ultimo cinema, anche al di là della denuncia, del resto indimenticabile, furente e fulgida, di una cosa come Materia oscura.

Ora il corrispettivo figurale di questo umanesimo è la minuziosa finitudine dei luoghi di lavoro, anche, volendo, la loro natura di riparo, sotto i neon sopiti quand'è ancora notte, e tra gli altri elmi e le altre tute alle prese con la grande opera della metro: l’intrico di tubi, turbine, bracci meccanici, di superfici, angoli oliati, macchiati di grasso, sibili vari, spie intermittenti, che però sfugge alla sintesi del visto, come dire, per eccesso di connotazione, di definizione del caos. C’è, come in tutti i lavori di D’Anolfi e Parenti, un’allusione teorica implicita alla disposizione delle cose, alla loro tensione a corrispondersi nello spazio e nel tempo: come l’impossibilità di cogliere e sintetizzare il quadro, cioè l’irriducibilità brulicante della realtà, il suo costante, progressivo lavorio per la definizione di un’immagine via via progressista.

Tags: