«Rimarrà quello che siamo stati per gli altri…frammenti, immagini di noi, così come loro ci hanno visti. Sogni in cui non saremo mai gli stessi…Magnifici sconosciuti, passeggeri della notte che vivono in noi, fragili ombre riflesse in vecchi specchi, dimenticati in qualche stanza».

Passeggeri della notte di Milkael Hers, ovvero della drammaturgia come sostanziale traccia spaziale e musicale nell’elegia di frammenti di vita vissuta. Istantanee di una visione altrui (dello spettatore cinematografico, certo, primo passeggero immobile di viaggi in cellulloide nel gioco di specchi schermici) mutevole perché reminiscenza, lampo nel buio tra sogno e dimenticanza, in cui solo le intuizioni affiorano magnifiche e fragili. 

Passaggi leggeri e sfumati tra i versi di una poesia, le righe di un diario, le frequenze di una radio captate nell’etere. Eppure in questa epidermica fugacità, cui soggiacciono le grandi ellissi della scansione della trama in capitoli temporali (1981, 1984, 1988) solo in apparenza opaca, il genio sensibile di Hers radica l’ancestrale paradosso visivo del panta rei, di un fiume che scorre quieto uguale a se stesso, ma in cui «non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua».

I passeggeri della notte ci appaiono quasi passivi, trasportati dai tempi ciclici e dagli accadimenti attesi e sottointesi, rapiti dai moti dell’animo ma fluidi e speculari nella subliminale continuità quotidiana, fatta di movimenti,  abitudini e colori ricorrenti, in cui i più grandi incipit ed epilogo coincidono (dalle elezioni politiche del Maggio 1981 con la storica vittoria socialista di Mitterand, al 1988 in cui i protagonisti tornano al voto con una maturità  nel loro piccolo altrettanto epocale). 

Tutto scorre, appunto, dissimulato nelle arterie urbane di una Parigi iconica, ma non da cartolina, colta negli anni ‘80, organismo vivo, un corpo e un volto nel cui tessuto emozionale si alternano giorni e notti, percorsi, battiti e respiri di una antropomorfizzazione tutta femminile.

Un tratto davvero caratterizzante e distintivo nella ben definita poetica di Hers, che non lascia nulla al caso, suggellata da stilemi, tra cui spicca il ripetersi di una sovraimpressione prolungata, fino a dissolvenza incrociata, di un volto di donna sul panorama – campo lunghissimo della città o come in questo caso sulla luminosa, intermittente piantina metropolitana.

Cifra stilistica e chiave d’accesso ad un metaverso poetico, dialettica mappatura cinematografica ad alto tasso citazionista ed autoreferenziale. Nella coralità di personaggi - archetipi messi in scena da Hers nella sua essenziale filmografia, Passeggeri della notte si pone come il contro canto del precedente Primose Hill (2007) che si articolava sulla presenza fantasmale di una giovane donna scomparsa e che qui riappare programmaticamente, bagaglio di formazione in spalla, adolescente vagabonda su note punk rock. 

Talulha (Noée Abita, con i suoi grandi occhi neri), è per Hers la Parigi cinematografica, sia cinema- rifugio fisico e abbandono psicologico, dal freddo e dai bassi fondi ubriachi e fradici, sino al lavoro salvifico di maschera di sala e attrice in erba sul set. La Parigi cinematografica che piange come perdita profonda e personale una giovanissima Pascal Ogier, protagonista de Le notti di luna piena di Eric Rohmer, Coppa Volpi al Festival di Venezia 1984, scomparsa prematuramente a soli 26 anni.

Il suo arco di trasformazione sarà propedeutico a quello di Elisabeth (una Charlotte Gainsbourg, così composta nella sofferenza e nell’affiorare inaspettato del sorriso sul volto, da ricordare in qualche istante la sua memorabile Jane Eyre di Zeffirelli) che da donna a pezzi, reduce da una separazione coniugale, arriverà all’indipendenza professionale e relazionale, orgogliosa del suo lento percorso di riscoperta esteriore, più che rivalsa, tra prove e guarigioni di ferite e forze ataviche interiori, il maschile e il femminile, dapprima nettamente scisse nei ruoli sociali (l’esordio da stereotipo di donna abbandonata che stende i panni tra le lacrime).

Percorso che si lega a filo doppio a quello  di Talulha, per la quale pur nella sua estrema fragilità, rappresenta resilienza. Percorsi che trovano scioglimento nella rete dei comprimari maschili, a partire dall’assenza radicale e scatenante dell’ex marito cui fa contrappeso la presenza obbligata del padre e nel mezzo il figlio Matthias, giovane uomo, aspirante poeta, versione materna di delicatezza e virginale tormento d’amore.

Dal canto suo anche Elisabeth incarna una Marianna di Francia col seno scoperto e sfigurato dalla mastectomia, forte sovversione del segno de La libertà che guida il popolo di Delacroix (1930) prima iconografia mitizzante. Così come tante altre figure nella filmografia di Hers, essi esistono e trascolorano gli uni negli altri, madri negate e ritrovate, padri assenti e forzati,  figli e amanti voci narranti, che in sospensione inconscia «vivono in noi, fragili ombre riflesse in vecchi specchi, dimenticati in qualche stanza».

Per la capitale francese Hers nutre la medesima fascinazione dell’esplorazione del tempo e degli ambienti, che fu dell’ormai iconica Nouvelle Vague, che omaggia, col fermo immagine dello sguardo in camera sul campeggiare del titolo. Immenso e straordinario è in quest’ultima opera il tributo alla Parigi d’epoca, che realizza col montaggio di materiali di archivio di sequenze urbane in un gioco complementare di campi e controcampi messo su dai formati tra 4/3 per il passato e 16/9 per il presente diegetico.

Nume tutelare esplicito è qui Eric Rohmer con il suo Le notti di luna piena, in cui domina il tema della casa, ambiente di agio e disagio, nell’andirivieni conflittuale tra periferia e città, equazione di costrizione e libertà nel rapporto di coppia, nonché nell’epilogo, confessione illuminante, proprio di un passeggero della notte, un illustratore che vaga di bar in bar nelle notti quasi esoteriche di plenilunio.

La lezione di Rohmer dell’ «insistere sul tema, variandolo» nella formula dei racconti per stagioni o  proverbi  è evidente da un lato nell’attraversamento continuo di cavalcavia, lunghi viali, strade che reiterano passeggiate al chiaro di luna, rientri all’alba, metafora di un moto centripeto e centrifugo tra i poli estremi di apparenza e segreti reconditi, dall’altro nella tematica delle assenze e del recupero delle figure familiari che, come anticipato, Hers materializza perfettamente come da manuale: «[…] Per Rohmer raccontare significa organizzare aspetti e frammenti di vita quotidiana... un impianto molto semplice, incontri di personaggi e loro progetti, ricordi tensioni...in toni sempre sommessi, non c’è una loro gerarchia, come nella narrazione tradizionale, contano i prolungamenti […]» (per Hers la costruzione degli intervalli di anni nel dipanarsi della trama) «[…] i gesti, la possibilità di tirar fuori dai comportamenti significati non evidenti... L’intreccio tra volontà e caso, scelta e ostacoli, in cui dominano la descrizione  ed esplorazione  degli ambienti e spazi urbani» (in Storia del cinema  di P. Bertetto).

Forse di Eric Rohmer Hers non riesce ad emulare la sottigliezza ironico-comica, esplicita ad esempio nelle scene di ballo, quasi comica pantomima nelle citate Le notti di luna piena, momento riconciliante ed edificante invece nei Passeggeri dove la traccia musicale portante risuona l’elettronica I Wanna discover you del 1984, eletta sui titoli di coda: «You're dancing on the floor, I see your heart is true... I wanna discover you by now».

Riesce invece in modo esemplare a restituirci gli sguardi panoramici lanciati verso l’orizzonte, a partire dagli interni degli appartamenti o terrazze dei vertiginosi grattacieli del suo privilegiato XV Arrondissement, in cui pareti vetrate annullano la separazione visiva architettonica, consentendo l’astrazione estetica della resa luministica notturna, con una messa a fuoco selettiva, che ricrea un effetto pixelart nelle finestre illuminate.

Soprattutto, non puntando mai l’obiettivo verso il basso, il vuoto, l’abisso, ma sempre all’orizzonte come per spiccare il volo, sor-volare e planare con leggerezza calviniana, quella che non è della piuma, ma della ponderata apertura d’ali del volo, che spazia e torna a sua volta dagli spazi extraurbani, immense distese verdeggianti di parchi o colline, osservatori privilegiati dei medesimi tetti, lontani, ma nella continuità.