Marie-José Mondzain è una delle pensatrici più radicali e interessanti della nostra epoca. L’occasione di approfondire il pensiero dell’autrice di Immagine, Icona, Economia e Homo spectator è quella dei due giorni di conferenze e dibattiti organizzata da Tadeu Capistrano (ppgav-eba-ufrj) nella Università Federale di Rio de Janeiro.
La Mondzain prima parla del suo ultimo libro, Accueillir, tessendo relazioni tra immaginario, decolonizzazione e ospitalità e poi, attraverso la lettura di due testi filmici, L’Ordre (Jean-Daniel Pollet, 1974) e Decalogo VIII (Krzysztof Kieslowski, 1988), analizza due forme negate di ospitalità e due regimi di esclusione, legati alla malattia e alla memoria.
La Mondzain comincia a parlare della solitudine. Di come esistano vari “gradi di separazione”: la solitudine del romantico (è l’isolamento necessario all’individuo creatore, ma anche, pensiamo quella del viaggiatore di Friedrich, alla ricerca di orizzonti dove “sentire” il sublime, e del Wilhelm Meister di Goethe), dell’eremita (viene in mente Bressane che, in Sao Jeronimo ha girato sequenze impressionanti, mostrando il santo traduttore della Bibbia, creatore di un pensiero attraverso il deserto, mentre si ferisce con una pietra – mostrando la soggettiva dell’oggetto appuntito – o si riunisce con i Padri del deserto, allontanandosi presto da quella forma di contemplazione parossistica e atroce) figura a cui si potrebbe aggiungere, pensiamo, il marinaio sulla coffa della baleniera che Melville ha paragonato, non a caso, alla solitudine del Santo stilita sulla sua colonna (è il Simon del Desierto di Bunuel, altro solitario) e che, su quella altezza dove non può misurare altro che una identica e sempre uguale vastità marina, diventa morto-vivo, uomo di pietra, ferro o bronzo, «incapace di vedere qualsiasi apparizione insolita».
La solitudine, allora, implica innanzitutto una metafora dello sguardo: quante cose possono allora vedere gli occhi del solitario? Visioni, paesaggi, o il vuoto di un mare diventato simile a un deserto…
Ritornando alla Mondzain, la filosofa dice che un ulteriore livello di solitudine è quello dell’essere umano nella metropoli descritto da King Vidor in The Crowd (analizzato, 25 anni prima, da Simmel ne La metropoli e la vita dello spirito, dove viene sottolineato, però, il carattere ambivalente della metropoli): la vita metropolitana si caratterizza per la rottura dei vincoli e dalla coscienza infelice; è assai più difficile sopportare la solitudine nella moltitudine; in mezzo alla folla i più deboli sono «condannati a morte».
Da questi livelli di solitudine si passa alla condizione di insularità di quelle donne e quegli uomini costretti, oggi, ad uno stato di eccezione permanente, che non possono essere aiutati (in Francia esiste il “crimine di solidarietà” e in Italia basta pensare all’odissea di Mimmo Lucano) perché «colui che arriva non è benvenuto» e «tutti quelli che sono appena giunti, dal neonato all’esiliato, condividono il medesimo dramma». All’esclusione, in questa «fase critica della comunità umana e dei suoi vincoli», la Mondzain propone di sostituire il concetto, opposto, di «filiazione» o «filogenia», dal greco philia, che designa vincoli con persone con le quali non possediamo nessuna relazione.
La filiazione è l’adozione di ogni persona giunta di recente, perché «non basta nascere. È necessario venire adottato» affinché «i legami biologici siano modificati per la realizzazione di sogni polimorfi» perché la «filiazione naturale non ha futuro» (parole densissime queste, se pensiamo al pensiero aberrante di un Vannacci o di un Trump con i suoi sogni di deportazione di massa). Adottare è, quindi, un “arte”, che ha bisogno di energie finzionali, del contatto con gesti di resistenza e rottura, di una «esperienza soggettiva e intersoggettiva che perturba la logica binaria» in grado di creare relazione e mobilità.
La filiazione è la potenza di creare vincoli, l’arte che frustra il vocabolario binario delle élite, con la sua esclusione permanente basata su un supposto «ordine naturale di alterità» (quello che Eisenstein rimproverava al montaggio alternato capitalista-hollywoodense). La filogenia è quindi l’amore verso lo straniero, come nell’episodio biblico quando Abramo riceve tre stranieri e scopre che sono tre angeli che rendono fertile il ventre di Sara, che, con la sua gravidanza da anziana, rompe le regole della natura. Il tema dello straniero si unisce così a quello dell’essere appena nato.
In tutti i casi, ricevere serve a costruire una coabitazione liminare e ogni «appena arrivato» ha bisogno di un letto, di un cappotto e di una tavola dove poter conversare (e testimoniare). Come incontrare questa piece, questo spazio dove può avvenire la messa in comune? Come entrare in questa chambre?
In Corsica esiste il Mutale, nel quale la fidanzata diventa sposa e lo straniero, ospite. Si tratta, insieme, di una cerimonia di alleanza e adozione e un contratto che compromette chi ospita e chi viene ospitato. Si tratta di costruire una azona, un luogo liminare, né esterno né interno, che unisce alla riflessione molteplice sulla soglia (uscio-finestra-porta girevole), la riorganizzazione della differenza degli spazi in comune contro ogni esclusione (viene alla mente altro concetto molto fertile in relazione a questa apertura, a questa conviviale messa in comune, che è quello di «poroso» di Walter Benjamin – che non a caso è stato pensato in due, insieme alla direttrice di teatro allieva di Mejerchol’d e rivoluzionaria Asja Lacis).
Contro ogni muro, ogni frontiera che “comparte” e divide (Chantal Ackerman ha girato a ridosso e attraverso il “muro” fra Messico e Stati Uniti un film come From the other side) che è anche quello, secondo la Mondzain, del logos come violazione delle forme di vita animata e inanimata attraverso la tirannia della parola e la sua legge, bisogna praticare l’arte di approssimarsi, di mutare, di praticare una mobilità che prepara la convivialità, e la una costruzione di uno spazio comune con i suoi gradi di porosità.
Il possibile diventa così quello che Marcel Duchamp chiamava infrafino, membrana divisoria che separa il reale dal possibile., attraverso un luogo marcato dallo spazio elastico della membrana. L’arrivo di qualcuno segna sempre il sorgere di un evento. E l’adozione è quell’atto che permette di accogliere, ricevere questo evento, il modello costitutivo di ogni vincolo tra umano e umano e tra umano e non umano. In occidente assistiamo alla necrosi dello spostamento e della sua fantasia, ad opera di un imperialismo coloniale che pretende trattare una parte dell’umanità come schiavi, e un colonizzatore che si sente a casa propria ovunque e che però nega il nome di essere umano agli oppressi e agli espropriati.
In questo il teatro, il cinema, l’arte sono, secondo la filosofa franco-algerina, uno spazio continuamente reinventato, un luogo dove è possibile formare una assemblea. La stessa filosofia si può alimentare solo attraverso l’arte, l’immaginazione, la “finzione”. L’arte permette (è al servizio, si diceva un secolo fa) della rivoluzione. Il risultato è la costruzione di uno spazio possibile, non occupato, utopico. E l’ospitalità diventa così quel gesto, artistico, che pone in luce l’allegra potenza creativa del vivere insieme. Perché quello che definisce l’arte, anche quella di Raffaello, apparentemente legata al concetto di bellezza, non è il supposto Bello (concetto sospetto dal punto di vista politico, etico ed estetico), ma la libertà.
Ed è con un montaggio di due film apparentemente eterogenei che la Mondzain vuole stimolare da un lato la creazione di una “tavola” comune di dibattito e riflessione (tavola che è sempre, anche, una tavola di montaggio), e, dall’altro, riflettere sui concetti di ospitalità, filiazione, adozione, sui quali ha basato la prima parte della sua riflessione.
I due film di Poillet e Kieslowski sono, apparentemente, assai diversi. Il primo film, La ordre, è un documentario che mostra l’isola di Spinalonga, un luogo di detenzione ed esilio permanente, dove venivano reclusi i lebbrosi perché morissero lontano dagli sguardi delle persone cosiddette “sane”. I travelling lungo quei padiglioni deserti e in rovina, che fanno pensare al Resnais di Hiroshima mon amour e di Nuit et Brouillard e che però sono sempre frammentati, interrotti, non aprono a un percorso, a una perlustrazione, ma ad una costellazione di uno spazio che si dà per frammenti, a sbalzi, come se la memoria funzionasse per contraccolpi, come di chi incespica sul selciato dismesso (ma non è così che il Narratore proustiano ritrovava il tempo perduto? E che succede quando il tempo perduto è il tempo del dolore?
Il tempo della carne che si indurisce e sbianca, degli arti contorti e della separazione più crudele e radicale dagli esseri amati?). A descrivere il tempo perduto del dolore è Remoudakis, un avvocato che passò trentasei anni sull’isola. È con lui che lo spettatore instaura una relazione complessa di campo e contro campo. Ed è lui che, alla fine del film, lancia la più grande invettiva contro noi “sani”, noi “salvati”, che giudichiamo, isoliamo, decidiamo chi accogliere e chi no.
Il secondo è l’ottavo film per la televisione che il cineasta polacco ha dedicato ai dieci comandamenti, «Non dire falsa testimonianza». Il film inizia in un’aula universitaria e con l’incontro tra due donne: Zofia, la più grande, è una docente che sta tenendo un seminario sull’etica, la più giovane, Elzbieta, è una giornalista e traduttrice che viene dagli Stati Uniti. Le due già si conoscono: la seconda chiede alla prima di poter partecipare alla lezione.
Quando è il suo turno di raccontare un caso “etico” (il primo, raccontato da una giovane studentessa, è la trama di Decalogo 2) si riferisce a un episodio della Polonia occupata: una bambina ebrea non venne aiutata da una coppia di cattolici polacchi che avrebbero dovuto farle da padrini di battesimo, perché, apparentemente, battezzarla avrebbe significato mentire a dio. È il meccanismo di campo e controcampo che si instaura fra le due (con la sua particolare esitazione) a permetterci di capire subito che Zofia è la donna che, quarant’anni prima, si era rifiutata di aiutare Elzbieta, la bambina ebrea.
In entrambi i film essenziale è proprio questo movimento di reciprocità fra le immagini, niente affatto meccanico: ma se nel primo caso si tratta di raccogliere (ossia accogliere su di sé) il dolore di una testimonianza, nel secondo si tratta di «riattivare il filo della memoria che si era interrotto». E, come vedremo, di passare attraverso un rituale di adozione e filogenia. Ad essere mostrati, secondo la lettura della Mondzain, sono due regimi di esclusione: nel primo caso di una esclusione fuori dal mondo; nel secondo, di una esclusione dalla memoria.
Nel primo film Remoudakis è filmato come un filosofo classico. «È lui che possiede il dono del discorso e la sua potenza; la sua bocca devastata è la bocca della verità. La sua pelle dura come il minerale, vittima della necrosi, è alternata con immagini di pareti spoglie e grigie assaltate dalla muffa, dal sale, dalla distruzione del tempo». Quello che ci rivela è drammaticamente simile a quello che dicono Ginikian e Ricci-Lucchi in Oh uomo e Pays Barbare: che i barbari, contrari a qualsiasi tipo di inclusione, e “adozione” dell’altro, nostro prossimo, siamo noi, i “sani” che, in nome del terrore alla malattia, del desiderio di protezione, della salute e della paura di misurarsi con un’alterità atrocemente sfigurata, la isoliamo.
La condanniamo a sparire. Si tratta, secondo la Mondzain, di un film binario, che conversa con il mondo della lebbra, dell’umanità, della verità e con quello della violenza e dell’esclusione.
Il secondo film è, invece, dialettico. In esso le posizioni, le verità, non smettono di circolare. Zofia dice che la falsa testimonianza davanti a dio era una scusa: il marito di lei, morto diversi anni prima, era membro della resistenza, la famiglia che avrebbe dovuto accogliere la bambina, secondo notizie rivelatasi infondate, faceva parte della Gestapo, e questo avrebbe significato mettere a rischio la cellula di resistenza.
La verità va quindi circolando, in quella che la Mondzain definisce «ginnastica di articolazione e disarticolazione» (non a caso il film inizia con Zofia che fa ginnastica in un bosco). Kieslowski vuole mostrarci come «la verità non è universale ma si costruisce tra i soggetti, i segni, la memoria, la storia: la verità è una costruzione comune».
Decalogo 8 è, quindi, un «detective-movie talmudico»: si tratta di risolvere un caso morale attraverso una dimostrazione. Non si tratta di una opposizione teologica tra verità e menzogna, ma una dinamica degli affetti che sfugge alla logica binaria. «Zofia ha passato 40 anni sentendosi colpevole di una morte mai avvenuta; Elzbieta ne ha aspettati altrettanti senza chiarire la sua vicenda di non-adozione».
Finalmente, la prima «adotta la seconda 40 anni dopo. La invita a casa, le dà un tetto dove riposare, le regala dei fiori; l’altra accetta l’invito: ognuna sana così dalle ferite della storia». Altro aspetto apparentemente marginale, ma che la Mondzain sottolinea, è che Zofia non vede mai il figlio: «è la rottura della filiazione biologica a favore di una adozione storica» (e questo fa pensare a Poillet: i figli dei lebbrosi vengono allontanati dai genitori e posti in un orfanotrofio).
Nello stesso tempo capiamo che l’adozione è una costruzione senza fine: è la metafora del quadro di paesaggio di Zofia che ritorna sempre in diagonale nonostante le due donne provino a raddrizzarlo più volte. Quel quadro è la Polonia (adesso è l’intera Europa: solo che, nel caso odierno, il quadro sarebbe una crosta dura e spessa con lo specchio della cornice in frantumi), che sempre lotta con la possibilità di “accomodare” la propria memoria collettiva in un lavoro sempre inconcluso: «è un paese che deve reinventare un equilibrio con la sua storia, la memoria, la relazione con gli altri, e lottare contro ogni tipo di esclusione».
E ritorniamo così al meccanismo del campo e contro campo: nel primo film, si instaura con una umanità dolente, nel secondo, con un passato sopravvivente (ovvero che ritorna mutato: è il nachleben warburghiano). Il campo e controcampo è quel movimento di ricerca della reciprocità che serve a riannodare il legame, trasformando l’esclusione in contatto, e a suturare la ferita.
Si tratta di una dimensione etica e eminentemente costruttiva: in entrambi i film non sorge all’improvviso, come una felice epifania, como una connessione fatale e insperata, ma si tiene che creare (la relazione con l’ars, che diceva prima la Mondzain): nel film di Poillet bisogna passare attraverso una città di dolore, e ascoltare la voce del testimone; in quello di Kieslowski, perdersi nel labirinto del passato (Zofia conduce Elizbieta nel vecchio condominio dove non venne “adottata”: ma è la prima a perdersi negli androni oscuri, provando paura).
Nel film di Kieslowski ci sono alcuni personaggi secondari di grande importanza che la Mondzain descrive con grande acume. C’è un collezionista di francobolli, i cui pezzi sono tutti anteriori alla Seconda guerra mondiale: l’uomo si autocostruisce una memoria volutamente lacunosa fittizia, cancellando il trauma della guerra, come accade in quelle cartoline tedesche descritte da Sebald in Storia naturale della distruzione che mostrano la doppia visione di una città distrutta e della stessa città ricostruita identica e nuova, come se la distruzione non fosse avvenuta.
C’è un uomo afroamericano che partecipa alla lezione di Zofia, che non conosce la lingua (c’è un amico a lato che traduce), e, quando un alunno interrompe in maniera fastidiosa la lezione, è l’unico a intimargli «Get out»: straniero, è colui che risolve un problema da un altro luogo e pone in luce questa possibilità di ausilio e soccorso da parte di chi viene da un altro lato.
Gli ultimi due personaggi apparentemente secondari sono quelli che mostrano gli ultimi due controcampi del film. Il primo è tra Zofia con «l’uomo di gomma», il ginnasta che può ammollire il suo corpo fino a compiere le più assurde torsioni. Il secondo è tra Elizbieta e il sarto che la aveva aiutata a salvarsi. Questo ci suggerisce che, affinché il controcampo si realizzi, è necessario un lavoro di flessibilizzazione e costura.
Nel primo caso la flessibilizzazione è una forma di aprire la memoria al gioco del riaggiustamento, della duttilità, di possibilità di messa a fuoco diverse e nuove.
Il secondo caso è più complesso. Il sarto si nega, si rifiuta di rispondere alle domande “sulla guerra” e rifiuta il controcampo che le ha offerto la donna che arriva all’improvviso dicendogli di essere la bambina che ha salvato quaranta anni prima. In cambio, le dice che le farà un vestito. Si tratta però di un gesto doppio. Da un lato, la rivista dalla quale dice a Elizbieta di scegliere il modello è vecchia, i vestiti antiquati; dall’altro, è attraverso il suo lavoro, e non attraverso la parola, che cerca di stabilire una relazione con la donna. L’abito è insieme, uno scudo e un mezzo, una frontiera e un dono.
La Mondzain non a caso rileva che alla fine c’è una possibilità di chance: l’uomo osserva dalla finestra le due donne che parlano. È inquieto. Questo sguardo fuori campo mostra una speranza di mobilità: «come il quadro che è sempre possibile riaggiustare, questo sguardo mette in evidenza una speranza nel possibile, che invece in Poillet è tragedia e catastrofe».