Trad. di Giovanni Festa

Piove di sera. Filmo la pioggia contro un muro grigio, una vecchia parete alta della casa che confina con il geriatrico. L'acqua traccia filigrane contro la pietra, una specie di scrittura da decifrare. A volte, sono linee verticali, discontinue; a volte le linee si inclinano preda del vento; a volte la pioggia fluttua e sembra non cadere.

Alzo la cinepresa, ancora e ancora, meravigliato. L'occhio non si allontana dalla sua preda. L'incantesimo è probabilmente una condizione del mirino. Tempesta notturna molto intensa. Filmo i fulmini dietro il ficus del cortile. Mentre catturo con la cinepresa la punta di un ramo inclinato, vedo la testa di un cavallo. Si muove, goffamente, su e giù al buio.

Ricordo altri momenti della mia vita in cui ho creduto di vedere con la coscienza sospesa qualcosa di diverso da quello che era di fronte a me.

La luce, il lampo, annulla l'illusione. Guardare le cose come se fossero qualcosa di diverso. Non è un gioco, non è scoprire le forme nelle nuvole. È vedere le cose del mondo nei suoi slittamenti.

Tracce di acqua contro la vecchia pietra di diverse intensità. Il muro si spegne nei toni ocra e schiarisce nel grigio. Variazioni dei toni del muro, della luce che da esso fuoriesce. Variazioni dell'acqua. Cercheremo di ordinare questi piani come se fossero musica.

Una lievissima luce notturna sulla terrazza. Quella rosa: bisogna camminare in punta di piedi per vederla.

Vediamo con Mario due insiemi di piani: quelli della spiaggia – capiamo subito che sono del film – e altri, che ho filmato alcuni anni fa, di alcuni treni abbandonati contro la montagna nel sud del Cile. Mi chiede il perché dei piani dei treni. Attraverso i finestrini rotti si vedono le linee viola e ocra dei tronchi degli alberi. Trovo qualcosa che si collega alle radici che ho filmato nel cortile di casa e all'idea che ci domina in questi giorni: non finirà mai, è infinita questa ricchezza abbandonata.

Un piccolo fiore che ho seccato tra le pagine ha conservato il suo colore blu. Il fiore ha perso qualcosa della sua forma, l'organizzazione dei petali, ma ha conservato il blu. Lo incollo nel taccuino.

Penso che il colore durerà, l'anno prossimo, entro cinque, venti anni.

Mario distingue sottigliezze nei piani in relazione al modo di guardare il mondo. Qualcosa del modo di stare o il passo di colui che mira, qualcosa del carattere e dell'emozione di chi sostiene la cinepresa. Questo fa sì che un piano e un altro si attraggano o no. A volte propongo un piano e quello che lui sapeva, in anticipo, viene confermato. È paziente e mi mostra. Ho bisogno di vedere. Un'immagine accanto ad un'altra. Immagini che cercano il loro destino, la loro trama. Come Hector Maldonado che leggeva i segni nascosti sulla superficie del fiume Paraná – il movimento e la potenza delle correnti, la quiete e la minaccia, qualcosa dell'invisibile – Mario vede nei materiali il suo eccesso o la sua mancanza. 

Sono tornate le farfalle arancioni, in maggior numero che l'anno scorso. Si posano sulle piante e sui vestiti bagnati. Posso avvicinarmi molto, come se non rappresenti una minaccia per loro. Le guardo, ma non le filmo.

Ora c'è una brezza che non colpisce troppo il mondo, ma aggiunge dettagli quasi impercettibili alla quiete. Non è il declino dell'estate, la nostalgia del perduto, quello che colpisce, ma la pienezza di ciò che è giunto.

Cosa succede se il film è il percorso che si dispiega tra i segni dell'acqua contro la pietra, le tracce della pioggia, e queste luci mobili? Cosa succede se il film è il balbettare tra queste due inquietudini?

Mario crede che i materiali del film li mobiliti il desiderio. Una specie di impulso scritto nella materia. Mi indica i piani e le sequenze dove questo impulso diventa più evidente.

Torneremo a vedere il materiale tra qualche giorno, ascolteremo le sue rimostranze. Fare un film è anche occuparsi delle sue resistenze.


Alberi e uccelli

Perché gli uccelli pigolano se è già scesa la notte? Non c'è agitazione nel pigolio; i sussurri non rivelano nessuna minaccia. Bisbigliano, come se non potessero dormire, come se avessero qualcosa di urgente da dire e non fosse stato sufficiente il giorno o preferiscono questa intimità. È una notte scura, senza luna, e l'albero appare come un ricordo, un'intuizione. In quella casa nera gli uccelli bisbigliano; Ignorano le leggi dell'ombra.

Ciò che appare si tende in due modi: verso i bordi, da una parte, e verso un centro invisibile, dall'altra. Dirò a Mario che dobbiamo considerare nel montaggio queste due forme delle distanze.

L'assenza di edifici dietro questi alberi mi permette di isolare una parte del mondo: alcuni alberi, il cielo. Il sole sorge dietro un albero che ha perso tutte le sue foglie. Se ci sono alcune nuvole sparse, il cielo si riempie di un'immensa varietà di colori: ocra e grigio, in diverse tonalità, alcune macchie nere. Il controluce evidenzia l'arrivo degli uccelli; vanno e vengono, risorgono. Se predomina l'ululato delle colombe, la nascita acquisisce gravità. È un'altra la sensazione se il mondo nascente viene afferrato dal grido dei pappagalli.

Penso a due piani che ho girato un po' di tempo fa. Riappaiono, mentre guardo il nuovo materiale, come se ne facessero parte: in entrambi c'è un va e vieni di pascoli e vegetazione, uno scorrimento di luce, un paesaggio arido. Le domande sono inevitabili. Cosa ci porta, nel divenire del film, fino ai pascoli, fino a quella terra segnata dal sole e dal vento? È il canto degli uccelli? È la luce? C'è  un desiderio in materia, una sorta di disperazione, che spinge verso quel paesaggio secco? Andiamo due volte fino a lì. Strappati dal territorio, nel linguaggio, affinché appaia ciò che rimane ferito.

Molto tempo fa ho filmato una stanza piena di uccelli. Erano piccoli, colorati uccelli, che avevamo acquistato sulla Rambla, a Barcellona. Si chiamavano Usignoli del Giappone, credo. Ma non siamo riusciti a restituire l’immagine dell'esperienza degli uccelli volando accanto a noi con le loro frustate di vento.

Alcuni volano da soli, in linea retta, verso il nulla.

Molti degli effetti della luce sui piani sono conseguenza di un difetto della cinepresa con cui filmo, che compensa la luce a modo suo. Lontano dal volerlo evitare, lavoro su questo, lo provoco e lo aspetto. Trovo abbastanza singolare il modo in cui la luce e il colore impazziscono. Questo difetto della cinepresa che provoca macchie luminose, versamenti colorati, fragilità nei contorni, è nell'ordine di ciò che possiamo chiamare casuale. Ma c'è qualcosa della volontà dell'occhio che forza il caso, lo cerca e lo desidera. Sono felice ogni volta che appare; mi commuove come se ricevessi un'epifania. Il montaggio si appropria di questa singolarità per costruire il suo flusso di luce.

Come in tutti gli uccelli azzurrati, il colore non proviene da un pigmento, ma è il risultato della rifrazione della luce dovuta alla struttura interna delle piume. Per questo motivo, se si schiaccia una penna, il blu scompare.

Rimane nella mia testa l'idea del caso, non più legata a ciò che passa con la luce e i colori che provoca il difetto della cinepresa, ma a quel complesso di eventi che si manifesta all'improvviso che ci assalgono, «Causa o forza che presumibilmente determina che i fatti e le circostanze imprevedibili o non intenzionali si sviluppano in un modo o nell'altro», dice il dizionario. Indago su ciò che ha di valido il concetto per la realizzazione di un film: se sto filmando l’albero perché piove, se filmo la pioggia e la sua scrittura contro le foglie, se in quel momento un’allodola esce dall'albero e si bagna nel ramo più alto, se subito esce un altro uccello e si bagnano entrambi in una festa di piume, acqua e gorgheggi, se poi, quando la pioggia aumenta la sua intensità, ritornano all'interno dell'albero. Tutto in una sola ripresa impossibile da pianificare, qual è la condizione di questo caso? È casuale o è un agguato? Quale legame invisibile si traccia tra il caso e la condizione di attesa?

Ora, il piccolo pezzo di mondo si oscura. Le linee sono delicate, le sfumature minime. Non è una macchia nera, inespugnabile, ma una tela con piccole raschiature: invito e minaccia. Cerco di vedere in quello specchio d'ombra ciò che si avvicina, ciò che mormora.

L'albero notturno esprime, allo stesso tempo, la sua potenza e la sua impotenza. Lo sguardo, che si mimetizza, cerca di vedere nei piccoli graffi luminosi. Nello sforzo per vedere, mi riempio di stupore.

Scoprire il tempo esatto di ciò che batte nell'ombra. 

Ciò che appare, scompare senza sosta. Le riapparizioni sono, necessariamente, novità della luce e della forma.