(Trad. Giovanni Festa)

La figura di Helen Keller (1880-1968), scrittrice, oratrice e attivista che seppe svolgere un'intensa vita pubblica nonostante fosse sorda, cieca e muta dalla primissima infanzia, ha attraversato le generazioni come un caso eccezionale. Fin da piccola ha vissuto le traversie di una vita mediatica. La stampa e l'industria editoriale, poi il cinema, la radio e le presentazioni pubbliche furono incessanti durante una lunga vita divenuta un esempio di superamento di una situazione che sembrava senza via d'uscita. Per più di un secolo il cinema ha illustrato questa presenza attraverso il documento audiovisivo e di finzione.

Non è nostra intenzione fornire qui un resoconto completo delle “versioni” di Helen Keller sullo schermo, e ci limiteremo a soffermarci su alcune pietre miliari di questa relazione. Il caso Keller apre alcune questioni fondamentali sull’alterità nel cinema, a partire da una devastante privazione iniziale dei consueti modi di contatto tra un soggetto, i suoi simili e il mondo circostante. Se per alterità si intende quell'esperienza che indica il riconoscimento di un altro come punto di partenza per arrivare a un noi, l'itinerario di Helen Keller ha tracciato una curva di singolarità estrema, in cui è presente una dimensione politica generalmente mascherata attraverso la riduzione a figura ispiratrice, o a testimonianza di una storia esemplare di miglioramento personale.

Come affrontare in immagini e suoni una soggettività strutturata a partire da altri sensi, da un violento isolamento primario dentro il proprio corpo, che ha avuto accesso al linguaggio a partire da un'eccezionale modalità di lettura fondata sul contatto manuale con la sua maestra? La storia di Helen Keller è ben nota. A diciannove mesi, una malattia non specificata la privò della vista e dell'udito, lasciandola crescere muta, in uno stato di estremo isolamento interrotto solo da azioni compulsive e pochi gesti rudimentali. A sette anni poté incorporare il linguaggio grazie alla singolare pedagogia ad hoc della sua maestra particolare Anne Sullivan, anche lei ipovedente. I racconti della sua vita, seppur fanno affidamento ad alcuni sguardi esterni, si sostengono in un'elaborazione fondamentale da parte della stessa protagonista, che dopo aver avuto accesso ad una rigorosa educazione formale, e, durante la giovinezza, attraverso una vita sociale di insolita intensità, divenne esperta narratrice del suo caso e interprete di una visione del mondo propria.

I suoi libri La storia della mia vita e la raccolta di saggi e poesie Il mondo in cui vivo, oltre alla biografia della sua insegnante, Teacher: Anne Sullivan, danno conto di questa narrazione. Un potente impulso autobiografico opera in una scrittura tersa e in un'oralità laboriosa ma intelligibile, che gli permetteva non solo di coltivare la “letto scrittura”, ma di sostenere innumerevoli interviste e conferenze. Il tema ricorrente di Helen Keller non era, però, se stessa: i suoi interventi si estendevano ad aspetti fondamentali della storia del XX secolo: le guerre, lo stato del capitalismo, l'ascesa e il consolidamento del socialismo, la questione razziale, il femminismo e il voto delle donne o la situazione della classe operaia. Nei mass media, tuttavia, la storia di vita esemplare assunse una tale centralità che la radicale alterità di Keller e il suo incessante tentativo di pensare un mondo di uguali venne a lungo respinta, e questo fino ad anni recenti.

Mostrare Helen Keller al cinema ha rappresentato una sfida nella quale lei stessa è stata coinvolta praticamente da subito: l’inizio di questa relazione fu abbastanza singolare. Deliverance (1919), diretto da George Foster Platt, è un film ibrido, precedente alla distinzione tra documentario e finzione. Il film narra aspetti dell'infanzia di Keller e in alcuni passaggi finali mostra la giovane, la sua insegnante e alcuni parenti in immagini di vita quotidiana. La struttura narrativa espone la vita di Helen come se fosse l'allegoria della lotta tra la luce e le tenebre fisiche e sociali, concetto, questo, negoziato da lei stessa, che fu produttrice del film attraverso la Helen Keller Foundation. Nel film, interpretato da due attrici, gli eventi sono incentrati, nella prima parte, sulla comprensione infantile dei segni che le hanno permesso di iniziare una lettura del mondo attraverso le proprie mani.

E nella seconda parte, quella della sua educazione formale, dall'ingresso al Radcliffe College, alle vicissitudini sociali e sentimentali che la legano alla storia del suo tempo, specialmente la Grande Guerra, il racconto si ramifica con diverse storie fittizie organizzate in una cornice melodrammatica. Nonostante abbia attraversato quattro decenni della sua vita, nel film non si sottolinea l'impegno sistematico dell'autrice per il socialismo. Qui è sostituito da una generica utopia sociale tesa alla pacificazione universale. Mentre il cinema enfatizzava questa versione della personalità della Keller, i suoi libri, interviste e interventi pubblici mostravano una indole diversa, dove l'attivismo politico e la militanza giocavano un ruolo fondamentale. Ad ogni modo, le aspre polemiche dei suoi anni giovanili, e le idee che, in età matura, non cedettero nella loro radicalità, furono clamorosamente ignorate nella ricezione mediatica.

La costruzione di una Helen Keller concentrata sull'impresa della sua incorporazione in un'umanità su scala personale, incentrata sulla relazione con la sua insegnante, è stata così potente da diventare l'asse privilegiato di The Miracle Worker (1962) Indubbiamente il film a cui si pensa immediatamente quando si evoca la sua presenza nel cinema. Il film nasce da un'opera teatrale di William Gibson del 1959 e fu rappresentata con grande successo a Broadway con la regia di Arthur Penn, che, tre anni dopo, la portò al cinema con lo stesso titolo e il ruolo di Anne Bancroft e Patty Duke, in entrambi i casi, interpretando Sullivan e Keller. La piece acquisì presto lo status del classico, mostrando un caso felice di alleanza produttiva tra teatro e cinema, rafforzata dalla presenza dello stesso regista e delle sue attrici.

Si tratta di un rapporto che si fa più complesso ricordando che all'origine l'opera, ispirata da La storia della mia vita, fu in origine scritta per essere diffusa nel celebre ciclo televisivo Playhouse 90 della rete CBS. Il passaggio fu quindi dallo schermo elettronico alle assi della scena, e da lì al cinema. I momenti cruciali del dramma e del film sono pronti a segnare l'avanzamento e il successo della quasi impossibile impresa didattica di socializzazione della creatura. Nasce così un mondo che può essere nominato e altri esseri umani che possono essere riconosciuti, per permettere il sorgere del linguaggio come spazio comune in cui si dispiega un destino condiviso. Dal film di Arthur Penn si può notare la rivolta dei corpi sulla scena, dediti a un confronto violento o disposti a rompere le barriere dell'isolamento più estremo.

Uno dei passaggi più intensi del film coinvolge Anne e Helen in una lotta accanita, non esente da un'attenta coreografia da parte del regista, attorno all'impossibilità della ragazza di sedersi a tavola e mangiare da un piatto. È curioso come Arthur Penn, comunemente noto come membro di spicco della "generazione della violenza" nel cinema americano degli anni '60, esprima qui una fisicità inaudita in un film che è, a modo suo, un film d'azione in cui l'esplosiva motricità si impone alle interiorità psicologiche. Il legame si stabilisce a partire da una lotta primordiale, dove le barriere si infrangono di fronte all'emergere del simbolico che sgorga come una deflagrazione. Momento di rivelazione che lo stesso titolo del film qualifica come miracolo.

Ma la storia fra Helen Keller e Anne Sullivan conduce, nel punto in cui il film di Penn si conclude, dal miracolo ad una politica del legame sociale, che malgrado lo sforzo accanito di Keller, come si è detto, era sistematicamente relegata ad un piano aneddotico, come una stravaganza di un personaggio già di per sé eccezionale. Ed è ciò che ha portato al recente notevole lungometraggio di John Gianvito: Her Socialist Smile (2020). Il progetto di Gianvito, che mescola il documentario e il saggio cinematografico e dotato di una certa vocazione sperimentale, ebbe una gestazione lunga diversi anni, durante i quali il cineasta constatò che, nonostante l'onnipresente figura di Keller nell'immaginario nordamericano, i documenti sulla sua lunga e iperattiva carriera politica erano tutt'altro che abbondanti.

Questa situazione influisce sulla scarsità di archivi sonori o audiovisivi su Helen adulta, nonostante la sua lunga vita, il suo status di personalità pubblica e la sua fama internazionale. I suoi scritti e la registrazione dei suoi discorsi politici, come Helen Keller. Her Socialist Years, compilato dallo storico del lavoro Philip Foner, furono a lungo dimenticati. Il regista elaborò, quindi, una strategia partendo da una messa in scena dell'assenza e della disgiunzione. Il film attraversa il mondo che Keller non poteva vedere o sentire, anche se in non pochi passaggi le immagini sembrano avvicinarsi al confine di quella tattilità che l'autrice considerava il suo legame privilegiato con l'ambiente. Gianvito filma gli spazi aperti, la vita della foresta, il cambiamento delle stagioni: la percezione degli spettatori è radicalmente limitata, proprio come quella che era possibile alla Keller. Tuttavia la ricerca è quella di uno spazio in comune: quello di una sofferenza, di un godimento e di un apprendimento condiviso.

Il film elabora un'esplorazione non solo della scrittura cinematografica, ma dei sistemi di segni che Keller ha usato o ideato per superare il suo isolamento sensoriale. Gli scritti dell'autrice sono presentati in ampi paragrafi presentati sullo schermo durante un completo silenzio, affinché lo sviluppo del pensiero avvenga nella massima concentrazione. La stessa introduzione di Her Socialist Smile presenta una doppia singolarità. La macchina da presa percorre a poca distanza i rilievi dei segni in sistema braille e ascoltiamo la voce di Hellen Keller, con la sua "traduzione". La limpida scrittura di Keller, evidente nei suoi libri, si contrappone alla gutturale, laboriosa fonazione appresa da una connessione fondamentalmente tattile con la sua maestra Anne Sullivan. In una delle sue interviste le chiedono: «Che attività socialista sta facendo adesso?» «Parlare», risponde.

Keller usava spesso la cecità come metafora sociale, alludendo all'ormai consolidata impossibilità di percepire la sofferenza altrui. Così diagnosticava la cecità sociale e la sordità degli industriali davanti alle richieste della classe lavoratrice. Her Socialist Smile mostra il confronto tra il presidente Woodrow Wilson, per il quale le suffragette erano «totalmente abominevoli», e una giovane Keller, incorporata nella IWW, l'unione radicalizzata dei lavoratori nata a Chicago verso il 1905. Keller ha aderito al sindacalismo rivoluzionario dei cosiddetti Wobblies integrando la lotta per i diritti delle donne e dei disabili in un movimento più inclusivo per l'emancipazione. Per lei, la questione cruciale era liberare uomini e donne, insieme.

Se certi punti di vista, come la loro temporanea vicinanza a precetti eugenetici molto diffusi un secolo fa, oggi sono chiaramente dissonanti, la polemica contro la fazione reazionaria dei "preparazionisti" nordamericani, cultori di una società fanatica degli armamenti, risuona drammaticamente attuale anche un secolo dopo. La nitidezza del pensiero di Keller si muoveva dal tatto alla mente, e dalla soggettività alla collettività.  Mediante la disgiunzione del vedere, dell'udire, del toccare e del leggere, Gianvito va organizzando i pezzi separatamente. Fino a quando, in certi momenti, come una coda, si ascolta musica in un auditorium vuoto. È quella che era solita accompagnare i suoi discorsi pubblici. La voce che in alcuni passaggi si sente leggendo le sue parole è della poetessa Carolyn Forché.

Un capitolo aggiuntivo del nostro percorso è infine quello del recente documentario Becoming Helen Keller (Michael Pressman, 2021), diffuso nel ciclo American Masters di PBS, uscito poco dopo il film di Gianvito. Si tratta di un'ultima svolta nella ricerca di un adattamento contemporaneo al profilo della Keller, in linea con la metodica matrice formale della televisione pubblica statunitense. Becoming Helen Keller mostra l'autrice come attivista e pioniera dei diritti delle donne, dei disabili e degli espropriati, attenuando in qualche modo la sua radicalità politica per trasformarla nell’avvocata delle diversità e dei diritti delle minoranze.

Tra l'attenta ricerca degli archivi, la narrazione che opta per lo sviluppo delle ricchezze identitarie e la consulenza e la discussione di esperti e attivisti contemporanei, Becoming Helen Keller rivela risultati parziali che, con la sua enfasi sulla partecipazione di Helen a gruppi di azione collettiva, ammorbidisce l'eredità radicale ed egualitaria che fu forse la forza più potente della sua misteriosa, fragile e irriducibile figura.

Attraverso queste varie versioni, questa figura unica conserva ancora intatto il suo mistero. In un pezzo di reportage citato alla fine di Her Socialist Smile, un intervistatore chiede alla Keller quale desiderio formulerebbe se le fosse permesso chiederne uno. E lei risponde: «Vorrei la luce per ogni occhio e per ogni mente». Una parte di quella luce desiderata mette alla prova, anche se perseguitata dagli inevitabili cliché, i fondamenti e le realizzazioni di quell'arte combinatoria dello sguardo e dell'ascolto che chiamiamo cinema.



TESTO ORIGINALE

Políticas de la alteridad: sobre algunos retratos de Helen Keller en el cine



La figura de Helen Keller (1880-1968), escritora, oradora y activista que supo desarrollar una intensísima vida pública a pesar de su temprana niñez como sorda, ciega y muda, ha atravesado generaciones como un caso de excepción. Desde su infancia vivió las vicisitudes de una vida mediática. La prensa escrita y la industria editorial, más tarde el cine, la radio y las presentaciones públicas fueron continuas a lo largo de una prolongada vida que se instaló como ejemplo de superación a partir de una desgraciada situación a la que parecía imposible sobreponerse. Durante una centuria, el cine ha tratado con su presencia, bajo la forma del documento audiovisual y de la ficción.

No es nuestro propósito brindar aquí un recuento exhaustivo de las versiones de Helen Keller en la pantalla, sino detenernos sólo en algunos hitos de esta relación, dispuestos a lo largo de más de un siglo. Su caso abre ciertas cuestiones fundamentales sobre la alteridad en el cine, a partir de una devastadora privación inicial de los modos usuales de contacto entre un sujeto, sus semejantes y el modo circundante. En cuanto a la alteridad como esa experiencia que apunta al reconocimiento de otro como punto de partida para arribar a un nosotros, el itinerario de Helen Keller trazó una curva de singularidad extrema, en la que late una dimensión política generalmente disimulada en su reducción a figura inspiradora, o a ser recordada como una historia ejemplar de superación personal. ¿Cómo abordar en imágenes y sonidos una subjetividad estructurada a partir de otros sentidos, desde un violento encierro primario en su cuerpo, que accedió al lenguaje a partir de un excepcional modo de lectura fundado en el contacto manual con su maestra?

 La historia de Helen Keller es largamente conocida. A los diecinueve meses, una enfermedad no especificada la privó de la visión y la audición, creciendo muda, en un estado de aislamiento extremo sólo interrumpido por acciones compulsivas y unos pocos gestos rudimentarios. A los siete años pudo incorporar del lenguaje gracias a la singular pedagogía ad hoc de su maestra particular Anne Sullivan, también discapacitada visual. Los relatos de su vida, si bien cuentan con algunas miradas de los otros, se sostienen en una elaboración fundamental, a cargo de la propia protagonista, quien luego de acceder a una rigurosa educación formal, y atravesar durante su misma juventud una vida social de intensidad insólita, se convirtió en experta narradora de su caso e intérprete de su visión del mundo. Sus libros La historia de mi vida y la colección de ensayos y poesías El mundo donde vivo, además de la biografía de su maestra, Teacher: Anne Sullivan, dan cuenta de dicha narración.

Un poderoso impulso autobiográfico operaba en una tersa escritura y una oralidad trabajosa aunque inteligible, que le permitió no sólo cultivar la lectoescritura, sino desarrollar innumerables entrevistas y conferencias. Pero el tema recurrente de Helen Keller no era ella misma: sus intervenciones se extendían a aspectos candentes de la historia del siglo XX. Las guerras, el estado del capitalismo, el ascenso y consolidación del socialismo, la cuestión racial, el feminismo y el voto de la mujer o la situación de la clase trabajadora. En los medios, no obstante, la historia de vida ejemplar ha cobrado tal centralidad que la radical alteridad de Keller y su incesante búsqueda de construir un mundo de iguales ha quedado largamente desestimada, hasta años recientes.

Mostrar a Helen Keller en el cine ha planteado desafíos en los que la misma biografiada estuvo involucrada en un singular comienzo. Deliverance (1919), dirigida por George Foster Platt, es  un film híbrido, previo a la distinción entre documental y ficción. La película ficcionaliza aspectos de la infancia de Keller y en algunos pasajes finales muestra a la autora, su maestra y algunos allegados en imágenes de su vida cotidiana. Su estructura ficcional se orienta a exponer su vida una alegoría de lucha de la luz contra las tinieblas físicas y sociales, concepto negociado por la misma autora, que además fue su productora a través de la Helen Keller Foundation. En la ficción interpretada por dos actrices, los sucesos están centrados, en el primer tramo, en su comprensión infantil de los signos que le permitieron iniciar una lectura del mundo a través de sus manos. Y en el segundo tramo, el de su educación formal, desde el ingreso al Radcliffe College, hasta los avatares sociales y sentimentales que la ligan a la historia de su tiempo, especialmente la Gran Guerra, el relato se ramifica con diversas historias ficcionales que la rodean, enmarcadas en el modo melodramático.

A pesar de ya para entonces haber atravesado cuatro décadas de su vida, no se remarca en Deliverance el compromiso sistemático de la autora con el socialismo. Aquí es reemplazado por cierta utopía social tendiente a la pacificación universal. Mientras el cine mostraba esta versión de Keller, sus libros, entrevistas e intervenciones públicas mostraban una personalidad distinta, donde el activismo político y la militancia jugaba un papel fundamental. De todas maneras, las ásperas polémicas de sus años jóvenes, y los planteos que no cedían en su radicalidad durante su madurez, fueron llamativamente desestimados en su recepción mediática. La construcción de una Helen Keller concentrada en la hazaña de su incorporación a una humanidad a escala personal, centrada en la relación con su maestra, fue tan poderosa como para convertirse en el eje privilegiado de The Miracle Worker (1962) indudablemente la ficción en la que primero se piensa cuando se evoca su presencia en el cine.

The Miracle Worker partió de una obra teatral de William Gibson en 1959 y representada con rotundo éxito en Broadway, con la dirección de Arthur Penn, quien tres años más tarde la llevaría al cine con el mismo título y el rol protagónico de Anne Bancroft y Patty Duke, en ambos casos, interpretando a Sullivan y Keller. La pieza adquirió pronto un rango canónico, planteando un caso de productiva alianza entre teatro y cine, reforzada por la presencia del mismo director y sus actrices. Se trata de una relación que se hace más compleja al recordar que en el origen la obra, inspirada por La historia de mi vida, se escribió para su difusión televisiva en el célebre ciclo Playhouse 90 de la cadena CBS. El tránsito fue de la pantalla electrónica a las tablas, y de allí al cine. Los momentos cruciales de la pieza teatral y el film están dispuestos para señalizar el avance y el éxito de la casi imposible empresa didáctica de socialización de la criatura. Surge así un mundo que puede ser nombrado y otros seres humanos que pueden ser reconocidos, para plantear a ese lenguaje como un espacio común en el que se despliega un destino compartido.

Del film de Arthur Penn cabe destacar el estallido de sus cuerpos en escena, entregados a una confrontación violenta o dispuestos a romper las barreras del aislamiento más extremo. Una de los pasajes más intensos de la película involucra a Anne y Helen en una lucha encarnizada, no exenta de una cuidadosa coreografía por parte del cineasta, en torno a la imposibilidad de la niña a sentarse a la mesa y comer desde un plato. Es curioso cómo Arthur Penn, comúnmente conocido como miembro destacado de la “generación de la violencia” en el cine norteamericano de los años sesenta, extiende aquí una fisicidad inaudita en una ficción que es, a su extraña manera, un film de acción donde la explosiva motricidad se impone a las interioridades psicológicas. El vínculo se establece a partir de una lucha primordial, donde las barreras se quiebran ante el surgimiento de lo simbólico que brota como el agua de la bomba.

Momento de revelación que el mismo título del film califica como milagro. Pero la historia entre Helen Keller y Anne Sullivan condujo, desde el punto en que la deja el film de Penn, del milagro a una política del lazo social, que a pesar del esfuerzo denodado de Keller era sistemáticamente relegada a un plano presuntamente anecdótico, como una rareza de un personaje de por sí excepcional. Y es lo que aportó el notable largometraje reciente de John Gianvito: Her Socialist Smile (2020). Extendido entre el documental, el ensayo cinematográfico y hasta con cierta vocación experimental, el proyecto de Gianvito tuvo una gestación de varios años, durante los cuales el cineasta comprobó que, a pesar de la omnipresente figura de Keller en el imaginario norteamericano, los documentos sobre su extensa e hiperactiva trayectoria política estaban lejos de ser abundantes. Esta condición afecta a la escasez de archivos sonoros o audiovisuales sobre Helen Keller adulta, a pesar de su prolongada vida, su estatuto de personalidad pública y su fama internacional.

Sus escritos y el registro de sus alocuciones políticas, como Helen Keller, Her Socialist Years, compilado por el historiador del trabajo Philip Foner, han sido largamente relegados. Por lo tanto, el cineasta elaboró una estrategia a partir de una puesta en escena de la ausencia y la disyunción. Sus imágenes recorren el mundo que Keller no pudo ver u oír, a pesar de que en no pocos pasajes las imágenes parecen acercarse a la frontera de esa tactilidad que la autora consideró su vínculo privilegiado con el entorno. Gianvito toma los espacios abiertos, la vida del bosque, el cambio de las estaciones: la percepción de los espectadores es radicalmente segregada de aquella que fue posible a Keller. No obstante la búsqueda es la de un espacio en común: el de un sufrimiento, un goce y un aprendizaje compartido.

El film elabora una exploración no solamente de la escritura cinematográfica, sino de los sistemas de signos que Keller usó o ideó para superar su encierro sensorial. Los escritos de la autora son presentados en extensos párrafos presentados en pantalla bajo un completo silencio, para que la presentación de su pensamiento se produzca en la mayor concentración. La misma introducción de Her Socialist Smile presenta una doble extrañeza. La cámara recorre a muy poca distancia los relieves de signos en sistema Braille y escuchamos la voz de Hellen Keller, con su “traducción”.  La límpida escritura de Keller, manifiesta en sus libros, se contrapone con la gutural, trabajosa fonación aprendida a partir de una conexión fundamentalmente táctil con su maestra Anne Sullivan. En una de sus tantas entrevistas se la inquiere:“¿Qué actividad socialista está haciendo ahora?” “Hablar”, contesta ella.

A menudo, Keller utilizaba la ceguera como metáfora social, aludiendo a la instalada imposibilidad de percibir el sufrimiento ajeno. Así diagnostica la ceguera social y la sordera de los industriales ante los reclamos de los trabajadores. Her Socialist Smile se expande en la confrontación entre el presidente Woodrow Wilson, para quien las sufragistas eran “totalmente abominables”, y una Keller joven, incorporada a la IWW, la radicalizada unión de trabajadores nacida en Chicago hacia 1905. Keller adhirió al sindicalismo revolucionario de los llamados Wobblies integrando a la lucha por los derechos de las mujeres y los discapacitados en un movimiento emancipatorio más abarcativo. Para ella, el asunto crucial era liberar a los hombres y las mujeres, juntos.

Si ciertos puntos de vista, como su temporal cercanía a preceptos eugenésicos muy difundidos hace un siglo, hoy son claramente disonantes, la polémica contra la facción reaccionaria de los “preparacionistas” norteamericanos, cultores de una sociedad fanatizada por el armamentismo resuena dramáticamente contemporáneo un siglo más tarde. La claridad, la nitidez del pensamiento de Keller, se conducía desde el tacto a la mente, y desde su subjetividad hacia lo colectivo.  Mediante la disyunción del ver, del oír, del tocar y el leer, Gianvito va disponiendo sus piezas por separado.  Hasta en ciertos momentos, como una coda, se escucha música en un auditorio vacío. Es la que solía acompañar sus alocuciones públicas. La voz que en algunos pasajes se escucha leyendo sus palabras es de la poeta Carolyn Forché.

Un capítulo adicional a nuestro recorrido es, finalmente, el del reciente documental Becoming Helen Keller (Michael Pressman, 2021), difundido en el ciclo American Masters de PBS, poco después del film de Gianvito. Se trata de un último giro en la búsqueda de un perfil contemporáneo para Keller, y de acorde a la metódica matriz formal de la televisión pública estadounidense.  Becoming Helen Keller muestra a la autora como activista y pionera de los derechos de las mujeres, los discapacitados y los desposeídos, atenuando en cierto modo su radicalidad política para proyectarla como una abogada de las diversidades y los derechos de las minorías.

Entre la cuidadosa investigación de archivos, la narración que opta por el cultivo de plenitudes identitarias y el asesoramiento y discusión de expertos y activistas contemporáneos, Becoming Helen Keller arroja logros parciales que, en su énfasis por el resguardo de la pertenencia a algunos colectivos, suaviza el legado radical e igualitario que acaso fue la fuerza más poderosa de su misteriosa, frágil e irreductible figura. Tras las diversas versiones, ese famoso perfil sigue guardando su misterio.

En un fragmento de reportaje citado al final de Her Socialist Smile, un entrevistador pregunta a Keller qué deseo formularía si se le permitiera pedir uno. Y ella responde: “Desearía la luz para cada ojo y para cada mente”. Algo de esa luz deseada pone a prueba, aun acechado por los inevitables clisés y cristalizaciones varias, los fundamentos y alcances de ese arte combinatoria de la mirada y la escucha que llamamos cine.

Tags: