Tra Saute ma ville (1968) il primo film di Chantal Akerman e No Home Movie (2015), l'ultimo, presentato a Locarno poco prima della sua volontaria scomparsa, nell'arco di oltre quattro decenni, prende corpo una tra le filmografie più significative del cinema contemporaneo, per la continua sperimentazione dei linguaggi che è già politica in atto, e per il furore fisico che appartiene alle sue immagini, stilizzate e al tempo stesso intensamente corporee.  

Il suo cinema, non per caso, inizia, con Saute ma ville, da una casa, dove la regista allora appena diciottenne – è lei l'unica protagonista – si chiude in cucina, all'attacco dei vari stereotipi del lavoro domestico – cucinare, lavare il pavimento, lucidare le scarpe –, che già prevede Jeanne Dielman, e che, in un crescendo distruttivo e autodistruttivo, termina con un suicidio in chiave burlesque, con il gas aperto e l'esplosione della casa. Molti anni dopo, il suo ultimo film No Home Movie, chiudendo il cerchio, riporta tutto il suo cinema, a riverberarsi dentro la casa di sua madre Natalia a Bruxelles, mettendo finalmente tutte le sue immagini –  e se stessa  –  in un confronto diretto con il luogo  –  la casa  –   e il soggetto  –  la madre  –, che per sua stessa dichiarazione, è stato da sempre il centro magnetico del suo lavoro, anche se, fin qui, solo obliquamente, e sempre da una certa distanza.

Se si cerca di mettere No Home Movie in rapporto con altri film della sua filmografia, più che a una lettera – elemento ricorrente e affettivamente prediletto da Akerman – somiglia a un diario, condiviso da lei e Natalia, che procede per blocchi temporali, dove si registrano gli ultimi anni di vita della madre, mentre negli intervalli tra un blocco e l'altro, sempre girati nella casa di Bruxelles, entrano altre immagini, come i prolungati segmenti in camera-car nel deserto del Negev, o come l'albero sconquassato dal vento, che apre il film, o, ancora, come certe sequenze filmate in soggettiva, a Bruxelles, di pura sperimentazione, sovraesposte e quasi cancellate dalla luce: strane incursioni disarticolate e violente che penetrano come squarci di un'altra lingua sconosciuta nel tessuto del film, immagini smarrite, evidenti correlativi oggettivi di un'esperienza di lutto, che poi è la forma stessa, il senso profondo del film.

In No Home Movie, sorta di film-limite, di terra di nessuno disabitata, deserta, oltre il quale non può esserci più nulla, né casa, né cinema, e neppure vita, si rispecchia nella sua interezza la singolarità assoluta dell'opera di Chantal Akerman, nomadica e, insieme, stranamente stanziale nella centralità persistente affidata alla casa, portata alla dispersione e al frammento, eppure fedele alla densità del piano-sequenza, segnata dalla presenza acuta dei corpi, quasi sempre inscritti, però, nell'astrazione danzante, quasi burattinesca, delle posture; in sintesi, un'opera contrassegnata dal paradosso e dalla contraddizione, nel senso di una coesistenza di intensità opposte, un'opera esigente, rigorosa che chiede, silenziosamente, qualcosa allo spettatore.   

Se si prende uno dei suoi film-manifesto degli anni '70, Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles, realizzato da Akerman a venticinque anni, questa esperienza paradossale, di una coesistenza di opposti, si inscrive nella stessa struttura del film, che, come si sa, accompagna la vita della casalinga Jeanne nell'arco di tre giornate, dove alla densità pesante di certe durate in tempo reale – la preparazione laboriosa delle cotolette, le patate sbucciate lentamente una per una, la metodica spazzolatura delle scarpe del figlio, ecc. –, si contrappone un registro ellittico, composto di misteriosi scarti temporali, segnati dalla porta chiusa della sua camera da letto, dove Jeanne incontra i suoi clienti occasionali. Dopo, una volta congedato il cliente, il tempo reale può riprendere di nuovo a fluire come l'acqua che scorre, mentre Jeanne si lava con cura dentro la vasca da bagno, che alla fine verrà a sua volta scrupolosamente ripulita, per cancellare ogni traccia. È da questa violenta coesistenza di opposti: l'estensione di durate non particolari, ma qualsiasi, scandite dalla ripetizione di gesti compiuti in tempo reale, contrapposta alle ellissi temporali – porte chiuse e gli stessi composti silenzi di Jeanne (Delphine Seyrig qui splendida nel suo ruolo, in assoluto, più estremo)  – , che il film acquista lentamente un carico di tensione sempre più insostenibile, fino a raggiungere il punto di non ritorno con l'omicidio repentino dell'ultimo cliente, che si vede riflesso nello specchio, colpito con le forbici da Jeanne. Chantal Akerman ha sempre messo in chiaro come in Jeanne Dielman, non si trattasse della realtà, ma della sua messa in scena, spinta all'ennesima potenza, iperrealismo puro, di fronte al quale lo spettatore, con fascinazione mista ad angoscia, viene continuamente chiamato in causa dalla ripetizione, dalla ritualità dei gesti, dall'ordine costituito di questa formidabile macchina sociale – paradigma da distruggere e, insieme, vita osservata al lavoro  – , anche se, sempre paradossalmente, avverte che è dalla precisione analitica, nella scansione di ogni singolo istante di tempo reale, dall'implacabile concatenazione dell'ingranaggio, che si può aprire, proprio là dove si avverte la trappola, una linea di fuga.

Jeanne Dielman, fa ancora oggi paura, con il suo dono allo spettatore di un mistero, in gran parte indecifrabile  – perché di una nuova scrittura si tratta  –, un enigma in cui l'estrema sperimentazione formale incontra la banalità del quotidiano e l'inconscio, un urlo silenzioso contro il mondo della madre, delle zie, osservate da una bambina, restando, nello stesso tempo, grazie alla forza della bellezza di Delphine Seyrig, paradossalmente, anche una celebrazione di quello stesso mondo femminile, amato/odiato e fatto esplodere. Questa, la contraddizione aperta da Jeanne Dielman, che rimane soprattutto un gesto violento di liberazione contro l'ordine di un mondo piccolo-borghese simile a una prigione, che alla fine salta, un film che non avrebbe mai potuto avere questo impatto dirompente senza la presenza e la forza creativa di un soggetto politico nuovo, quale era stato, allora, il movimento delle donne. Contemporaneamente dentro e contro l'immagine, è stata anche la difficile posizione che Chantal Akerman si è scelta per filmare, inventandosi una scrittura completamente nuova, scavata dentro il cinema, sotto il segno di Pierrot le fou – è da lì che provengono le forbici e i colori di Jeanne Dielman, oltre che, naturalmente, da Hitchcock  –, sempre acutamente consapevole di trasgredire al comandamento del libro dell'Esodo (20, 4), che vieta di farsi idoli e immagini, e quindi tentando continuamente, come aveva detto in una conversazione con Jean-Luc Godard, di «sfuggire all'immagine», con la scelta, sorprendente e, appunto, paradossale, di fare del cinema...

Questa posizione singolare occupata da Akerman, era stata perfettamente compresa dal direttore del Belgian Film Archive, che aveva osservato: «Ci sono registi che sono bravi, registi che sono grandi e registi che sono nella storia del cinema, ma ci sono pochi registi che cambiano la storia del cinema». Nel giro di pochi anni, con Je, Tu, Il, Elle (1974), Jean Dielman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975), News from home (1976), Chantal Akerman aveva portato nel cinema qualcosa che prima non c'era, tanto che la stessa Biennale di Venezia nel 1976 le aveva dedicato una personale, riconoscendo fin dall'inizio l'assoluta singolarità della sua opera, in larga parte sottratta al circuito ufficiale, per chiara scelta politica, e quindi destinata a rimanere a lungo marginale, poco vista, se non da un pubblico specializzato ai festival o in altri spazi o rassegne alternative, nonostante, o in ragione, della potenza sovversiva del suo stile e della trasparenza di cristallo della sua scrittura filmica. Devozione al piano sequenza e frammentazione, presenza diffusa della tragedia della Shoah nelle sue storie, nelle sue inquadrature inimitabili e vertiginose, nel lento, dolce procedere dei suoi travelling. Film girati come luoghi, come stanze, come case da abitare, o da distruggere, e spinta insopprimibile al nomadismo con la disseminazione delle proprie immagini, che, uscendo dal cinema, prendono altre strade, entrano nelle gallerie e nei musei, aprendo con le installazioni nuove derive di senso, costellazioni di immagini in diaspora che stabiliscono con i film di provenienza  –  Jeanne Dielman, D'Est, De l'autre coté, ecc., fino a No home movie  –  un dialogo sommesso, a distanza, di dislocazione e di risignificazione potenzialmente interminabile.

Questi elementi fra loro contrastanti, contraddizioni e spaesamenti, la stessa nozione di esilio che fonda l'opera di Chantal Akerman, ha molto a che fare con la condizione degli ebrei in diaspora, non a caso quella degli ebrei askhenaziti dell'Europa dell'Est era la Storia che Chantal avrebbe sempre desiderato raccontare, e che in un certo senso, a modo suo, ha realizzato, marginalmente, magistralmente, con Histoires D'Amerique e ancora più in profondità con D'Est, in quest'ultimo ripercorrendo a ritroso, dal Belgio alla Polonia, il tragitto, compiuto da ragazzina, da sua madre, poco prima di essere deportata ad Auschwitz. La madre di Chantal, Natalia, detta Nelly, come origine della sua vita e, contemporaneamente, come fulcro di tutte le immagini del suo cinema, per questo così fisico, così fortemente legato al corpo femminile, dalla prima immagine filmata (Natalia che prende la posta dalla cassetta delle lettere), all'ultima, in quel diario amoroso che accompagna gli ultimi anni della sua vita che è No Home Movie. In uno splendido saggio, era stata Janet Bergstrom, la prima a riprendere una nota di presentazione di Chantal Akerman del suo film Les rendez-vous d'Anna (1978), in cui la regista, parlando dei suoi personaggi, che si trovavano tutti come situati ai margini di qualche cosa, faceva riferimento al testo di G. Deleuze e F. Guattari su Kafka (Deleuze, Guattari, 1996) In quel testo Deleuze e Guattari analizzando l'opera di Kafka  –  contro archetipi, metafore, associazioni e interpretazione  – , introducevano i concetti di deterritorializzazione, serialità, letteratura minore, indicando con questo termine non tanto la letteratura di una lingua minore, quanto quel tipo di letteratura che una minoranza fa in una lingua maggiore (op. cit., p. 29), facendo l'esempio del forte coefficiente di deterritorializzazione della lingua tedesca per gli ebrei di Praga. Ma la singolarità delle letterature minori per Deleuze e Guattari è data soprattutto dal fatto che in esse tutto è politica, ogni fatto individuale viene immediatamente innestato sulla politica e assume un valore collettivo (op. cit. p. 30). È quasi impossibile non sentire una stretta analogia tra questa lettura geniale della letteratura minore praticata da Kafka, e la scrittura cinematografica di Akerman, in sintonia tra l'altro con Kafka anche per la presenza in comune delle lettere, della solitudine e dello humour, di quel riso, che Blanchot aveva definito come la forma del dolore di Kafka.

Se per Kafka: «Di grande, di rivoluzionario, non c'è che il minore. Odiate ogni letteratura di padroni » (op. cit. p. 47), per Akerman, come aveva detto in una conversazione con Jean-Luc Godard (in Ca Cinéma, n 19, 1980), c'era il tentativo di fare un cinema molto essenziale, privo di immagini sensazionali. «Invece di mostrare, ad esempio, un avvenimento "pubblico" perché sensazionale o pieno di cose, racconterò solo la piccola cosa accanto». In fondo l'intera opera  di Chantal Akerman, negli anni della sua vita attiva, si è sempre mossa nel segno, paradossale, appunto, di questa marginalità essenziale, seguendo una linea sottile di deterritorializzazione, lungo la quale può continuare ad aprirsi per uno spettatore abbastanza attento e sensibile da riuscire a vedere tra le immagini visibili quelle insostenibili, e da sentirne la vibrazione, l'intensità, ascoltando la voce della scrittura dentro le immagini, mai chiuse o definitive, nonostante la loro trasparente esattezza. Entrare nel cinema di Chantal Akerman, difficile, esigente, significa riconoscerlo come macchina desiderante, che continua a disseminarsi, la sua sperimentazione come necessità vitale di trovare un altro modo di dire le cose. Di qui, il senso di inesauribile scoperta e di avventura che resta il suo tratto più prezioso, presente, in ogni frammento della sua opera, rintracciabile, per esempio, in uno dei tanti movimenti di danza, che Chantal ha saputo inventare con la macchina da presa, che aprivano nuove vie d'uscita, salendo verso le nuvole nel cielo di Bruxelles, come in Les Annèes 80 (1983), o seguendo la rotta dei ferry-boat, di notte, nel porto di New York, come in Histoires d'Amerique (1988) o in News from home, o semplicemente fronteggiando l'intensità della cascata di pura luce che è riuscita a filmare in Tombée de nuit sur Shanghai (2007), fino all'immagine  – nè metafora, nè fantasma  – dell'albero nel deserto di No Home Movie, che resiste al vento.

 

Testi citati:

Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore., Quodlibet, 1996.

Tags: