Trad. Giovanni Festa

Ai margini del cinema argentino contemporaneo più originale, spiccano i film di César González, audaci, inconfondibili, simili a un enigma. Cineasta plebeo, è autore di un'opera torrenziale difficile da concettualizzare. Anche per chi in Argentina ha seguito da vicino la proliferazione dell'opera e delle mostre dell'artista nell'ultimo decennio, resta difficile definire la sua carriera. Tanto più che c'è, in questo pensatore, poeta e cineasta, un nucleo che rimane permanentemente inafferrabile e intraducibile: può essere contemporaneamente o alternativamente la sua esperienza di vita (così intensa e differente), il suo pensiero sofisticato (somma di una notevole varietà di registri e di posizioni eterogenee), la sua comunione con l'arte.

Altre importanti questioni legate a questa filmografia contraddicono poi ogni idea illusoria sulla sua univocità: il numero, la frequenza di apparizioni e l'irregolarità dei film; la molteplicità degli intertesti (principalmente, ma non solo, scritti di vario genere) che compongono la vasta opera di César González e che dialogano con i suoi film, nonché le relazioni che si instaurano tra di essi; e, infine, il segno immanente della sua originalità, cioè la sua profonda estraneità. Nelle pagine che seguono si tenterà una deviazione dai problemi segnalati, evitando contemporaneamente l'esaustività cercando di discutere i film del regista attraverso interpretazioni frammentarie, elogiative e insufficienti, trascrivendo anche parti delle sue poesie e scritti.

«In passato uscivo a rubare / e il fumo della polvere da sparo / segnalava il mio destino / la poesia oggi / è il terreno che cammino / ieri ero uno scheletro dedito all'odio / una semplice ombra / riflessa nella grotta / e oggi proietto in un cinema / ombre e scheletri / che io stesso dirigo / ieri sprofondavo nel fango / e non per gioco / oggi dico che il fango era / la mia accademia di Platone / ieri dormivo / su duri e quadrati cuscini / oggi sono il fidanzato dei sogni realistici / ieri mi trascinavano / ammanettato tra ospedali / ieri agonizzavo / tra istituti e carceri / oggi la pioggia non arrugginisce più la mia anima» (C. González, 2015, p. 22).

Sebbene ogni nuovo film di César González sia legato ai precedenti attraverso una molteplicità di legami, non sono da poco gli scarti che ciascuno di essi lascia intravedere. Sembra difficile riconoscere nella forma dei suoi ultimi lavori la presenza delle prime opere che, tuttavia, sono incluse in essi. Un regista dialettico? È possibile, considerando il suo interesse per il marxismo e la sua devozione verso il cinema sovietico. Come regista materialista parte dal mondo per sperimentare con le sue immagini. Buenos Aires è l'enclave e il teatro di operazione del suo peculiare universo. Come un occhio che demolisce ciò su cui si posa, alla maniera di quello con cui si apre Un perro andaluz (Luis Buñuel, 1928), osserva con il bisturi la vita nelle borgate, nella metropoli, ma anche negli spazi di contenzione come (false) monadi che conterrebbero tutte le immagini, dove l'insieme sociale si esprime come sistema disciplinare o incubo. All'inizio la realtà entrava con tutta la sua violenza, poi il cinema ha finito per contaminare la realtà con la sua anamorfosi. E così anche quei film che presentano i segnali più numerosi del mondo referenziale, interrompono permanentemente la loro presunta immediatezza con ogni sorta di visioni eccentriche, apparenze che apparterrebbero in linea di principio a ordini di cose diverse: «[…] una saturazione / di segni magnifici / immersi / nella luce / con la sua assenza / di spiegazione» (J.-L. Godard, 2007, p. 190).

«Anche se sembra crudele / c'erano corpi di bambini / appesi ai cavi / legati agli alluci / negli angoli c'erano montagne / di cadaveri di vecchi e donne / con gli occhi cotti / e il loro odore di morte tagliava il firmamento / Gli alberi erano fuggiti non so dove / Il mare era un eterno Riachuelo duro di stronzi giganti / Se l'erano data a gambe le strade, il cielo e i campi / Scomparve la notte / E le stelle sembravano essersi avvicinate / All'altezza delle nubi, / che erano fuggite anche loro / Quando cercai di scappare / mi accorsi che anche i miei piedi se n'erano andati./ E sono crollato su quel poco di terra che rimaneva, / che dopo un po' decise / di scappare anche lei» (C. González, 2019a, p. 65).

Senza nemmeno un decennio in attività, l'ancor giovane César González ha diretto sei lungometraggi, almeno quattro cortometraggi, una serie di documentari e diversi videoclip in forma indipendente. Lo ha fatto utilizzando risorse materiali esigue, ma anche esercitando da sé, durante la produzione, vari ruoli tecnici e artistici. Impegnato in una sorta di corpo a corpo con l'opera, incarna contemporaneamente tutto un team di lavoro, una fucina audiovisiva virtuosa e febbrile (come Godard o Fassbinder). Operazioni comuni alla prassi audiovisiva come il montaggio, la correzione del colore, il sound design, la musica, la direzione della fotografia, l’uso della macchina da presa, la sceneggiatura, la direzione degli attori e, naturalmente, la regia, eseguono nelle sue mani una sperimentazione imprescindibile. A questo si devono aggiungere la miriade di progetti a cui lavora contemporaneamente. César González è uno dei grandi sperimentatori del cinema argentino.

«[…] discorsi incapaci / discorsi che sono stati in guerra / e non si suicidarono / hanno una retroguardia / e sono le parole che gridano / hanno cecchini / e sono parole d'amore / tutti decisi a bruciare i dizionari / niente li ferma / perché sanno dire senza dire / qual è la cosa più importante / di qualsiasi lingua» (C. González, 2014, p. 59).

In alcuni dei suoi film, il regista appare davanti alla macchina da presa in ruoli dai tratti più o meno autobiografici la cui importanza varia in ogni storia. In Athens (2019) ci sono alcune scene in cui accompagna amichevole un bambino (interpretato da Alan Garvey). Il suo breve intervento in ¿Qué puede un cuerpo? (2014) consiste (secondo i titoli di credito) nel rappresentare un «lavoratore che consuma droga». È nel suo primo lungometraggio (Diagnostico Esperanza, 2013) – anche se il suo nome non è elencato tra gli attori – che recita un ruolo di primo piano: insieme a un amico del suo quartiere, ruba l'auto di un uomo che poi rapisce rapidamente, minaccia e colpisce in modo brutale pur di prelevare i soldi dal suo conto in banca. Sebbene la frenesia di questa sequenza possa essere attribuita alla giovinezza del cineasta e a certe esperienze del suo passato, la verità è che si tratta di un cinema che distrugge programmaticamente ogni compiacimento, ogni possibile concessione al luogo da cui proviene (sebbene non rinunci al suo impegno quotidiano per la dignità degli ultimi) e al suo pubblico. Questa primo film è in fondo troppo filosofico per degenerare in spettacolo, demagogia o “pornografia”.

Lluvia de jaulas (2020) introduce per la prima volta la voce over del cineasta (notoriamente ispirato allo stile tardo e all'inconfondibile voce di Godard) che con tono poetico-critico pronuncia frasi epigrammatiche o necrologi della società.

«Ho memorizzato la mia armonia / dopo aver navigato / nelle lagune più miserabili / e nei fiumi del male / sono figlio di un seme ubriaco / e di pugni di maschio / sono un accidente del destino / una barzelletta mal raccontata / sono un figlio dell'azzardo / che può contemplarsi senza rancore / figlio dei padiglioni più oscuri / condannato dai tribunali più severi / e oggi imploro a tutte le ore / più disobbedienza / non possiamo essere così tanti / e con così poca ribellione / siamo così diversi / ma commercialmente così unificati / diciamo di essere laici e atei / però abbonda la fede nel capitalismo» (C. González, cit., p. 67).

Come quasi tutto in questo cinema, anche i titoli di coda hanno la loro parte di originalità. Da Diagnostico Esperanza – dedicato a «Tutti i miei cari fratelli [...] e tutte le persone / che muoiono senza senso / profumate di piombo / bagnate di ingiustizia» a Exomologesis (2017) − dedicato a Michel Foucault −. Questi ultimi due film includono anche riconoscimenti eccentrici e significativi: alla fine di Atenas sono registrati i nomi di Roberto Rossellini, Sergei Eisenstein, Kenji Mizoguchi, Robert Bresson, JLG, Fernando Birri, Raymundo Gleyzer, Glauber Rocha, Jean Rouch, Charles Burnett e Agnès Varda; In Lluvia de jaulas si ringraziano sia Lucrecia Martel e Luis Ortega – registi argentini che César González potrebbe conoscere di persona - sia Karl Marx, Angela Davis, Franz Fanon (sic), Gilles Deleuze, Felix Guattari, Fréderic Lordon, Dziga Vertov, Elizabeth Svilova (sic) e Chris Marker.

«me lo sussurrò all'orecchio il fantasma di un amico morto» (C. González, cit., p. 74).

Due film del cineasta ospitano finali formidabili che, nel loro tenore lacerante, esprimono la vena stilistica del suo lavoro. L'immagine che chiude il suo primo lungometraggio (prima dei titoli di coda) mostra in uno spazio separato dalle relazioni sature di violenza, la donna (spacciatrice da quattro soldi) sdraiata, che allatta il suo bambino mentre lo osserva e gli tocca i piedi e i capelli con affetto sincero. È un epilogo davvero cinematografico, preparato da almeno due situazioni precedenti: la scena in cui la stessa donna urla che avrebbe dovuto abortire almeno qualcuno dei suoi figli (sebbene possano sentirla); e, subito prima della fine, il momento in cui, vanificata la rapina alla cui pianificazione aveva partecipato, e mentre fuma una sigaretta con il figlio sul petto, esclama che sta per spaccare la testa ai bambini. Una situazione austera che però tocca il nervo scoperto del mondo delle contraddizioni continuamente svelato da questo cineasta. Alla fine di Atenas l'immagine, che si blocca letteralmente, produce una strana visione di una strada sterrata in un quartiere popolare la cui vita si interrompe; il finale pietrificato si chiude sul destino spezzato di Persefone, la giovane donna scomparsa che nel film viene rapita da un uomo che vuole prostituirla.

«Può la volontà schiacciare ogni sospetto antropologico? / Può il desiderio inventarsi solo una via? / È possibile fuggire dai sotterranei del mondo? / L'uomo lascia sognare la donna? / Non è un incubo se oltre che donna, sei nata povera e sei appena uscita di prigione?» (C. González, 2019b, s.p.).

Dopo Fernando Birri, che studiò cinema a Roma negli anni Cinquanta, lavorò saltuariamente come aiuto regista di Vittorio De Sica e assunse la linea del prodigioso cinema italiano del dopoguerra, estendendola alla Scuola Documentaria di Santa Fe, César González è senza dubbio il più (consapevolmente) neorealista dei registi argentini. Potrebbe essere il nipote dei bambini traballanti del villaggio in cui è stato girato Tie dié (Birri e Scuola Documentaria di Santa Fe, 1955-58) o, come uno di loro, potrebbe essere un altro tragico soggetto filmato, registrato appena in tempo per (forse) essere poi dimenticato nella vasta distesa del sottosviluppo latinoamericano; tuttavia, ha studiato la storia (delle forme) del cinema, e appropriandosi del mezzo si è dedicato a plasmare un mondo proprio. Ci sono le immagini furtive del carcere che si allontanano in Diagnostico Esperanza; la moltiplicazione dei punti di vista sulla Villa Carlos Gardel, la Villa 31, la 21 [si tratta di insediamenti irregolari composti da costruzioni di fabbricazione precaria, caratterizzati da privazioni, mancanza di infrastrutture e repressione poliziesca, parte della sterminata periferia urbana della capitale argentina, analoghi alle favelas brasiliane e ai ranchos di Caracas; traduciamo “villa” con il pasoliniano “borgata” n.d.t.]: la macchina da presa ricorsiva dietro le spalle dei personaggi che si muovono dentro spazi ripetitivi (il quartiere dove abita il regista) o si vedono per la prima volta; la casa del regista, piena di libri, immagini pittoriche e accentuazioni cromatiche. In tutte le belle, semplici testimonianze visive di persone che vivono in questi quartieri, inquadrate frontalmente, o inavvertitamente, lasciando trasparire lo splendore di una verità di origine neorealista (Corte rancho, 2013; Lluvia de jaulas). Anche questo è un cinema fatto in maniera “giusta”.

Ma César González eredita il neorealismo anche attraverso l'altra via regia che si affianca alla visione dei film decisivi di Visconti, De Sica, De Santis, Pasolini, Rossellini, ecc.: i libri che Deleuze dedicò al cinema. Forse ispirato da alcuni elementi del concetto di immagine-tempo del filosofo francese, come la famosa nozione di "forma che pensa" −identificata da Godard nei ritratti di Edouard Manet−, il regista giungerà ad un procedimento idiosincratico. Si tratta, ovviamente, di inventare (Fanon), di fare qualcosa di nuovo con ciò che si ammira. Nel suo caso, creerà disgiunzioni, momenti spaiati o straniamenti del tempo in cui vengono presi certi personaggi (di solito) quando sperimentano situazioni mortificanti. Momenti residui, contaminazioni dal punto di vista dell'enunciazione piuttosto che percezioni o pensieri di uno o più personaggi, a cui il cineasta consacra una forma determinata: un primo piano rallentato, a volte diviso in un altro piano successivo ancora più vicino al volto smarrito, privo di reazione; a volte in modo autonomo rispetto alla colonna sonora. Questa forma basata sui volti, con le sue variazioni (piani d'insieme, parti del viso, ecc.), è l'immagine che estrae energie singolari o scorge poteri in agguato.

«lei non viene / dalle cupole bionde / aristocratiche della cultura / non ha avuto altra eredità che nascere / e non conosce il godimento della comodità / lei non ha mai abbracciato il comfort per più di tre mesi di seguito / per tutta la vita lavorò come donna delle pulizie / strofinando la sporcizia / e il vetro degli altri / nascondendo da qualche parte / tutti i maltrattamenti / ogni mattina da secoli / beve un paio di mate / poi prende un autobus / e poi il treno / San Martín delle 7:20 / che va da El Palomar a Pilar / dove c'è il posto / dove fa le pulizie da 23 anni / è venuta da Salta nel '68 / e non è mai potuta tornare / ha camminato di avanzo in avanzo / di lavoro in nero in lavoro in nero per la città / finché la fecero salire senza chiedere / su un camion da guerra / e arrivò stretta tra le tante famiglie / fondatrici della borgata / poi i soldatini verdi della dittatura / li bagnavano con un tubo professionale / per togliere presunta sporcizia / lei è bassina, bruna e di pelle scura» (C. González, cit., p. 25).

Questo è un cinema di corpi. Smilzi, bruni, neri, dorati, cinerei, corpi razzializzati, spericolati, iloti gettati ai margini della società, schiacciati sotto tutte le iniquità e ingiustizie, soffocati dal giogo inesorabile del capitalismo. Bambini e ragazzi torturati, assassinati da agenti delle forze di sicurezza dello Stato, immolati a norma di legge. Da una versione all'altra di Atenas viene eliminata una scena terribile (forse per la sua crudezza). Si riferisce ad una situazione familiare per gli abitanti dei quartieri poveri: un poliziotto insegue alcuni ragazzini della borgata che lo avevano preso in giro: nella prima versione vediamo, dopo un'ellissi, nel freddo di un terreno incolto, due di questi bambini che rimangono in piedi, immobili, seminudi, piedi e mani legati, gli occhi bendati; Nella versione definitiva, al posto della raccapricciante scena della tortura, si sentono gli spari degli agenti di polizia destinati a crivellare la schiena dei ragazzi che scappano fuori campo. Composti su un certo piano di realismo (una sorta di omaggio al reale), dall'epicentro di un quartiere popolare, i film di César González non hanno alcun rapporto con le rappresentazioni della marginalità, della povertà o della questione poliziesca del cinema borghese argentino eccessivamente inclinato alla “porno miseria”, né con le versioni abbiette dei reality show che assecondano il profondo razzismo del (sempre rinnovato) pubblico argentino come se fossero film snuff. In Lluvia de jaulas, sull'immagine apparentemente spensierata e persino felice di un bambino in bicicletta amico del regista, la voce over spiega che, prima di compiere tredici anni, era morto. In un altro momento, il film chiarisce: sebbene non emerga da questo una coscienza, i poliziotti hanno la stessa origine di classe, provengono anche loro dalle borgate e dai quartieri popolari. Alcune poesie di César González affermano che i prigionieri si uccidono a vicenda. «e mi propongono la morte / e mi propongono la morte / e mi propongono la morte» (C. González, cit., p. 77).

«Solo nel mio quartiere ci sono tanti amici che si son fermati per strada; la mia generazione fu annientata con piombo. Molti degli amici che mi feci lì dentro pure morivano uno dopo l'altro. Quello che ha raggiunto i trent'anni vivo o senza una pallottola è una rarità. Lo specchio mi disturba perché guardandolo vedo sempre uno di loro» (C. González, cit, pp. 9-10).

Ponendosi sempre nella differenza, César González spiazza ugualmente le ipotesi di un cinema esclusivamente formalista (dato che non nega la lotta di classe), come di un cinema sociale, didattico o di denuncia non interessato alla forma (basato su una cinefilia onnivora e, di conseguenza, in un gusto colto). Il lavoro di squadra che implica l'attività cinematografica consiste nel suo caso nel mobilitare ogni volta una batteria di impressioni, idee, esperienze, letture, melodie, ma anche amicizie e collaborazioni. L'incessante amalgama di elementi eterogenei del cinema a venire è anticipato dal montaggio ironico, contrappunto alla musica classica e alle immagini spensierate del consumismo o della povertà, del suo primo film di finzione. Alla base della sua trilogia dei bassifondi c'è una circolazione di opposti: il basso e l'alto, l'empatia e la solidarietà nella stessa misura di crudeltà e odio, le pulsioni di vita insieme alle pulsioni di morte hanno il loro posto nella trasfigurazione della finzione e dei materiali documentari. Questa duplicità di natura, costruzione di radice rosselliniana, sarà portata a un punto di indistinzione nel quarto film che ritorna nelle borgate, Lluvia de jaulas, che salterà le frontiere dei generi per sperimentare una splendida forma di critica della catastrofe (ricordiamo che Jacques Rivette ha scritto di Viaggio in Italia ricorrendo alla nozione di saggio). In questo film, entusiasmanti pensatori affollano la città in un esaltato corteo che inizia con Marx, passa per Angela Davis e Frantz Fanon per culminare (assoluta rarità) con Godard; Da parte sua, nello strano contesto di Exomologesis, Alan Garvey rappresenta i sobborghi. Si tratta di una Poetica dell'alterità, dell'anomalo, della estraneità (cinema delle donne, dei disabili, dei musulmani, dei poveri, dei ragazzi di vita).

«Quartieri popolari che sono prigioni a cielo aperto. Dove la bellezza flirta con la violenza. Il regno dei bambini insubordinati, veterani del piombo. Un giardino di fiori amputati, che con le stampelle sulla schiena, crescono e danzano ancora» (C. González, 2020, s. p.).

Exomologesis e Castillo y sol (2020), film “di confinamento”, “minimalisti”, in linea di principio teorici (a tesi?), autentici costrutti formali, mostrano un potente teatro da camera filosofico che non smette di esprimere il fuori: una prigione dentro un'altra prigione (quella del capitalismo, che praticamente coincide con il sistema-mondo). Il primo presenta un dispositivo (una sorta di laboratorio) per l'esercizio del potere secondo le dimensioni di un piccolo gruppo umano, il secondo una prova distopica di nuova vita (una cellula rivoluzionaria situata in uno scenario apocalittico); entrambi funzionano come macchine sociologiche demenziali all'interno delle quali le più arbitrarie regole di comportamento sono continuamente (ri)prodotte decomponendosi, portando a pericolosi estremi. Nonostante le loro apparenti differenze, attori e attrici della compagnia di César González sono diretti in modo esacerbato in entrambi i film, i corpi sono privilegiati e, allo stesso modo, sfruttati fino all'esaurimento. Eccessi orientati fino all'immobilità o al movimento, straripamenti fisici, emotivi, delle relazioni interpersonali.

Lo spazio limitato possiede a momenti una correlazione con la quantità massima di azioni che vengono introdotte nel tempo breve, che corrisponde alle scene, e al tempo lungo del film. Tuttavia, questi film differiscono: Exomologesis esplora lo stato di natura residuo (homo homini lupus) organizzato all'interno di un campione in miniatura di una società disciplinare, dove la gerarchia è arrampicata sugli uomini che esercitano la loro spietata brutalità sul corpo e sullo spirito del subalterno (fino allo stupro di un uomo da parte di un altro uomo). È anche un film critico di un’epoca, che, nelle voci dei diversi personaggi, rigurgita acidamente i discorsi meritocratici, neoliberisti, in circolazione.

Castillo y sol, al di là della sua manifesta oscurità, della violenza e del caos, è un film vitalista, pieno di risa, colore e gioco. Forse lontanamente ispirato a La chinoise (Godard, 1967), e senza smettere di guardare Buñuel (El angel exterminador, 1962), inventa un mondo basato sull'anarchia dell'immaginazione. Rivoluzione degli animi, messa in pratica con tutte le difficoltà e le esaltazioni del caso. I suoi dialoghi poetici troveranno una replica nell'ultimo cortometraggio del regista, La nobleza del vidrio (2021), di perfetta fattura, che continua, come una forma raffinata, ancora più concentrata, la linea dei film realizzati in spazi di confinamento. In questo bellissimo lavoro, César González mostra chiaramente il suo dominio assoluto del medium.

«c'è in me una lacrima / è per le sue lacrime / c'è in me una speranza / che ieri era la sua / che hanno rapito e torturato / che hanno ucciso e gettato in mare / ma le onde lo riportarono di nuovo / nel mio sangue non c'è discendenza rivoluzionaria / non ho avuto un padre di tendenza / mio padre ha fatto le rivoluzioni con il vino / e picchiando mia madre / per questo la mia rivoluzione non vuole sangue / né nemici / mi rende felice / perché la portarono le onde / entrambi in passato abbiamo innescato pistole / voi per il socialismo / io per un paio di scarpe da ginnastica di marca / oggi dobbiamo cercare nuove armi / che non facciano male» (C. González, cit., p. 79).

L'arte e il pensiero diventano salvifici. L'immagine del cartonaro che nel suo secondo film trova tra i resti dell'immondizia il libro postumo di Deleuze e Guattari (Che cos'è la filosofia?) fissa a suo modo la rara maniera attraverso la quale il cineasta ha imparato a fuggire dalle forze distruttive attorno alle quali un tempo gravitava la sua vita. Anche se nel film il libro avrà un valore narrativo praticamente nullo, costituisce un'immagine molto potente nel suo rapporto con l'ambiente, incastonato tra gli scatoloni dell'auto che, a trazione di sangue umana, avanza al tramonto e di notte. Il luogo comune (lieto fine o favola morale) viene così evitato. Se accade qualcosa di simile a una conversione, all'inizio sembrerà quasi impercettibile, e in un certo senso accadrà dietro le quinte. Nello stesso momento in cui i personaggi interpretati da César González nella finzione incorrevano in atti di estrema violenza, nella realtà il cineasta lavorava per stabilire spazi comunitari di disponibilità, offrendo laboratori di cinema ai giovani, convocando non attori, parenti, amici, vicini di casa del quartiere per fargli popolare ogni suo nuovo film a partire da Corte Rancho. Truco (2014), uno dei suoi primi cortometraggi, finisce quando due adolescenti, invece di andare a rapinare come avevano programmato, decidono di trascorrere il pomeriggio ascoltando la musica che fa un loro amico. Il poeta incendiario nella piazza di Atenas è Patricio Montesano: attraverso di lui César, in un momento cruciale della sua vita, troverà un catalizzatore benefico, una sorta di potenziale uscita dall'orizzonte mortale che lo teneva in ostaggio: letteratura, filosofia e pensiero politico sconvolgeranno tutto nella sua vita: il futuro regista si sarebbe presto convertito progressivamente in un artista sovrano. Questi, come il soggetto poetico di Paul Eluard, non ha smesso di scrivere il nome "libertà".

«sei ferite da arma da fuoco / mostrano la mia esistenza / e che cos'è che ha salvato il mio destino / da una morte poliziesca? / è stato un incontro / incontrarmi con la poesia / un incontro / un grande incontro / mi ha offerto un abbraccio / quando tutto era pugni / fu il mio scudo in ogni confronto / per superare l'oblio e l'egoismo / non avevo altro sogno che un assalto / dove incrociavo la fortuna monetaria / e oggi i miei sogni sono migliaia / si moltiplicano per ogni grammo di cicatrice esistente / non ho smesso di rubare per motivi religiosi / è stata un'overdose di speranza / mi stancai di essere un delitto e un fascicolo giudiziario / mi decisi a contraddire il mio destino / mi stancai di vedermi negata la cultura / per essere bruno e di borgata / Ho capito che il mondo ha bisogno di esclusi / per rimanere stabile / dopo questa rottura / ho rinnovato la mia visione / fino alle mie cellule più piccole». (C. González, cit., p. 90)

Sono rare nella storia del cinema le opere che registrano l'immagine di tanti bambini e ragazzi. Hanno un posto molto speciale nella filmografia di César González (come in quella di Buñuel, Vigo o Truffaut), e non sono, nel suo cinema, intoccabili dalla violenza. Il commento di Lluvia di jaulas, ad esempio, presenta un ragazzo di quindici anni il cui collo è stato sfiorato dai proiettili della polizia, che ha già due fratelli morti. Difficoltà economiche, condizioni sociali pressanti, eredità senza scelta, espongono i bambini della periferia a esperienze estreme: sebbene giochino, ballino o escano con gli amici (tra le altre attività che corrispondono al tempo dell'infanzia), lavorano o cercano lavoro, fanno uso di droga, quando non rubano o muoiono in una rapina (Guachines, 2014). I loro casi ricordano la fine del Diario di un pazzo di Lu Hsun, il cui narratore, prevedendo che nella società cannibale in cui vivono diventeranno tutti cannibali, grida «Salviamo i bambini!» (Lu Hsun, 2015, p. 48 ). È essenziale notare la centralità di Alan Garvey, l'Antoine Doinel di César González, l'artista (bambino e poi giovanissimo) di praticamente tutti i suoi film, che compare anche in una delle opere che il regista non ha diffuso sotto il suo nome (le sue prime poesie e i suoi primi cortometraggi, realizzati collettivamente, apparivano firmati con lo pseudonimo di Camilo Blajaquis).

Apparentemente, César influenzò i primi gusti musicali di Alan (vedasi gli elementi rastafariani in Diagnostico esperanza), ha incoraggiato il suo amico a dedicarsi alla musica e ha incluso alcune delle sue canzoni nei suoi film. Questi ultimi fioriscono indubbiamente a contatto con la personalità accattivante del giovane, i suoi ruoli emanano sensibilità. Come nel caso dei film di Truffaut, la serie registra la crescita del personaggio, che purtroppo non sfugge alle smorfie della morte, lo sfortunato destino che la società riserva ai poveri: il giovane musicista chiederà un'arma per andare a rubare mentre si lamenta della mancanza di opportunità che hanno i ragazzi del quartiere (¿Qué puede un cuerpo?). Alan interpreta una sorta di Pierrot godardiano in Lluvia de jaulas: conserva un libro nei pantaloni come si tiene una pistola, punta un'arma contro le effigi di personaggi famosi (tra gli altri, Hegel, Descartes, i Beatles). Il film si conclude con una magnifica piccola scena: anche nel contesto più ostile, momenti di felicità: il giovane bacia i fiori e sembra entrare in comunione con il loro mistero.

«Vorrei essere la pianta che cresce nei cimiteri / Sentire cosa prova l'ombra di un'eclissi» (C. González, cit., p. 85).

Disprezzato, ignorato, César González osserva il palazzo d'inverno del cinema (argentino?), un giorno lo prenderà d'assalto o se ne allontanerà a tutta velocità, verso il futuro. I registi argentini dovrebbero rendergli omaggio, non viceversa. In modo diverso da quegli studenti universitari colpevoli che rinunciano alla loro formazione e cercano di connettersi con il popolo, finendo inevitabilmente per classificarlo, o dalla classe media affascinata dai bassifondi mai sperimentati, César González entra ed esce definitivamente dall'estasi della creazione. Senza negare la sua origine popolare, ha bisogno di uno spazio tutto suo per pensare. Intanto aspetta Alan Garvey per fare un altro film insieme, cospira con i vecchi maestri del cinema, saltando verso il nuovo, il non legiferato dell'arte, l'illegalità. Guarda i suoi film e ricorda: non valutare il basso in questo regista, ma l'alto.

«[…] il fiore sta ancora aspettando / che comprendiamo la sua bellezza» (C. González, cit., P. 66).

Testi citati

C. González, Crónica de una libertad condicional, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2014, p. 59; p. 25; p. 90.

C. González, La venganza del cordero atado, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2019, p. 65; p. 74; p. 77; pp. 9-10; p. 85.

C. González, Retórica del suspiro de queja, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2015, p. 22; p. 67; p. 79; p. 66.

C. González, Sinopsis de Lluvia de jaulas 2020.

C. González, Sinopsis de Atenas 2019b.

J. L. Godard, Historia(s) del cine, Buenos Aires, Caja Negra 2007, p. 190.

Lu Hsun, Diario de un loco, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Interzona Editora 2015, p. 48.

 

TESTO ORIGINALE

La violenta e inaprensible belleza de las flores de fuego

Rodrigo Sebastián

En el margen del cine argentino contemporáneo más original, se erigen las películas de César González, audaces, inconfundibles, semejantes a un enigma. Cineasta plebeyo, es autor de una obra torrencial difícil de conceptualizar. Pues aun para quienes en Argentina han seguido con atención la proliferación del trabajo y las exposiciones públicas del artista a lo largo de la última década resultaría complejo definir su trayectoria. Todavía más porque existe un núcleo permanentemente elusivo e intraducible, en este pensador, poeta y cineasta: puede ser simultanea o alternativamente su clase, su experiencia vital (tan intensa y diferente), su sofisticado pensamiento (suma de una variedad notable de registros, así como de posiciones heterogéneas), su comunión con el arte. Otras cuestiones de peso relativas a esta filmografía también contradicen toda idea ilusoria respecto de su univocidad: el número, la frecuencia de aparición y lo irregular de las películas; la multiplicidad de intertextos (principalmente, aunque no solo, escritos de diversa índole) que conforman la vasta obra de César González y que dialogan con sus películas, así como las relaciones que se establecen entre estas; y, por último, la marca inmanente de su originalidad, esto es, su profunda extrañeza. Se ensayará en las páginas que siguen un desvío de los problemas notados, evadiendo simultáneamente la exhaustividad; discurriendo sobre las películas del cineasta a través de interpretaciones fragmentarias, elogiosas e insuficientes, transcribiendo partes de sus poemas y escritos.

 

«en el pasado salí a robar/ y el humo de la pólvora/ señalaba mi destino/ hoy la poesía/ es el piso que camino/ ayer era un esqueleto adicto al odio/ una simple sombra/ reflectada en la caverna/ y hoy proyecto en un cine/ sombras y esqueletos/ que yo mismo dirijo/ ayer me hundía en el barro/ y no por diversión/ hoy digo que el barro fue/ mi academia de platón/ ayer dormía/ sobre duras y cuadradas almohadas/ hoy soy novio de sueños realistas/ ayer me arrastraban/ esposado entre hospitales/ ayer agonizaba/ entre institutos y penales/ hoy ya la lluvia no oxida mi alma» (C. González, 2015, p. 22).

Si bien cada nueva película de César González que aparece tiene relación con las anteriores a través de una multiplicidad de lazos, no es menor la novedad que cualquiera de ellas introduce. Parece difícil reconocer en la forma de sus últimos trabajos la presencia de sus primeras obras, no obstante, están comprendidas en aquella. ¿Un cineasta dialéctico? Es posible, considerados su interés en el marxismo y su devoción por el cine soviético. En tanto cineasta materialista, parte del mundo para experimentar con sus imágenes. Buenos Aires es enclave y teatro de operaciones de su peculiar universo. Como un ojo que derruye aquello sobre lo que se posa, a la manera de aquel con que se abre Un perro andaluz (Luis Buñel, 1928), observa con mirada de bisturí la vida en las villas, en la ciudad, pero también espacios de encierro, como (falsas) monadas que contuvieran todas las imágenes, en donde el todo social se expresa a modo de sistema disciplinario o pesadilla. Al principio, la realidad ingresó a este cine con toda su violencia, finalmente el cine ha terminado por contaminar la realidad con su anamorfosis. Es que aun aquellas de sus películas que presentan las más numerosas señales del mundo referencial, trastocan permanentemente su presunta inmediatez con toda clase de visiones excéntricas, apariciones que pertenecerían en principio a órdenes de cosas diferentes: «[…] una saturación/ de signos magníficos/ inmersos/ en la luz/ con su ausencia/ de explicación» (J.-L. Godard, 2007, p. 190).

«Aunque parezca cruel/ había cuerpos de niños/ colgados de los cables/ atados a sus dedos gordos del pie/ En las esquinas había montañas/ de cadáveres de ancianos y ancianas/ con los ojos cocidos/ y su olor a muerte cortaba el firmamento/ Los árboles habían huido no sé adónde/ El mar era un eterno Riachuelo duro de gigantes soretes/ Se habían fugado las calles, el cielo y los campos/ Desapareció la noche/ Y las estrellas parecían haberse acercado/ a la altura de las nubes,/ que también se habían fugado/ Cuando yo me quise fugar/ me di cuenta de que mis pies también se habían ido./ Y me desplomé sobre lo poco del suelo que quedaba,/ que al rato decidió/ también fugarse» (C. González, 2019a, p. 65).

Antes de cumplir una década en actividad, el aun joven César González dirigió seis largometrajes, al menos cuatro cortometrajes, una serie documental y varios videoclips de manera independiente. Lo hizo valiéndose de recursos materiales exiguos, pero también ejerciendo por su cuenta roles técnicos y artísticos diversos durante la producción. Entablando una suerte de cuerpo a cuerpo con la obra, encarna a la vez todo un equipo de trabajo, una usina audiovisual virtuosa y enfebrecida (como Godard o Fassbinder). Operaciones comunes a la praxis audiovisual tales como el montaje, la edición, la corrección de color, el diseño de sonido, la música, la dirección de fotografía, la cámara, el guión, la dirección de actores y, por supuesto, la dirección, obedecen en sus manos a una indeclinable experimentación. A esto hay que sumar la miríada de proyectos en los que trabaja simultáneamente. César González es uno de los grandes experimentadores del cine argentino.   

«[…] discursos discapacitados/ discursos que estuvieron en la guerra/ y no se suicidaron/ tienen retaguardia/ y son las palabras que gritan/ tienen francotiradores/ y son las palabras de amor/ todos decididos a quemar los diccionarios/ nada los detiene/ porque saben decir sin decir/ que es lo más importante/ de cualquier lenguaje» (C. González, 2014, p. 59).

En algunas de sus películas el cineasta comparece frente a cámara en papeles de rasgos más o menos autobiográficos cuya importancia varía en cada historia. Atenas (2019) cuenta con unas pocas escenas suyas en las que acompaña amigablemente al niño (interpretado por Alan Garvey). Su breve intervención en ¿Qué puede un cuerpo? (2014) consiste (según indican los títulos de crédito) en representar a un «laburante que toma merca». Es en su primera ficción larga (Diagnóstico esperanza, 2013) −aunque su nombre no aparece listado entre los actores− donde juega un papel mayor: junto a un amigo de su barrio, roba el auto de un hombre a quien secuestra momentáneamente, amenaza y golpea con brutalidad a fin de obtener el dinero de su cuenta bancaria. Si bien el frenesí de esta secuencia podría adjudicarse a la juventud del cineasta y a ciertas experiencias de su pasado, lo cierto es que se trata de un cine que aniquila por principio la complacencia, toda posible concesión al lugar de donde parte (aunque no renuncie a su compromiso cotidiano con la dignidad de los de abajo) tanto como a su público. Esta primera ficción es en el fondo demasiado filosófica como para degenerar en espectáculo, demagogia o “pornografía”. Lluvia de jaulas (2020) introduce como innovación la voz-over del cineasta (notoriamente inspirada en el estilo tardío de la queda e inconfundible voz de Godard) que con tono poético-crítico pronuncia frases epigramáticas o necrologías de la sociedad.

«memoricé mi armonía/ después de navegar/ en las lagunas más miserables/ y en los ríos del mal/ soy hijo de un semen borracho/ y de puños machistas/ soy un accidente del destino/ un chiste mal contado/ soy un hijo del azar/ que puede contemplarse sin rencor/ hijo de los pabellones más oscuros/ condenado por los tribunales más severos/ y hoy imploro a toda hora/ más desobediencia/ no podemos ser tantos/ y con tan poca rebeldía/ somos tan diferentes/ pero mercantilmente tan unificados/ decimos ser laicos y ateos/ pero nos sobra la fe en el capitalismo» (C. González, cit., p. 67).

Como casi todo en este cine, los títulos de crédito también tienen su parte de originalidad. Desde Diagnóstico esperanza −dedicada a «Todos mis hermanos queridos (…) y a toda la gente/ que muere sin sentido/ perfumada de plomo/ bañada de injusticia»− a Exomologesis (2017) −dedicada a Michel Foucault−. Las dos películas que siguen a esta asimismo incluyen unos agradecimientos tan excéntricos como significativos: al final de Atenas son registrados los nombres de Roberto Rossellini, Sergei Eisenstein, Kenji Mizoguchi, Robert Bresson, JLG, Fernando Birri, Raymundo Gleyzer, Glauber Rocha, Jean Rouch, Charles Burnett y Agnès Varda; en Lluvia de jaulas se agradece tanto a Lucrecia Martel y Luis Ortega −cineastas argentinos a quienes César González posiblemente conozca en persona− como a Karl Marx, Angela Davis, Franz Fanon (sic), Gilles Deleuze, Felix Guattari, Fréderic Lordon, Dziga Vertov, Elizabeth Svilova (sic) y Chris Marker.

«me lo susurró al oído/ el fantasma de un amigo muerto» (C. González, cit., p. 74).

Dos películas del cineasta alojan finales formidables, que, en su lacerante tenor, expresan la vena estilística de su obra. La imagen que cierra su primer largometraje (antes de los títulos de crédito) muestra en un espacio separado de sus relaciones saturadas de violencia a la mujer (narcotraficante de poca monta), recostada, amamantando a su bebé, mientras lo observa, toca sus pies y su cabello con genuino afecto. Es un desenlace auténticamente cinematográfico, preparado por al menos dos situaciones previas: la escena en la que la misma mujer grita que hubiera abortado a algunos de sus hijos (aunque estos puedan escucharla); e, inmediatamente antes del final, el momento en que el robo en cuya planificación participa se frustre, mientas fuma un cigarrillo con su hijo prendido a su pecho, exclama que va a romperle la cabeza a los chicos. Una situación austera que, no obstante, toca el nervio desnudo del mundo de contradicciones revelado continuamente por este cine. Al final de Atenas, la imagen, que literalmente se congela, produce una visión extraña de una calle de tierra en un barrio popular cuya vida se interrumpe, el final petrificado se cierra sobre el destino cortado de Perséfone, la joven desaparecida que en la ficción es secuestrada por un hombre cuya intención es prostituirla. 

«¿Puede la voluntad aplastar toda sospecha antropológica?/ ¿Puede el deseo solamente inventarse un camino?/ ¿Es posible fugarse del sótano del mundo?/ ¿Deja el hombre a la mujer soñar?/ ¿No es una pesadilla si además de mujer naciste pobre y recién salís de la cárcel?» (C. González, 2019b, s. p.).

Después de Fernando Birri, quien estudió cine en la Roma de los años 50, trabajó ocasionalmente como asistente de dirección de Vittorio De Sica y asumió la línea del prodigioso cine italiano de posguerra, extendiéndola a la Escuela Documental de Santa Fe, César González es sin duda el más (conscientemente) neorrealista de los cineastas argentinos. Podría haber sido nieto de los raquíticos niños de la villa en la que se filmó Tie dié (Birri y Escuela Documental de Santa Fe, 1955-58) o, como cualquiera de ellos, pudo ser un trágico sujeto filmado más, registrado en su momento para (tal vez) ser olvidado luego en la vasta extensión del subdesarrollo latinoamericano, sin embargo, estudió la historia (de las formas) del cine, y apropiándose de sus medios se dedicó a plasmar su propio mundo. He ahí las imágenes furtivas de la cárcel que se alejan en Diagnóstico esperanza; la multiplicación de los puntos de vista sobre la villa Carlos Gardel, la villa 31, la 21: la cámara recursiva tras la espalda de los personajes desplazándose por los espacios que se repiten (el barrio donde vive el director) o son vistos por primera vez; la casa misma del cineasta, abarrotada de libros, imágenes pictóricas y acentuaciones cromáticas. En todos los bellos, simples registros visuales de personas que viven en tales barriadas, encuadrados frontalmente, cuando no de manera inadvertida, resplandece una verdad de origen neorrealista (Corte rancho, 2013; Lluvia de jaulas). También este es un cine hecho con justeza. Pero César González hereda el neorrealismo aun por otra vía regia que complementa el visionado de films decisivos de Visconti, De Sica, De Santis, Pasolini, Rossellini etc.: los libros que Deleuze dedicó al cine. Acaso inspirado en componentes del concepto de imagen-tiempo del filósofo francés como en la célebre noción de forma que piensa −identificada por Godard en los retratos de Edouard Manet−, el cineasta arribará a un procedimiento idiosincrático. Se trata, por supuesto, de inventar (Fanon), de hacer algo nuevo con aquello que tanto se admira. En su caso, creará disyunciones, momentos desacoplados o extrañamientos del tiempo en que son tomados ciertos personajes (por lo general) cuando experimentan situaciones mortificantes. Momentos residuales, contaminaciones del punto de vista de la enunciación antes que percepciones o pensamientos de uno o varios personajes, a los que el cineasta consagra una forma determinada: un primer plano ralentizado, a veces dividido en otro plano subsiguiente, todavía más cercano del rostro desconcertado, desprovisto de reacción; autonomizándose en ocasiones de la banda sonora. Esta forma basada en los rostros, con sus variaciones (planos de conjunto, partes del rostro, etc.), es la imagen que extrae energías singulares o vislumbra potencias agazapadas.

«ella no proviene/ de las rubias cúpulas/ aristocráticas de la cultura/ ella no tuvo más herencia que nacer/ y no conoce el goce de la comodidad/ ella nunca abrazó el confort tres meses seguidos/ toda su vida trabajó de limpieza/ refregando la mugre/ y los vidrios de otros/ escondiendo en algún lado/ todo el maltrato/ ella cada mañana desde hace siglos/ toma unos mates/ después un colectivo/ y luego el ferrocarril/ San Martín de las 7.20 AM/ que va de El Palomar hasta Pilar/ donde queda el lugar/ que limpia hace 23 años/ ella vino de Salta en el 68/ y nunca más pudo volver/ anduvo de pieza en pieza/ de changa en changa por la ciudad/ hasta que la subieron sin preguntar/ a un camión militar de la guerra/ y llegó apretada entre las muchas familias/ fundadoras de la villa/ y luego los soldaditos verdes de la dictadura/ los bañaban con una manguera profesional/ para sacarles una supuesta suciedad/ ella es bajita, morocha y de piel marrón» (C. González, cit., p. 25).

Este es un cine de cuerpos. Enjutos, marrones, negros, dorados, cenicientos, cuerpos racializados, atrabiliarios, ilotas arrojados a los márgenes externos de la sociedad, aplastados bajo todas las inequidades e injusticias, asfixiados con el yugo inexorable del capitalismo. Niños y jóvenes torturados, asesinados por agentes de las fuerzas de seguridad del Estado, inmolados en función de la ley. De una versión a otra de Atenas, una escena terrible es eliminada (posiblemente a causa de su crudeza). La elección versa sobre situaciones familiares a los barrios pobres: un policía persigue a unos niños de la villa que se habían burlado de él: en la primera versión, tras una elipsis, vemos en la intemperie de un terreno baldío a dos de esos niños, permanecen de pie, inmóviles, semidesnudos, sus pies igual que sus manos están atados, sus ojos vendados; en la versión definitiva, en lugar de la espantosa escena de tortura, se escuchan los disparos del policía destinados a acribillar la espalda de los niños que corrieron fuera de campo. Compuestas sobre cierto plano de realismo (una especie de homenaje a lo real), desde el epicentro de un barrio popular, sus películas no tienen ninguna relación con las representaciones de la marginalidad, la pobreza o la cuestión policial del cine argentino de clase media, demasiado inclinado a la <<pornomiseria>>, tampoco con las versiones abyectas de los programas de televisión reality que complacen el profundo racismo de la (siempre renovada) audiencia argentina en tanto semejan snuff movies. En Lluvia de jaulas, sobre la imagen en apariencia despreocupada e incluso alegre de un niño en bicicleta −amigo del propio cineasta−, la voz explica en verdad que, antes de cumplir trece años, fue muerto. En otro momento, la película clarifica: aunque no se desprenda de esto una conciencia, la policía tiene el mismo origen de clase, también proviene de las villas y los barrios populares. Alguno de los poemas de César González manifiesta que los presos se matan entre sí. «y me proponen la muerte/ y me proponen la muerte/ y me proponen la muerte» (C. González, cit., p. 77).

«Solo en mi barrio son muchos los amigos que han quedado en el camino; mi generación fue aniquilada a puro plomo. Muchos de los amigos que hice allá adentro también fueron muriendo. El que llegó a los treinta vivo o sin un balazo es una rareza. El espejo me perturba porque al mirarlo siempre veo a alguno de ellos» (C. González, cit, pp. 9-10).

Situándose siempre en la diferencia, César González desplaza por igual las ideas de un cine exclusivamente formalista −puesto que no niega la lucha de clases−, como de un cine social, didáctico o de denuncia no interesado por la forma −basándose en una cinefilia omnívora y, consiguientemente, en un gusto cultivado−. El trabajo de equipo que implica la actividad cinematográfica consiste en su caso en movilizar cada vez una batería de impresiones, ideas experiencias, lecturas, melodías, tanto como amistades y colaboraciones. La incesante amalgama de elementos heterogéneos del cine venidero es anticipada por el montaje irónico −contrapunto de música clásica e imágenes desenfadadas de consumismo o de pobreza− de su primera película de ficción. En la base de su trilogía villera hay una circulación de contrarios: lo bajo como lo alto, empatía y solidaridad en igual medida que crueldad y odio, pulsiones de vida junto a pulsiones de muerte tienen su lugar en la transfiguración de la ficción y de los materiales documentales. Esta naturaleza dúplice, construcción <<roselliniana>>, será llevada a un punto de indistinción en la cuarta película que vuelve sobre la villa, Lluvia de jaulas, que se saltará las fronteras genéricas para ensayar una forma esplendorosa de crítica de la catástrofe (recuérdese que Jacques Rivette escribió sobre Viaggio in Italia recurriendo a la noción de ensayo). En esta película revulsivos pensadores afluyen a la villa en una excelsa procesión que comienza con Marx, pasa por Angela Davis y Frantz Fanon para culminar (absoluta rareza) en Godard; por su parte, en el extraño contexto de Exomologesis, Alan Garvey representa a la villa. Poética de la otredad, de lo anómalo, de la extranjería (cine de mujeres, discapacitados, musulmanes, pobres, villeros).

«Barrios populares que son cárceles a cielo abierto. Donde la belleza coquetea con la violencia. El reino de los niños insubordinados, veteranos del plomo. Un jardín de flores amputadas, que con muletas a cuestas, igual crecen y bailan» (C. González, 2020, s. p.).

Exomologesis y Castillo y sol (2020), películas “de encierro”, “minimalistas”, en principio teóricas (¿de tesis?), auténticos constructos formales, despliegan un poderoso teatro de cámara filosófico que no deja de expresar el afuera: una prisión dentro de otra prisión (el capitalismo, que prácticamente coincide con el sistema-mundo). La primera pone en escena un dispositivo (suerte de laboratorio) para el ejercicio del poder a escala de un pequeño grupo humano, la segunda un distópico ensayo de vida nueva (una célula revolucionaria situada en un escenario apocalíptico); una y otra funcionan como máquinas sociológicas demenciales en cuyo interior continuamente se (re)producen reglas de comportamiento de lo más arbitrarias, descomponiéndose, desembocando en peligrosos extremos. Al margen de sus diferencias ostensibles, actores y actrices de la −a estas alturas− compañía de César González son dirigidos de manera exacerbada en ambas piezas, los cuerpos son privilegiados y, asimismo, exigidos hasta su extenuación. Excesos orientados hacia la inmovilidad o el movimiento, desbordes físicos, emocionales, de las relaciones interpersonales. El espacio limitado tiene por momentos una correlación con la máxima cantidad de acciones que son introducidas en el tiempo breve, que corresponde a las escenas, y en el tiempo largo de la película. No obstante, estas películas difieren: Exomologesis explora el remanente estado de naturaleza (homo homini lupus) organizado al interior de una muestra en miniatura de la sociedad disciplinaria, donde la jerarquía se encarama en hombres que ejercen su brutalidad despiadada sobre el cuerpo y el espíritu del subalterno (hasta la violación de un hombre por otro hombre). Es además una película critica de su época, que, en la voz de distintos personajes, regurgita ácidamente discursos meritocráticos, neoliberales en circulación. Castillo y sol, más allá de su manifiesta oscuridad, de la violencia y el caos, es una película vitalista, pletórica de risa, color y juego. Quizás inspirada lejanamente en La chinoise (Godard, 1967), y ¿sin dejar de mirar a Buñuel? (El ángel exterminador, 1962), inventa un mundo basado en la anarquía de la imaginación. Revolución de las mentes, puesta en práctica con todas las dificultades y exaltaciones del caso. Sus diálogos poéticos encontraran una réplica en el último cortometraje del director, La nobleza del vidrio (2021), de factura perfecta, que continúa, como una forma refinada, aún más concentrada, la línea de películas hechas en espacios de confinamiento. En este bello trabajo, César González da claras muestras de su dominio absoluto del medio.

«hay en mí una lágrima/ es por sus lágrimas/ hay en mí una esperanza/ que ayer fue la suya/ que secuestraron y torturaron/ que mataron y arrojaron al mar/ pero las olas trajeron de nuevo/ en mi sangre no hay descendencia revolucionaria/ no tuve un padre de la tendencia/ mi padre hacía revoluciones con el vino/ y pegándole a mi madre/ por eso mi revolución no quiere sangre/ ni enemigos/ me hace feliz/ porque la trajeron las olas/ ambos en el pasado gatillamos pistolas/ usted por el socialismo/ yo por unas zapatillas de marca/ hoy hay que buscar nuevas armas/ pero que no lastimen» (C. González, cit., p. 79).

El arte y el pensamiento devienen salvíficos. La imagen del cartonero que en su segunda película halla entre restos de basura el libro postrero de Deleuze y Guattari (¿Qué es la filosofía?) cifra a su modo la rara manera en la que el cineasta aprendió a fugarse del centro de fuerzas terriblemente destructivas en torno al que alguna vez gravitó su vida. Si bien en la película el libro supondrá un valor prácticamente nulo en términos narrativos, constituirá una imagen poderosísima en cuanto a su relación con el entorno, acomodado entre los cartones del carro que con tracción de sangre humana avanza en el ocaso y en la noche. El lugar común (final feliz o fábula moral) es rehuido de esta manera. Si se da el caso de que ocurra algo semejante a una conversión, al principio quizás parecerá imperceptible, en cierto sentido sucederá detrás de escena. A la vez que los personajes interpretados por César González en la ficción incurrían en actos de extrema violencia, en la realidad el cineasta trabajaba para establecer espacios comunitarios de disponibilidad, impartiendo talleres de cine a jóvenes, convocando a no actores, familiares, amigos, vecinos del barrio para que pueblen cada nueva película suya desde Corte rancho. Truco (2014), uno de sus primeros cortometrajes, termina cuando dos adolescentes, en lugar de salir a robar como habían planeado, deciden pasar la tarde escuchando la música que hace uno de sus amigos. El incendiario poeta en la plaza de Atenas es Patricio Montesano, a través suyo César, en un momento crucial de su vida encontraría un catalizador benéfico, una suerte de salida potencial del horizonte mortífero que lo captaba: la literatura, la filosofía y el pensamiento político lo trastocarían todo en su vida y el cineasta futuro se convertiría progresivamente en un artista soberano. Este, como el sujeto poético de Paul Eluard, no ha dejado de escribir el nombre “libertad”.  

«seis heridas de arma de fuego/ exhiben mi existencia/ ¿y qué fue lo que salvo mi destino/ de una muerte policial?/ fue un encuentro/ encontrarme con la poesía/ un encuentro/ un gran encuentro/ me ofreció un abrazo/ cuando todo eran piñas/ fue mi escudo en cada enfrentamiento/ para vencer el olvido y el egoísmo/ no tenía otro sueño que un asalto/ donde me crucé la fortuna monetaria/ y hoy mis sueños son miles/ se multiplican por cada gramo de cicatriz existente/ no dejé de robar por motivos religiosos/ fue una sobredosis de esperanza/ me cansé de ser un delito y un legajo judicial/ me propuse contradecir mi destino/ me cansé de que me nieguen la cultura/ por ser morocho y de una villa/ comprendí que el mundo necesita excluidos/ para mantenerse estable/ después de esa ruptura/ renové mi visión/ y hasta mis células más pequeñas» (C. González, cit., p. 90).

Son raras en la historia del cine las obras que registran la imagen de tantos niños y jóvenes. Estos tienen en la filmografía de César González −como en Buñuel, Vigo o Truffaut− un lugar muy especial, tampoco son, en su cine, intocados por la violencia. El comentario de Lluvia de jaulas, por ejemplo, presenta a un chico de quince años cuyo cuello fue rozado por las balas de la policía, que tiene ya dos hermanos muertos. Penurias económicas, condiciones sociales acuciantes, sin elección heredadas, exponen a los niños de la villa a experiencias extremas: si bien juegan, bailan o frecuentan a sus amigos (entre otras actividades que corresponden al tiempo de la infancia), también trabajan o buscan trabajar, usan drogas, cuando no roban o mueren en un robo (Guachines, 2014). Sus casos recuerdan el final de Diario de un loco de Lu Hsun, cuyo narrador, previendo que en la sociedad caníbal en que viven asimismo se volverán caníbales, grita <<¡Salvad a los niños!>> (Lu Hsun, 2015, p. 48). Es imprescindible notar la centralidad de Alan Garvey −el Antoine Doinel de César González, el (niño y luego joven) artista de prácticamente todas sus películas−, quien incluso figura en uno de los trabajos que el director no difundió con su nombre (su primer poemario y sus primeros cortometrajes −realizados colectivamente− aparecieron firmados con el seudónimo de Camilo Blajaquis). Aparentemente, César influyó en el gusto musical temprano de Alan (véanse los elementos rastafaris de Diagnóstico esperanza), de manera decisiva alentó a su amigo para que se dedicara a la música e incluyó alguna de sus canciones en sus películas. Estas sin duda florecen en contacto con la personalidad entrañable del joven, sus papeles emanan sensibilidad. Como en el caso de los films de Truffaut, la serie registra el crecimiento del personaje, quien lamentablemente no escapa a las muecas de muerte, al destino aciago que la sociedad ofrece a los pobres: el flamante músico pedirá un arma para ir a robar mientras se queja de la falta de oportunidades que tienen los chicos de la villa (¿Qué puede un cuerpo?). Alan interpreta una suerte de Pierrot godardiano en Lluvia de jaulas: guarda un libro en el pantalón a la manera en que se guarda una pistola, apunta con un arma a las efigies de célebres personalidades (entre otros, Hegel, Descartes, The Beatles). La película termina con una magnífica pequeña escena: aun en el contexto más hostil, momentos de felicidad: el joven besa las flores y parece comulgar con su misterio.

«Quisiera ser la planta que crece en los cementerios./ Sentir lo que siente la sombra de un eclipse» (C. González, cit., p. 85).

Despreciado, ignorado, César González observa el palacio de invierno del cine (¿argentino?), cualquier día lo tomará por asalto o se alejará de él a toda velocidad, hacia el futuro. Los cineastas argentinos deberían rendirle pleitesía, no a la inversa. De manera diferente a aquellos universitarios culposos que abjuran de su formación y buscan conectar con el pueblo, subsumiéndolo otras tantas veces, o de la clase media fascinada por los bajos fondos no experimentados, César González permanentemente entra y sale del éxtasis de la creación. Sin negar su origen popular, necesita un espacio propio para pensar. Entretanto espera a Alan Garvey para hacer otra película juntos, conspira con los viejos maestros del cine, saltando hacia lo nuevo, lo no legislado del arte, lo ilegal. Ver sus películas y recordar: no valorar lo bajo en este cineasta sino lo alto.

«(…) la flor aún espera/ que entendamos su belleza» (C. González, cit., p. 66).

 

Textos citados:

C. González, “Crónica de una libertad condicional”, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2014, p. 59; p. 25; p. 90.

C. González, “La venganza del cordero atado”, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2019, p. 65; p. 74; p. 77; pp. 9-10; p. 85.

C. González, “Retórica del suspiro de queja”, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Ediciones Continente 2015, p. 22; p. 67; p. 79; p. 66.

C. González, “Sinopsis de Lluvia de jaulas” 2020.

C. González, “Sinopsis de Atenas” 2019b.

J.-L. Godard, “Historia(s) del cine”, Buenos Aires, Caja Negra 2007, p. 190.

Lu Hsun, “Diario de un loco”, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Interzona Editora 2015, p. 48.

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