Non è facile recensire un libro in grandissima parte composto a sua volta da 195 recensioni come Al cinema con lo psicanalista di Vittorio Lingiardi (Raffaello Cortina Ed. 2020): gli stimoli e le sollecitazioni sono tantissimi, dato l’argomento e, al di là dell’eccellente professionalità, le multiformi capacità intellettuali dimostrate dall’Autore. Però il volume si avvale anche di una Prefazione di stima e di apprezzamento dovuta alla penna della più che brillante giornalista cinematografica di Repubblica Natalia Aspesi, che già segnala, partecipe, non solo temi, ma soprattutto sensibilità culturali che introducono opportunamente le variegate linee di ricerca le quali costituiscono la rete attrattiva dentro cui s’incontrano occasioni che permettono vivacità e acutezza a tutti i luoghi di lettura del volume.
Com’è giusto, l’Aspesi, per il collega del Venerdì del celebre quotidiano nazionale ha espressioni di sicura rilevanza, più che per lo studioso, per il «novellatore che s’impadronisce della carne, del cuore, del respiro di un racconto a immagini e ce lo offre vivo, in modo che ci sfiori, non si perda e resti con noi» (p. XVII). E poi Lingiardi, da parte sua, nella cornice introduttiva («Al cinema con me stesso», con la tutela di Truffaut e di Godard) si sofferma sul cinema come «un grande esperimento sul sogno e sulla memoria» (p. 1), e segnala che il titolo della sua rubrica settimanale PSYCHO è ovviamente omaggio al grandissimo Hitchcock, «il regista che ha piegato la psicoanalisi al cinema e non viceversa», ma ricorda anche il mito fondante di Psiche («Eros e Psiche è una storia di buio e di luce, dunque una storia di cinema perché senza la fiamma di Psiche non c’è iniziazione d’amore», p. 2). Sogno e memoria, luce e buio, «immagini che precedono il pensiero e lo producono» – anche se per inconsapevole spinta dalle frontiere aperte della narrazione –, vanno così anche al di là di Freud. E citando Schnitzler il critico accenna all’inspiegabile in opere come Mulholland Drive di David Lynch, o Sunset Boulevard (omaggio funerario al cinema muto): il cinema è così sogno continuo, per Lingiardi, della notte e del giorno, giacché «l’inconscio è un territorio molto esteso» in cui, a partire dalla comune data di nascita di cinematografia e psicoanalisi (1895), si ritrovano poi, ad esempio, autori come Bergman, Pasolini, Tarkovskij, con i loro film eccezionali di risultati infiniti di sogni da sogni, e di poesia nella poesia. Del resto, se il geniale riferimento di Lingiardi a uno schema di fondo derivante dai primi versi dell’Orlando Furioso su cui egli appoggia la sua articolatissima narrazione, altri segnali sono dati dalle epigrafi ai vari capitoli che richiamano non a caso Sylvia Plath, Walt Whitman, Wislawa Szymborska, Cristina Campo, sempre Pasolini, ed Emily Dickinson.
Il racconto (letterario) è in Freud il substrato individuale del sogno, e il sogno filmico prodotto dal sogno letterario è certo anche il racconto freudiano prodotto dall’inconscio (Cfr. soprattutto i film pasoliniani). Già la letteratura dunque è prevalente sogno, e talora lo stesso crudo o normale realismo assume le forme oniriche. Alla luce di queste considerazioni Al cinema con lo psicanalista non è una scelta, ma è il percorso narrativo di un ininterrotto avvicendarsi di film che cercano forma per sogni, e figure psicanalitiche tese a stravolgere la presente realtà in un unicum.
Nelle affollate riscritture psicanalitiche di Lingiardi magari colpisce qualche assenza, come quella di Bellocchio da I pugni in tasca a L’ora di religione – Il sorriso di mia madre. O qualche contraddittoria approssimazione, come accade per i film di Sorrentino. Intanto, al divano del racconto professionale si sostituisce la suggestione collettiva di una grande sala al buio attraversata da un fascio di luce che sullo schermo riproduce in qualche ordine il prodotto di strati nascosti degli infiniti neuroni che, anche al di là di Freud e di Jung, va ora (lentamente) studiando il mondo delle neuroscienze.