«Il pennino nero per colui che lo legge traccia nel margine bianco della vulva mostro: essere Tu essendo Io, essere altri: senza bisogno di essere io! Parole scambiate tra la china che scrive e la china lettore, star nudo a sognare ossessogni e star» (Julio Bressane)

 

L’immagine è un corpo, dotata di recettori sensibili, di terminazioni nervose, di organi e tessuti epiteliali senzienti alla tattilità dello sguardo. Trafitta dalla luce, dilaniata da baluginii incandescenti e luminosi si svela, nuda, offrendosi all’occhio voyeuristico dell’osservante. L’immagine è un congegno di carne, membri grondanti sangue, liquidi seminali, marcescenze esposte, in putrefazione eppure vive, palpitanti di desiderio. Quando l’immagine perde i suoi confini per mutarsi in un meccanismo anarcoide e libero, allora mostra ciò che non si mostra o che non è mostrabile, come le “perversioni” o, come le definiscono gli studiosi del settore, dopo averle ben disinfettate dal morbo e igienizzate, “parafilie”.

Il cinema fissa nei frame l’immagine del reale, godardianamente, vedere la realtà attraverso il cinema per passare, poi, a vedere il cinema nella realtà. E nella realtà ci sono anche le correnti inquiete, quelle che si agitano nella nostra psiche, i cari luoghi oscuri. Al limite della follia, disegnata nelle sue sfumature più mistiche, vivono quelle creature che, come scrive Paul Schrader «non riescono ad avere un contatto umano significativo con la realtà che li circonda e il loro effetto sul pubblico è quasi schizofrenico». In La passione di Giovanna d'Arco, Dreyer, grazie al suo stile registico, segna il distacco della Falconetti dagli altri personaggi grazie al primo piano, vorticoso e vertiginoso, stretto e ossessivo, della m.d.p. che corre da un volto all’altro e, grazie all’estasi, tra misticismo e insania, insegue Giovanna, immortalata in inquadrature che la ritraggono dal basso, con gli occhi smarriti in un oltre, lontani. Il distacco dal sociale, dato dall’isteria, appariva anche in uno degli episodi di La Stregoneria attraverso i secoli, di Benjamin Christensen (1922), demonio e malattia, portati sullo schermo legati tra di loro da un filo sottilissimo, quasi impercettibile. Quello stesso legame tra insania, possessione diabolica e distanza dalla realtà è ancora più forte in Il demonio, diretto da Brunello Rondi (1963). Il ritratto sociale di un sud intriso di credenze popolari e superstizioni inevitabilmente debordano nell’isolamento del diverso, incriminato, emarginato e vessato, in alcuni casi, come questo, messo alla gogna.

L’immagine si sgrana per mostrare come in una Lucania contadina, la repressione sessuale, mista ad una tradizione cattolica fortemente contaminata dal folklore, alimenta il mito del demonio. E allora, cosa di ciò che vediamo corrisponde al reale? Quanto lo è? Oppure la realtà attraversa lo specchio concavo dell'occhio e ne esce deformata, un riflesso di sé stessa. Cosa vedi? Come lo vedi? Nulla è quello che è, ma ogni cosa assume una forma plasmata dallo sguardo che si poggia su di essa. Nulla è e tutto è il suo contrario. Lo sguardo appartiene a un solo punto di vista e per sua natura è mutevole, da soggetto a soggetto, ma il regista, nella messa in scena, cerca di affrancarsi dai limiti di parzialità dell’occhio. Così in L'origine della Via Lattea, di Tintoretto, i personaggi sulla tela cambiano a seconda di chi osserva. Una “Grande illusione" (come il film di Jean Renoir) è il cinema, ancora più grande la televisione, in cui la visione è costretta, in cui tutto è confuso e le immagini sono frammentate, così come è frammentato il linguaggio, il reale scivola in una "interruzione" (tecnica?), l'immagine mendace è un insieme di righe colorate dove tutto si smarrisce.

Tutto è una nebulosa evanescente dai contorni sfumati, dove la visione deraglia in uno spazio onirico, indefinito e indefinibile, soprattutto quando l’immagine diviene un territorio sospeso tra sonno e veglia in cui la demarcazione è labile, quasi inesistente. Così è il cinema di Jean Rollin, caratterizzato dalla mutevolezza del sogno, fatto di immagini ipnotiche, esperienze ipnagogiche che si attaccano alla membrana dell’occhio, ferendo lo sguardo, squarciandosi su paradisi surreali. L’immagine si veste di carne e assume le forme di corpi, nudi, erotici. L’immaginifico di Rollin si affida a suggestioni poetiche e pittoriche come la Flaming June, di Frederic Leighton (1895), evocata e omaggiata in La Vampire Nue, del 1970, ma anche contaminato dalla pittura magrittiana, come Les Enfants Trouves; evade dalla sintassi cinematografica per uno stile personale. L’horror nel filmico rolliniano è una chimera, una possibile porta verso il sogno, un genere che è pura libertà, senza limiti all’immaginazione, un mondo onirico dove amore, morte, supplizi e incubi si incontrano sulla bianca spiaggia di Dieppe, luogo così tanto amato dal regista francese. Immagine dipinta, una tela di celluloide è quella invece impressa dal cinema di Harry Kümel, uno sguardo, il suo, che attraversa realtà parallele e penetra sottopelle, aprendosi a percezioni inattese. Con La vestale di Satana (Les lèvres rouges), del 1971, il cinema di Kümel risente dell’eco, almeno nelle atmosfere, del surrealismo onirico bretoniano. La visione si apre al sogno nella scena dei vascelli nel Mare del Nord, tra sfumature crepuscolari in bilico tra reale e onirico.

Tratto dal romanzo dello scrittore Jan Ray, Harry Kümel costruisce il suo congegno ad incastri, più estremo e surreale, Malpertuis (1971), con Orson Welles nei panni del perfido Cassavius. Atmosfere crepuscolari e gotiche rendono ancora più labile il confine tra follia e ragione, reale e immaginario, pluralità spazio-temporali, tingono di surreale questa opera del regista belga, che, a suo modo, confeziona visioni pittoriche dal gusto fiammingo. Feticismo, esibizionismo, masochismo, sadismo, voyeurismo, frotteurismo, travestitismo e tutte le ombre delle «parafilie non altrimenti specificate», vestono l’immagine cinematografica di «malombra» e oscurità scaturite dai meandri cupi della mente umana. WR: Mysteries of the organism (1971) e Sweet Movie (1975), di Dusan Makavevejev, sono materia organica su celluloide, l’acme della produzione del regista nato a Belgrado nel 1932, un condensato della sua grammatica filmica che minaccia la resistenza oculare. Un caos organizzato tra il «montaggio dialettico» alla Eisenstein, i riferimenti, più o meno, espliciti a Russ Meyer e l’uso di una linguistica metaforica estremizzata, come il bagno di Carol Laure in Sweet Movie, immersa, con le sue forme giunoniche, in una vasca di cioccolata alludendo giocosamente ad un’immersione escrementizia, pur non provocando effetti repulsivi.

Il corpo filmico è il corpo narrativo, «you are your body», riecheggia invece onanisticamante in “WR”, che è al contempo un corpo politico. Walerian Borowczyk dalla sua consacra con il fuoco dell’arte l’immaginario erotico, mostrando le più eterodosse frequentazioni sessuali femminili, «estraendo dal materiale che lavora le essenze più oscure, senza intaccarne l’integrità. Egli ne svela la misteriosa autonomia e ne controlla la disturbante fertilità», come sottolineava Maurice Corbet. Borowczyk dà forma al desiderio e si spinge oltre, fino a mostrare l’immostrabile sovversione di un eros anarchico e libero, lanciato come un dardo infuocato contro l’ordine borghese. L’immagine borowczykiana nelle sue opere si tinge di sfacciato erotismo e di una sensualità densa e carnale, i film si fanno materici, accendendosi su corpi, uomo e donna, vissuti, barocchi e dalle forme esuberanti. L’incarnazione del desiderio, dalle labbra carnose e socchiuse che avidamente si dissetano di liquidi, forse assenzio, e si immergono in una liquidità corporale, un’estasi sensuale e voluttuosa, per non perdere nemmeno una goccia dell’altro. In un gioco di orgasmi simulati, desiderati, cercati e metaforicamente inscenati, volti femminili inondati, voci lente e profonde dal ritmo cadenzato, come un canto ammaliante, una sirena che attira a sé l’essere agognato. Enfatica, esagerata, volutamente ridondante, proprio come è la passione, ma condita da un pizzico di ironia: così la costruzione filmica conduce l’opera a deviare su una contorsione narrativa sopra le righe.

Suggestioni surreali in cui si muovono macchine desideranti, il corpo, mostrato, accarezzato, sognato nella sua prorompenza, inspessisce le immagini; le ombre si fanno materiche, emerge da bianche vesti che velano seni, fianchi e cosce, in una frammentazione visiva, pari a quella del linguaggio adottato, in cui la realtà si confonde con il sogno, si scivola in enunciati onirici e a parlare è il desiderio. L’immagine erotizzata e erotizzante emana il fascino di un linguaggio estetico e narrativo impreziosito da sperimentazioni, sospensioni del tempo e silenzi, dove tutto è presente e assente. In un riavvolgersi continuo intorno ai sensi e al desiderio di un’unione impossibile, di una diversità incolmabile, ma dove la carnalità riesce a colmare gli spazi tra le anime e a dare vita al trionfo delle passioni, soprattutto quando queste sono emanazione degli angoli più reconditi e oscuri dell’animo umano. La costruzione della dialettica è affidata all’immagine e cos’è un’immagine se non narrazione? Racconto dello sguardo di un momento, storico, sociale, politico, ma anche emozionale; un battito di ciglia che racchiude l’architettura di un attimo proiettato sulla bianca palpebra oculare, lo schermo su cui scorre la vita. Si parte sempre dal mistero dell’immagine, capace di raccontare la realtà e la sua astrazione, disegnandone il sogno. Sono, come diceva Jean-Luc Godard, storie del cinema. «Storie senza parole. Storie della notte. Sono quasi 50 anni che, al buio, il popolo delle sale brucia l'immaginario per riscaldare il reale. Ora quest'ultimo si vendica e vuole vere lacrime. E vero sangue».

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