Rivoluzioni in cielo come in terra. Le metafore proliferano in entrambe le direzioni. Appartenente in origine al lessico astronomico, il concetto di rivoluzione verrà assorbito dal campo della politica - non senza alterarne il significato - per pensare l'evento: servirà per designare, dal 1789, «una rottura e una radicale innovazione» (Traverso, 2018). Nei pochi secoli che separano l'assalto al cielo (postulato da Marx), dall'attuale eclissi delle utopie (esaminato da Enzo Traverso) emergeranno numerose e notevoli espressioni di una sorta di sguardo di Giano, rivolto all'universo e, insieme, alla vita terrena, che è necessario mutare di radice.

Esiste forse una razionalità notturna tra il significato originario del termine e il vivo fascino che il cosmo suscita in tanti intellettuali rivoluzionari, da Blanqui a Kluge, da Brecht a Godard, da Benjamin a Deleuze-Guattari, da Primo Levi a Hito Steyerl, tra tanti altri. Come nel titolo ivensiano, tuttavia, cielo e terra si separano nell’epoca e, ancor più, nella regione a cui si riferiscono la maggior parte dei film citati in questo scritto. Il 1968 segna un periodo di disordini in molte parti del pianeta, ed è anche l'anno in cui gli esseri umani (alcuni astronauti americani) hanno orbitato attorno alla Luna per la prima volta. Sebbene in linea di principio appartengano ugualmente agli anni Sessanta, la corsa allo spazio tra il Primo e il Secondo Mondo e le rivoluzioni del Terzo rappresentano differenze irriducibili, come quelle che esistono tra la guerra di un paese ricco e la guerra di un paese povero indicate all’inizio di Loin du Vietnam (VV.AA., 1967).

Le immagini dell'ultima rivoluzione latinoamericana viaggiano verso di noi come la luce delle stelle, come i riflessi di qualcosa di lontano e morto che però persiste più nel vuoto che nell'aria, raggiungendoci. È in questo senso che la domanda sul significato e l'essenza dell'utopia sollevata da Fernando Birri in Che, ¿muerte de la utopía? (1997) - a trent'anni dalla caduta del creatore del foquismo -, una domanda citata da Carmen Guarini - non più in procinto di entrare nel XXI secolo, ma sfiorando la sua seconda decade -, suona anacronistica o estemporanea. Nel suo documentario-tributo a Birri (fondatore di due scuole di cinema) nel crepuscolo della sua vita, viaggiando tra Santa Fe, L'Avana e il paese del neorealismo italiano, Guarini mette in evidenza, tra il numeroso materiale registrato per il film sul Che, il motto assertivo di un religioso sulla questione dell'utopia, che ispirerà il titolo del suo film: Ata tu arado a una estrella (2017).

Sarebbe opportuno chiedersi, però, cosa araremmo oggi in questa enclave neocoloniale che ha padroni e condannati, se non una terra inondata di sangue, devastata da incendi, estrattivismo e inquinamento, dove la monocoltura transgenica si estende senza limiti così come l'uso di pesticidi (usati come arma di guerra chimica in Laos e Vietnam! introdotti in Sud America come tecnologia per la rivoluzione verde in agricoltura dai Kennedy), e che nasconde un cumulo senza fine di corpi.


Camposanto

«Il vero cimitero è la memoria Walsh». R. Walsh, Lettera a Vicky.


A partire dal 1973, le dittature militari invasero l'America Latina. I suoi dirigenti e servizi di intelligence, indottrinati, finanziati e organizzati dagli Stati Uniti (Plan Cóndor, Scuola delle Americhe), misero a punto un programma di estinzione di massa attraverso squadroni della morte e forze di sicurezza disponibili nei paesi della regione, sterminando ogni tentativo di rivoluzione, eccetto sull'isola caraibica dove nel 1959 iniziò trionfante l'ultimo grande ciclo rivoluzionario continentale.

Geografia mortuaria, terrificante cripta di innumerevoli NN, vasto territorio di rovine, «obitorio continentale» (2010, p. 35), proprio come, secondo Leandro Katz, l'America Latina era raffigurata negli archivi fotografici di New York in cui l'artista trovò, negli anni Ottanta, quella che considera l'immagine seminale del guerrigliero morto: una delle fotografie (da polizia o da casellario forense) che Freddy Alborta scattò al cadavere di Ernesto Che Guevara giacente nella vasca di una lavanderia di Valle Grande, offerta alla stampa dopo la sua esecuzione a La Higuera, atto finale di un assedio militare durato mesi che riuscì a reprimere il suo fallito tentativo di rivoluzione in Bolivia nel 1967. Secondo Katz il Che fu Ii primo argentino desaparecido, il cui corpo, nascosto ai parenti, fu sepolto clandestinamente.

Oltre ad arrischiare questa ipotesi, El Día Que Me Quieras (Katz, 1997) tenta un'analisi sul potere di fascinazione dell'immagine ingovernabile del morto. Il libro dell'artista Los Fantasmas de Ñancahuazú. Proyecto Para El Día Que Me Quieras estende l'indagine (visiva e scritturale) ad altre zone di quella vicenda, come il caso della guerrigliera Tania, il ritrovamento del cadavere di Ernesto Guevara da parte della Squadra argentina di Antropologia Forense o la questione delle immagini più famose del Che. Le fotografie di Alborta – due delle quali molto simili a dipinti celebri di Mantegna e Rembrandt – immediatamente diffuse dai militari boliviani con l'obiettivo di convincere dell'inutilità della ribellione, si contrappongono alla fotografia del Che a Cuba di Alberto Korda, che si sarebbe moltiplicata come vessillo in numerose insurrezioni e rivolte. Da parte sua, l'opera d'avanguardia, la cui anonima legenda «Un guerrigliero non muore per essere appesa al muro», dovuta a Roberto Jacoby, sebbene disattivata della sua intenzione originaria (circolava come messaggio clandestino via posta durante la dittatura argentina di Onganía), funziona ancora oggi come forma resistente, isolata in mezzo alla riproduzione incessante di effigi del Che, trasformato in oggetto di museo e di mercato.

È difficile trovare un film che abbia cercato di catturare, anche solo come abbozzo, l'indicibile genocidio latinoamericano degli anni '70, la sua decadente metamorfosi e l'impoverimento del panorama sociale, economico, politico e culturale del continente a causa del terrorismo di Stato e della successiva instaurazione del neoliberismo. A differenza degli urgenti tentativi internazionali della fine degli anni '60 e '70, più o meno parziali o profondi, sembra che (ad eccezione di alcuni casi) non ci siano nemmeno tentativi cinematografici trascendenti che ritornino sulla storia delle lotte rivoluzionarie che hanno cercato di invertire gli effetti della conflagrazione fascista in America Latina. Una costellazione del disastro si configura però attraverso la riunione di frammenti cinematografici di una vera internazionale dei salvati, se non dei martiri. La filmografia di alcuni registi lavora in questo senso. Patricio Guzmán, ad esempio, ha girato saggi sul caso del Cile per più di mezzo secolo, documentari riflessivi che – da El primer año (1974) a Salvador Allende (2004), e in altri film che hanno seguirono a questi – espongono (più di) sessant'anni di storia sociale e politica del Paese. Raymundo Gleyzer e Santiago Álvarez, o il cameraman argentino Leonardo Henrichsen filmarono in diversi paesi dell'America Latina in quegli stessi anni. Assassinato in una rivolta militare in Cile nel giugno 1973 (prima del colpo di stato di Pinochet), Henrichsen non ha mai avuto modo di vedere il materiale video che filmava e inviava come corrispondente per una televisione svedese. Convulsi flash documentari di quello che avrebbe potuto essere il suo film latinoamericano si intravedono in Imagen Final (Andrés Habegger, 2008), che segue le indagini su questo crimine contro l'umanità (non riconosciuto come tale dallo stato cileno, come si vede nel film). «Per tutti la morte ha uno sguardo» (2017, s / d), ha scritto Cesare Pavese: Henrichsen filmò i suoi assassini nel momento esatto in cui gli sparavano contro quei proiettili che poco dopo lo avrebbero ammazzato in mezzo alla strada (la telecamera non è un fucile, al massimo può funzionare come arma di controinformazione, secondo le idee del momento). Salvata dal cameraman che, morendo, riuscì a nascondere la telecamera, questa immagine tenebrosa avrebbe fatto il giro del mondo.

Il paesaggio desolato alla fine di Amuleto (Roberto Bolaño, 1999) appare come una sorta di allegoria della traumatica utopia latinoamericana di fine anni Sessanta, momento in cui l'epopea rivoluzionaria diventava la storia dei vinti. Il protagonista del romanzo, la poetessa uruguaiana Auxilio Lacouture, che aveva assistito al momento in cui l'esercito messicano aveva violato l'autonomia universitaria ed era entrato brutalmente nella Università Nazionale di Città del Messico, «quell'anno bellissimo e fatidico» (p. 148) 68, assisteva alla visione allucinata di una folla di giovani che marciavano cantando verso la loro morte, avanzando verso un baratro, un abisso senza fondo dentro il quale sarebbero scomparsi, mentre gli echi dei loro canti di guerra continuavano a risuonare nell'aria. Da lontano, la madre dei poeti messicani non poteva discernere se fossero bambini e giovani in carne e ossa o fantasmi.

Le immagini rivoluzionarie sono spesso fatalmente accoppiate, a causa degli opposti movimenti reazionari, con le immagini funebri della caduta dei rivoluzionari e di coloro che compiono atti rivoluzionari. La violenza parastatale e statale delle dittature negli anni '70 è stata il catalizzatore insormontabile della grande diaspora dei registi politici e dei film cinematografici militanti latinoamericani. Questi sono stati nascosti, distrutti o inviati al di fuori dei loro paesi di origine (andando persi in alcuni casi), per impedire ai repressori di trovarli, il che implicava un enorme pericolo per la (integrità della) vita di coloro che apparivano in quei materiali o li firmavano. Oggi conosciamo il caso dei militanti del “Grupo de Cine Periodista” di La Plata, che morirono a causa della tortura fisica o giustiziati dai loro carnefici, senza aver rivelato il luogo dove avevano nascosto il loro archivio filmico (questo ha permesso il recupero del materiale in anni recenti). Anche per questo, si tratta di un cinema poco conosciuto dalle generazioni successive. Al giorno d'oggi, è più facile vedere alcuni film militanti o rivoluzionari di difficile accesso in Argentina, ma che sono conservati in archivi generalmente europei – come Le Ciel, la Terre (Joris Ivens, 1966) o Algérie, année zéro (Marceline Loridan-Ivens e Jean-Pierre Sergent, 1962) – che tutti quei film inespugnabili o praticamente vietati in un paese dove, non esistendo ancora una cineteca nazionale, sono parte di collezioni private ad accesso estremamente limitato. Le opportunità di vedere Ya es tiempo de Violencia (Enrique Juárez, 1969) in una copia digitale di buona qualità in sala sono scarsissime: la sua circolazione originaria anonima e clandestina o semi-clandestina a Buenos Aires e in altre città argentine era sicuramente molto più comune all’epoca nella quale venne girato che ai nostri giorni.

Gli spettri dei morti infestano la memoria. Dai guerriglieri centroamericani che saturano le immagini d'archivio (Katz, cit.) ai martiri del massacro di Trelew. Questi ultimi parlarono per l'ultima volta in televisione rivendicando la rivoluzione, e poco dopo sarebbero stati fucilati dal governo de facto. Le immagini sono recuperate nel film del Grupo Cine de la Base Ni olvido ni perdón (1972): «Coloro che parlano al momento della proiezione del film, sono già morti – scrive Sebastián Russo – sono già (saranno, rimarranno) spettri» (2016, p. 115). Quelli che si tentò cancellare, quelli che sono stati effettivamente cancellati dalla storia, dal massacro di Tlatelolco agli scomparsi in Argentina, «opprimono il cervello dei vivi come un incubo» (Marx, 2014, p. 103). I centinaia di migliaia di corpi non identificati, insepolti, o nascosti sotto terra, dispersi in fosse comuni o in cimiteri clandestini, gettati nell'Oceano Pacifico, nel Río de la Plata, una volta cancellata ogni traccia del loro passaggio, vennero condannati dalle autorità alla segretezza e all'oblio, obbedendo ad un piano criminale. Sono rivendicati da madri e nonne, a Montevideo, Uruguay [Unas preguntas (Kristina Konrad, 2018)] e in Plaza de Mayo a Buenos Aires. O cercati nel deserto cileno di Atacama, dove donne anziane vagano tragicamente per la terra desolata nella speranza amorevole di trovare i resti dei loro figli che anelano, fino alla follia, di rivedere, come filmato da Patricio Guzmán nel suo triste e bello Nostalgia de la luz (2010).

Sono troppi i morti. Furono per lo più vittime delle brutali dittature della destra del continente, ma non bisogna dimenticare quelli uccisi dalla sinistra degradata nell'autoritarismo, incline al sospetto avvelenato, alle epurazioni, all'eliminazione dei dissidenti. Come Roque Dalton, poeta, ucciso in El Salvador dai suoi compagni comunisti, per citare solo il caso più noto. L'assassinio per mano del potere continua a essere una pratica comune in tutta la regione, la cui intensità varia a seconda dell'area in questione (negli ultimi anni, le morti sinistre di Berta Cáceres in Honduras, Marielle Franco in Brasile, Rafael Nahuel nel sud dell'Argentina). Scrivere o filmare in America Latina può diventare una scommessa di vita o morte. Il giornalista messicano Sergio González Rodríguez, ad esempio, ha oltrepassato – come lui stesso ha detto – la linea d'ombra nell'indagine sulle sparizioni di donne e femminicidi a Ciudad Juárez (Huesos en el desierto), che gli è valsa l'esperienza di essere rapito e torturato da sicari. Alla fine è riuscito a salvarsi per puro caso. O lo scrittore Horacio Castellanos Moya, autore di El asco: Thomas Bernhard en San Salvador (1997), un caustico romanzo-diatriba diretto contro l'intero paese, che ha ricevuto minacce di morte quando il testo venne pubblicato.

In altre parole, in tali circostanze, viene praticamente fatta una scelta tra il silenzio, dover scomparire in esilio, o scomparire letteralmente (Halfon, 2020, p. 83). Come nel doloroso caso dell'argentino Jorge Julio López, due volte desaparecido. La prima volta (nel 1976, durante l'ultima dittatura) fu rapito e tenuto prigioniero in un Centro di Detenzione Clandestino per tre anni; la seconda (nel 2006, in democrazia) quando venne aperto il processo contro il commissario di polizia di Buenos Aires che fu il suo torturatore. La sua ubicazione non è ancora nota. Siamo tutti\e López. Donde empieza la vida y termina la muerte (Marcos Tabarrozzi e Nicolás Alessandro, 2017) è dedicato al suo caso, plasmandolo in modo equo e commovente, aggiungendo al contempo il reclamo urgente per l'apparizione di López vivo.

Tutte queste scene si ripetono con variazioni: tra le tante, lo storico e anarchico Osvaldo Bayer, che si salvò dalle minacce ricevute per il suo libro Los vengadores de la Patagonia trágica (1972-74), abbandonando l'Argentina in clandestinità dopo il colpo di stato del 1976. L'intellettuale impegnato non cessò la sua attività in esilio, scrivendo contro la dittatura dei generali del paese che si era lasciato alle spalle - che paragonò al nazismo -, partecipando a manifestazioni presso l'ambasciata argentina in Germania, informando sulle atrocità commesse, collaborando con le organizzazioni per i diritti umani, ecc. Scene del suo attivismo all'estero e del suo ritorno in Argentina vengono mostrate nel precursore (e, per molti versi, segreto) documentario del periodo di transizione democratica Cuarentena: Exilio y regreso (Carlos Echeverría, 1984). O il caso dello scrittore Rodolfo Walsh, assassinato e scomparso dopo aver inviato la sua Carta abierta de un escritor a la Junta Militar (1977), dove vengono denunciate con brillante accuratezza e chiarezza – un anno dopo il colpo di stato – le caratteristiche del regime omicida il cui obiettivo ultimo era l'attuazione del piano economico, disciplinando (gran parte della) società argentina con la terrificante conoscenza delle persecuzioni, rapimenti, sparizioni, torture (dove veniva utilizzato anche il pungolo elettrico per il bestiame) e omicidi.

Il suo carattere di controinformazione è replicato da Las A.A.A. son las tres armas (Grupo Cine de la Base, 1977), nella cui colonna sonora si leggono frammenti della missiva di Walsh. Questo cortometraggio di intervento urgente funziona come una sorta di aggiornamento del film collettivo Informes y testimonios. La tortura política en la Argentina 1966-1972 (1973). Al momento della sua comparsa, questo lavoro forniva un resoconto di una dittatura passata e ne prefigurava in maniera fatidica un'altra (inimmaginabile) a venire. Alcuni documentari successivi, come El botón de nácar (Patricio Guzmán, 2015) e Retratos de identificacao (Anita Leandro, 2014), renderebbero visibili forme abiette dell'apparato infernale del terrorismo di stato latinoamericano (in Brasile e Cile), il supplizio della tortura, la morte concentrazionaria, l'orrore della scomparsa forzata delle persone.

Il regista Raymundo Gleyzer, membro del militante Grupo Cine de la Base, fu rapito e desaparecido nel 1976. Tutta la sua straordinaria e lacerante opera è dedicata ai pressanti problemi del continente (ha girato in Brasile, in Messico) ripresi da una prospettiva politica rivoluzionaria. Il Grupo Cine de la Base ha diffuso attraverso i suoi film idee sulla rivoluzione socialista nei quartieri popolari, nelle fabbriche e nei sindacati. Il problema fondamentale del gruppo era come raggiungere la “base” (appunto), ossia la gente, gli operai, i contadini. In relazione a questo obiettivo pragmatico, i membri del collettivo discutevano sull'efficacia e la convenienza delle diverse tecniche e stili audiovisivi che sarebbero stati utilizzati, nonché le questioni riguardanti la distribuzione e l'esposizione della loro cinematografia. Con questo obbiettivo, il gruppo ha costruito la prima di una serie di sale cinematografiche che sarebbero state collocate nei quartieri popolari. Allo stesso modo, il Grupo Cine de la Base sarebbe diventato il braccio cinematografico del PRT-ERP. Quando il sequestro di Gleyzer fu consumato e il terrore imperversò senza freni, i suoi compagni di lotta furono costretti a partire per l'esodo continentale.

Fernando Solanas, Octavio Getino e Gerardo Vallejo del gruppo Cine Liberación, segnalati dalla polizia di Onganía dal 1968 appena lanciarono quella prodigiosa prima pietra del cinema militante argentino che era La hora de los hornos, furono costretti all’esilio dopo aver subito minacce e attacchi individuali da parte delle forze paramilitari. Jorge Cedrón – che girò clandestinamente Operación masacre (1973), tratto dall'omonimo libro di Rodolfo Walsh che narra e chiarisce le esecuzioni illegali di 56 persone a José León Suárez – sarebbe stato raggiunto dal Piano Condor: fu assassinato in una stazione di polizia di Parigi, in circostanze mai chiarite. I registi Pablo Szir, Enrique Juárez e alcuni membri del gruppo cinematografico peronista di La Plata furono anch’essi desaparecidos.

Chi è stato marchiato dalla violenza politica, vive la propria vita distrutta. Alla fine di Juan, como si nada hubiera sucedido (Carlos Echeverría, 1987), le brevi parole della madre dello scomparso Juan Herman – sospesa in una attesa perenne – trasudano un immenso dolore. «Il fantasma ci segue, ovunque andiamo» (2012, p. 44), ha scritto Nicolás Prividera. Ladino, espone argomenti convincenti e lucidi (mettendo incessantemente e scomodamente in discussione la società, la classe politica o ai leader delle organizzazioni armate degli anni settanta) da M (2007) al suo bellissimo Adiós a la memoria (2020), che lo portano a litigare con tutti e, forse, ad un’inevitabile solitudine (anche quando la sua intenzione è quella di articolarsi con una logica “comunitaria”). Egli, a differenza di Albertina Carri in Los rubios (2003) e María Inés Rouquié in Papá Iván (2004) – entrambe registe figlie degli scomparsi – non mette in discussione la militanza della madre scomparsa, ma piuttosto le ragioni per cui la società è rimasta e rimane indifferente al terrore del passato e all'orrore quotidiano del presente.

I morti viventi devastati dalla droga in Colombia, i “desechables” (usa e getta), chiamati così – secondo Eduardo Halfon – «perché non servono più a niente» (cit, p. 31), da quante generazioni sono separati dagli emarginati chiamati in causa da Carlos Mayolo e Luis Ospina nella messa in scena del film terzomondista Agarrando pueblo (1977)? E quante generazioni separano i bambini che chiedono monete ai lati del treno di Tire dié (Fernando Birri e Escuela Documentario di Santa Fe, 1955-1958) dai bambini malnutriti e arrabbiati che nelle province argentine dell'interno rovistano nella spazzatura in cerca di cibo, filmati in Memoria del saqueo (Fernando Solanas, 2004)? E quante da coloro che vivevano in povertà nelle periferie marginali filmati a Buenos Aires (David José Kohon, 1956) ai poveri che dormono per le strade della stessa città, ricoperti dai sudari di lenzuola sporche, filmati brevemente ma incisivamente in Adiós a la memoria?

Anche la (in) materia (lità) dell'immagine spettrale subisce trasformazioni: dal cinema che -barthesiano o baziniano- conserva o preserva almeno una traccia di esseri (e cose) al deep fake, creazione per mezzo dell'intelligenza artificiale di un'immagine basata su dati ma, appunto, totalmente artificiale e che emula perfettamente la realtà. Come saranno i futuri effetti di straniamento che continuano e si amplificano nelle immagini tecniche dall'invenzione della fotografia ai nostri giorni? Durante la restituzione dei fascicoli degli studenti scomparsi durante l'ultima dittatura argentina nell'attuale Facoltà di Arti dell'Università Nazionale di La Plata, ad esempio, sono stati proiettati frammenti di filmati di manifestazioni politiche che erano stati registrati dal Grupo de Cine Peronista de La Plata  negli anni ‘70. Un giovane che era tra il pubblico ha identificato il padre scomparso in una delle immagini, in quella che è stata – secondo quanto raccontato da lui - la prima volta che ha potuto vedere la sua figura in movimento (animazione della fotografia). Mentre gettiamo lo sguardo sul passato, la tecnologia inventa insoliti futuri cancellati. Recentemente è uscito un brano audiovisivo in cui il giornalista Javier Valdes, assassinato in Messico, viene ricreato attraverso un software, e può così finalmente pronunciare la sua arringa dall’oltretomba, indirizzandola al presidente di quel paese, chiedendo giustizia per la propria morte e per quella di molti altri giornalisti assassinati per indagare casi pericolosi legati al potere dello stato parallelo all'interno dello stato, sostenendo che non può venire ucciso una seconda volta.

All'interno dell'onnipresente e schizofrenico flusso della comunicazione, le immagini rivoluzionarie rischiano permanentemente di essere annullate, distorte, convertite a beneficio di qualsiasi neofascismo. Allo stesso tempo, si instaura un relativismo di intenzione fallace che confonde i fatti con la finzione, inoculando l'idea della fine della verità, stimolando (qualcosa che supera il fenomeno di) fake news e trionfando in questo gioco perverso. È in questo contesto che si svolge la scena impunita di Imagen Final di Habbeger, in cui uno dei soldati coinvolti nell'omicidio del cameraman ha davanti agli occhi le immagini inconfutabili filmate da Henrichsen e, tuttavia, mente, negando che la sua pattuglia abbia mai sparato ai civili. Questo processo irreversibile solo in apparenza è collegato all'aporia sollevata, nella critica nietzscheana, dall'idea di verità propria della scienza positivista. Lo stato di relativizzazione permanente di tutto implica un ulteriore problema per la chiarificazione da parte della società dei crimini contro l'umanità. In questo stato di cose, quando l'informazione fuoriuscita si polarizza, si incapsula, si quantifica e dirige per mezzo di algoritmi, le notizie inviate dai paesi della regione da registi che pensano davvero in modo critico a ciò che filmano e montano sono più necessarie che mai.

Ci sarebbe da esaminare dettagliatamente come tutto questo si collega al fatto che le immagini della guerra civile o della guerra totale proliferano molto più frequentemente delle immagini rivoluzionarie in tutto il mondo. Cuatreros (Albertina Carri, 2017) espone perfettamente come in Argentina negli anni '60 e '70 si contrapponevano due pedagogie dell'immagine: una rivoluzionaria (appartenente al cinema militante) e una repressiva (tipica del terrorismo di stato e della televisione di potere). Quest'ultima visione ha indubbiamente prevalso, mutando e diffondendosi come un virus che avrebbe colonizzato gli schermi di tutti gli angoli del pianeta. Di fronte all'entusiasmo rivoluzionario del Nuovo cinema latinoamericano, soprattutto nelle proposte della sua fase offensiva, i film contemporanei citati appariranno revisionisti. Eppure ci sono gesti resistenti nell'intransigenza. Alcuni registi sostengono ancora lo slogan sollevato all'epoca da Rodolfo Ortega Peña, anch'egli assassinato (circa 1974): «Il sangue versato non sarà negoziato». Me matan si no trabajo y si trabajo me matan (Grupo Cine de la Base, 1974), si riferisce a questo crimine perpetrato dagli scagnozzi dell'Alianza Anticomunista Argentina (A.A.A.). Titolo lapidario, come tanti nomi di film che all'epoca parlavano della America Latina profonda: Revolución (Jorge Sanjinés, 1963), La tierra quema (Gleyzer, 1964), Terra em transe (Glauber Rocha, 1967), Muerte y pueblo (Nemesio Juárez, 1969), solo per citarne alcuni.

Una volta che l'annientamento è avvenuto, dissipata la verità rivoluzionaria che si credeva stesse per fondare un nuovo mondo, si impone nelle società la esigenza di memoria, verità e giustizia. Sostenere quest'altra forma di verità (evidentemente legata a nozioni come denuncia e controinformazione) è talvolta un atto rivoluzionario. Carlos Echeverría, uno dei più importanti registi argentini della democrazia, ha filmato, quando era molto giovane, Juan, como si nada hubiera sucedido. Un'indagine documentaria dedicata al caso di Juan Herman, scomparso nella città di Bariloche durante l'ultima dittatura. Paragonabile ad alcune opere giornalistiche di Rodolfo Walsh che chiarivano la verità sui crimini occultati dallo Stato argentino, Echeverría ha intrapreso un'indagine meticolosa attraverso la quale ha rintracciato i civili e soldati che ricoprirono posizioni gerarchiche nella città durante il periodo in cui lo studente era desaparecido. In alcune occasioni Echeverría ha intervistato i responsabili e i complici del crimine, filmandoli di nascosto, senza autorizzazione. Il regista ha anche messo in luce il vicolo cieco della causa giudiziale relativa al caso, così come il disinteresse del giornalismo di indagare su quanto accaduto. Il film è stato presentato come un dibattito con lo stato e con la società in un momento storico nel quale ci stavamo dirigendo verso l'abiezione o l'amnesia.

 

Addio al linguaggio. (Digressione della digressione).

«Non riesco a trovarti,

ma entro nell'oscurità allucinata delle immagini di un cinema

che ha il tuo nome».

F. Birri, Por mares nunca d’antes navegados, 1982.

Sembra che nel cinema non ci siano più controversie tra le avanguardie. Forse si tratta di una questione limitata per questa forma d'arte. La stragrande maggioranza dei registi che realizzano film di intervento militante e politico optano per un linguaggio che è urgentemente e inevitabilmente condizionato dal proprio pubblico, mentre l'avanguardia estetica per definizione rivoluziona le forme, ne mina le fondamenta, se oppone a morte ai suoi precursori alla ricerca dell'originale storico (Groys, 2016). La polarizzazione si rinnova. Tuttavia, alcuni dei più importanti registi del continente si sono mossi felicemente tra i due mondi: Fernando Birri era uno di loro, Glauber Rocha anche, così come Tomás Gutiérrez Alea, Santiago Álvarez e Raúl Ruiz. Sebbene il Nuovo cinema latinoamericano privilegiasse soprattutto la sua dimensione politico-rivoluzionaria, una delle sue caratteristiche più notevoli era anche la sua eterogenea convivenza, la sua diversità nell'unità, il suo internazionalismo. Numerose polemiche e dibattiti estetici e ideologici tra fazioni, collettivi cinematografici, registi all'interno del continente e all'estero (che sono stati specificamente indagati dagli studi cinematografici) hanno avuto luogo in quegli anni in cui la rivoluzione sembrava una possibilità vicina. Come già detto, gli anni Settanta furono la tomba di queste illusioni.

In Todo comenzó por el fin (Luis Ospina, 2015) si possono intuire i resti del naufragio in Colombia: «la sbornia del maggio 68». Questi registi che vissero nell'utopia, secondo lo stesso Carlos Mayolo - radicalizzano la forma estetica e vivono in modo eccessivo, ma non come Santiago Álvarez la cui politicizzazione radicale passava attraverso l’amplificazione dell’aspetto musicale, e come sperimentazione: il trionfo della controcultura. Caliwood è un nome con cui risuonano le parole ironiche di Regis Debray:

«In Francia, i Colombo della modernità politica credevano che dopo La Chinoise di Godard scoprissero la Cina a Parigi, quando in realtà stavano sbarcando in California». (Jameson, 2014, p. 588)

Anche se la storia si fece carico di dimostrarlo, non è del tutto sicuro che questa visione manichea - appartenente pariteticamente alle due avanguardie - che in passato ha negato gran parte del cinema commerciale in nome di quello rivoluzionario (sia nella sua variante politica che estetica), sia diventata obsoleta, anche se le avanguardie hanno da tempo smesso di esistere. Il passato può anche connettersi con possibilità che all'epoca non erano state notate o erano state trascurate. Il nuovo cinema latinoamericano andrebbe visto di nuovo nei suoi chiaroscuri, senza feticizzarlo. Ciò implica la necessità di rinunciare sia alla nostalgia che a un certo trionfalismo acritico che ancora oggi offusca i più ottimisti. Le parole di José Martí «È l'ora delle fornaci, in cui non bisogna vedere altra cosa che luce» (1991, p. 275), che ha ispirato il nome del film-atto di Solanas, possono essere applicate in modo significativo alla visione attuale di progresso, senza rivoluzione, guidata da un abbagliamento che ostruisce la storia recente e ignora le terribili ombre che incombono su di noi. A quel cinema si potrebbe contrapporre l'opera di Philip K. Dick, autore rigorosamente contemporaneo e sicuramente sconosciuto a quei mille fiori che sono emersi e rischiano sempre più di scomparire nel nulla, di cui parlava Julio García Espinosa nel suo manifesto Per un cinema imperfetto.

Le visioni distopiche di quell'oscuro messaggero controculturale, contrariamente alla maggior parte delle utopie politiche degli anni Sessanta, si avvicinarono notevolmente all'obiettivo del futuro, quando non colpirono in pieno il bersaglio. Conviene ricordare per il presente (e per il futuro) una frase che lo scrittore lanciò in una conferenza altrimenti schizoide: «La realtà è ciò che, quando smetti di crederci, non scompare» (Dick, 2007, s / d). Siamo lontani dal cine-pugno eisensteiniano che colpisce il cervello, dai pugni maoisti di La Chinoise (Jean-Luc Godard, 1967) che punteggiano visivamente la proliferazione di proclami sulla Rivoluzione Culturale, e da quelli alzati  nelle manifestazioni politiche ed esibiti in Black Panters (Agnès Varda, 1968). Lontani, insomma, dal cinema che ha moltiplicato i pugni rivoluzionari alzati in rivolta, come in Le fond de l'air est rouge (Chris Marker, 1977). Forse una delle ultime immagini rivoluzionarie trasmesse sia in Oriente che in Occidente è stata il semplice volto di un uomo che parla alla telecamera in un'intervista. Erano le prime rivelazioni di Edward Snowden, registrate da Laura Poitras nello stile di quello che si conosce come documentario di teste parlanti, che, senza effetti formali, prima di diventare cinema in Citizenfour (2014), venne caricato su YouTube; sebbene il suo messaggio su come gli Stati Uniti spiano in massa la popolazione mondiale non facesse veramente breccia nei suoi destinatari, colpì invece i governi che usano la tecnologia per implementarla contro i propri stessi cittadini. Tali progressi si diffusero nel momento esatto in cui i film si mescolarono al fenomeno della viralizzazione online per diventare definitivamente, un po’ più tardi, VOD (Video on Demand). Quali trasformazioni stanno attualmente subendo le immagini utopiche? Un modo possibile per rispondere a questa domanda si può trovare nell'opera di Godard. Al futuro rimandano le parole dette nel suo film Notre musique (2004) di Juan Goytisolo – eterno dissidente – ,  citato qualche volta dalla cineasta cubana Susana Barriga in una luminosa conferenza sui resti del cinema:

«Se la nostra epoca ha raggiunto una forza di distruzione infinita, dobbiamo fare una rivoluzione che crei una forza di creazione indeterminabile, che rafforzi i ricordi, che specifichi i sogni, che incarni le immagini, che tratti meglio i morti, che dia all'effimero una lettura sontuosa della sua trasparenza, permettendo al vivente di navigare sicuro e attuale, attraverso questa oscurità».

Cineasta del futuro, quante volte Jean-Luc o J.-L. G. ha detto addio al linguaggio, negli anni che separano À bout de souffle (1959) da Le Livre d’image (2018) e nelle oltre duecento delle sue opere audiovisive? Tanto ammirata quanto inimitabile, la sua filmografia continua a ispirare immensi registi emergenti come fece con Brian De Palma negli anni '60 / '70 [Greetings (1968); Ciao mamma! (1970)]. In Argentina c'è un godardiano dei sobborghi: si chiama César González. Regista dotato di intelligenza e sensibilità traboccanti, non ha smesso di sperimentare in ¿Qué puede un cuerpo? (2014), Atenas (2019), Lluvia de jaulas (2020). Il suo lavoro è un buco nero che trascina verso se stesso, con forza implacabile, la filosofia e la strada, il cinema e il carcere, la poesia e la morte, la musica e la lotta di classe. Che cosa esiste dopo l'orizzonte degli eventi? Una singolarità. Proiettate nel futuro, le opere di questi registi tornano sulla questione dell'innovazione radicale (piuttosto che del rinnovamento) che il termine rivoluzione implica. Come eccezioni, queste pellicole incandescenti appariranno nei luoghi più inaspettati, alimentando la fiamma della rivoluzione. Per concludere citerò le seguenti tesi del collettivo di distribuzione cinematografica di politica molecolare Extreme Low Frequency, che riverberano concettualmente con la rivolta di suoni, immagini e idee creata in Le Livre de image:

«Il nuovo cinema non è interessato ai dibattiti tecnologici, in particolare agli antagonismi tra analogico e digitale. Usa senza pregiudizi tutti gli strumenti che ha a portata di mano. [...] Il nuovo cinema può esistere solo in uno stato (non) finito e (in) completo come il mondo che cerca di riflettere e affrontare. [...] Il nuovo cinema rifiuta di riconoscere i confini nazionali. Non si identifica né con la finzione né con il documentario. Allo stesso modo, non è nemmeno interessato al genere, il che è utile solo per i commercianti. [...] Il nuovo cinema si sforzerà di riportare la cultura popolare alle persone stesse. Soprattutto: studiando il vecchio: creare il nuovo». (Jonathan Rosenbaum, 2018, p. 33)

 

TESTO ORIGINALE


Notas marginales sobre espectros e imágenes de Latinoamérica

 

Revoluciones en el cielo como en la tierra. Las metáforas proliferan en sendas direcciones. Perteneciente en su origen al vocabulario astronómico, el concepto de revolución sería extrapolado al campo de la política −no sin trastocarse su significado− para pensar el acontecimiento: designará, a partir de 1789, «una ruptura y una innovación radical» (Traverso, 2018, p. 31). En los pocos siglos que separan el asalto al cielo −postulado por Marx− del actual eclipse de las utopías −examinado por Enzo Traverso− surgirían numerosas y notables expresiones de una suerte de mirada de Jano, dirigida al universo como a la vida terrena, que es preciso cambiar de raíz. Acaso exista una racionalidad nocturna entre el sentido original del término y la viva fascinación que despierta el cosmos en tantos intelectuales revolucionarios, de Blanqui a Kluge, de Brecht a Godard, de Benjamin a Deleuze-Guattari, de Primo Levi a Hito Steyerl, entre muchos otros. Como en el título ivensiano, empero, el cielo y la tierra se alejan en la época y, particularmente, en la región a la que reenvían la mayoría de las películas a las que refiere este escrito. 1968 marca un momento de revueltas en numerosos puntos del planeta, también es el año en el que los humanos (unos astronautas estadounidenses) orbitaron por primera vez la Luna. Aunque en principio pertenezcan por igual a los sixties, la carrera espacial entre el Primer Mundo y el Segundo, y las revoluciones tercemundistas representan diferencias irreductibles, como las que existen entre la guerra de un país rico y la guerra de un país pobre señaladas en el inicio de Loin du Vietnam (VV.AA., 1967).

Las imágenes de la última revolución latinoamericana viajan hacia nosotros como la luz de las estrellas, como reflejos de algo lejano y muerto que, sin embargo, persiste más en el vacío que en el aire, alcanzándonos.

Es en este sentido que la pregunta acerca del significado y la esencia de la utopía lanzada por Fernando Birri en Che, ¿muerte de la utopía? (1997) −a treinta años de la caída del creador del foquismo−, pregunta citada por Carmen Guarini −ya no a punto de entrar en el siglo XXI, sino rayando su segunda década−, suena anacrónica o extemporánea. En su homenaje documental a Birri −fundador de dos escuelas de cine− en el ocaso de su vida, viajando entre Santa Fe, La Habana y el país del Neorrealismo Italiano, Guarini destaca entre numerosos testimonios del material grabado por aquel para su película sobre el Che, el decir asertivo de un religioso a propósito de la pregunta por la utopía, que inspirará el título de su película: Ata tu arado a una estrella (2017).

Correspondería preguntar, sin embargo, qué araríamos nosotros hoy en este enclave neocolonial que tiene dueños y condenados, sino una tierra anegada de sangre, devastada por el fuego, el extractivismo y la contaminación, donde se extiende sin límites el monocultivo transgénico tanto como el uso de agrotóxicos (¡empleados como arma de guerra química en Laos y en Vietnam!, introducidos en el Sur de América como tecnología para la revolución verde en la agricultura por los Kennedy), y que esconde un sinfín de cuerpos.

 

Camposanto

«El verdadero cementerio es la memoria».

R. Walsh, Carta a Vicki, 1976.

A partir de 1973 las dictaduras militares arrasaron Latinoamérica. Sus cúpulas y servicios de inteligencia, adoctrinados, financiados y organizados desde Estados Unidos (Plan Cóndor, Escuela de las Américas), ejecutaron un programa de extinción por medio de escuadrones de la muerte y fuerzas de seguridad disponibles en los países de la región, exterminando todo intento de revolución, excepto en la isla caribeña en donde se dio comienzo triunfal, en 1959, al último gran ciclo revolucionario continental. Geografía mortuoria, cripta terrorífica de innúmeros NN, inabarcable territorio de ruinas, «morgue continental» (2010, p. 35), tal como, según Leandro Katz, era figurada América Latina en los archivos fotográficos neoyorkinos en los que el artista encontraba, en los años ochenta, la que considera la imagen seminal del guerrillero muerto: una de las fotografías (de acta policial o forense) que Freddy Alborta tomara del cadáver de Ernesto Che Guevara tendido en una pileta de una lavandería de Valle Grande, ofrecido a la prensa tras su ejecución en La Higuera, luego de su captura por un cerco militar sostenido durante meses que consiguió sofocar su fallido intento de revolución en la Bolivia de 1967. El primer argentino desaparecido, de acuerdo con Katz, cuyo cuerpo, ocultado a sus deudos, fue sepultado clandestinamente. Además de arriesgar esta hipótesis, El Día Que Me Quieras (Katz, 1997) ensaya un análisis del poder de fascinación de la imagen ingobernable del muerto. El libro del artista Los Fantasmas de Ñancahuazú. Proyecto Para El Día Que Me Quieras extiende la investigación (visual y escritural) hacia otras zonas de esa historia, como el caso de la guerrillera Tania, el hallazgo del cadáver de Ernesto Guevara por el Equipo Argentino de Antropología Forense o la cuestión de las imágenes más célebres del Che. A las fotografías de Alborta −dos de las cuales se asemejan de manera notoria a pinturas de Mantegna y de Rembrandt− inmediatamente difundidas por los militares bolivianos con el objetivo de convencer sobre la futilidad de la rebelión, se contrapone la fotografía del Che capturada en Cuba por Alberto Korda que se multiplicaría como estandarte en numerosísimas sublevaciones y revueltas. Por su parte, la obra vanguardista, cuya leyenda anónima «Un guerrillero no muere para que se lo cuelgue en la pared», debida a Roberto Jacoby, aunque desactivada en cuanto a su intención originaria (circulaba como un mensaje clandestino a través del correo durante la dictadura argentina de Onganía), aun funciona como una forma resistente, aislada en medio de la incesante reproducción de efigies del Che, convertidas, finalmente, en un objeto del museo y del mercado.

Difícilmente pueda encontrarse una película que haya intentado plasmar, aunque sea como esbozo, el inenarrable genocidio latinoamericano de los 70, la metamorfosis decadente y pauperización del paisaje social, económico, político y cultural del continente por el terrorismo de Estado y la consiguiente instauración del neoliberalismo. A diferencia de los urgentes intentos internacionalistas de fines de los años 60 y 70, más o menos someros o profundos, pareciera que (con la excepción de algunos casos) tampoco existen tentativas cinematográficas trascendentes que vuelvan sobre la historia de las luchas revolucionarias que intentaron revertir la conflagración fascista en América Latina. Una constelación del desastre se configura a través de la reunión de fragmentos cinematográficos de una verdadera internacional de los salvados, cuando no de los mártires. La filmografía de algunos cineastas trabaja en este sentido. Patricio Guzmán, por ejemplo, lleva más de medio siglo filmando ensayos sobre el caso de Chile, registros documentales reflexivos que −de El primer año (1974) a Salvador Allende (2004), y en otras películas que siguieron a esta− exponen (más de) sesenta años de historia social y política del país. Por otra parte, como Raymundo Gleyzer y Santiago Álvarez, también el camarógrafo argentino Leonardo Henrichsen filmó en diferentes países latinoamericanos durante esos años. Asesinado en un levantamiento militar en Chile, en junio de 1973 (previo al golpe de Pinochet), jamás llegó a ver el material fílmico que registró durante la época y que enviaba como corresponsal a la televisión sueca. Convulsos destellos documentales de la que podría haber sido su película latinoamericana se vislumbran en Imagen final (Andrés Habegger, 2008), que sigue la investigación del crimen de lesa humanidad (no reconocido como tal por el estado chileno, como se ve en la película). «Para todos tiene la muerte una mirada» (2017, s/d)1, escribió Cesare Pavese. Henrichsen filmó a sus asesinos en el momento exacto en que disparaban contra él las balas que poco después definirían su muerte en esas mismas calles (la cámara no es un fusil, a lo sumo puede funcionar como un arma de contrainformación, de acuerdo con las ideas del momento). Salvada por el camarógrafo que, agonizante, consiguió esconder la cámara, esta imagen tenebrosa recorrería el mundo.

El paisaje desolador al final de Amuleto (Roberto Bolaño, 1999) aparece como una suerte de alegoría del final traumático de la utopía latinoamericana sesentista, el momento en que la épica revolucionaria se volvía historia de los vencidos. El personaje principal de la novela, la poeta uruguaya Auxilio Lacouture, que había presenciado el momento en que los militares mexicanos violaban la autonomía universitaria e ingresaban bestialmente en la UNAM, «aquel hermoso y aciago año» (p. 148) 68, asistía a la visión alucinada de una multitud de jóvenes que marchaban cantando hacia su muerte, avanzaban en dirección a un despeñadero, un abismo sin fondo en el que desaparecían, mientras los ecos de sus cantos de guerra continuaban resonando en el aire. A la distancia en que se encontraba, la madre de los poetas mexicanos no podía discernir si se trataba de niños y jóvenes de carne y hueso o de fantasmas.

Las imágenes revolucionarias a menudo traen fatalmente aparejadas, a causa de la reacción, las imágenes fúnebres de la caída de los revolucionarios y de aquellos que realizan actos revolucionarios. La violencia paraestatal y estatal de las dictaduras en los 70 fue el insalvable catalizador de la gran diáspora de los cineastas políticos y de los films del cine militante latinoamericano. Estos se escondieron, se destruyeron, o bien se enviaron fuera de sus países de origen (perdiéndose en algunos casos), para evitar que los represores los encontraran, lo que implicaba un enorme peligro para la (integridad de la) vida de quienes aparecían en esos materiales o los firmaban. Hoy se conoce el caso de militantes del Grupo de Cine Peronista de La Plata que murieron a causa de la tortura física o ejecutados por sus verdugos, sin revelar el paradero de su archivo fílmico (esto permitió la recuperación del material en años recientes). En consecuencia, resulta un cine no del todo conocido por las siguientes generaciones. Es más sencillo en la actualidad ver ciertos films militantes o revolucionarios de difícil acceso en Argentina, guardados por archivos generalmente europeos −como Le Ciel, la Terre (Joris Ivens, 1966) o Algérie, année zéro (Marceline Loridan-Ivens y Jean-Pierre Sergent, 1962), por ejemplo− que aquellas películas inexpugnables o prácticamente vedadas en el país que, en tanto no existe una cinemateca nacional, son parte de colecciones privadas de acceso sumamente restringido. Son en extremo limitadas las oportunidades para ver en una sala Ya es tiempo de violencia (Enrique Juárez, 1969) en una copia digital de buena calidad. Su original circulación anónima y clandestina o semiclandestina en Buenos Aires y en otras ciudades argentinas era seguramente mucho más usual que en nuestros días.

Los espectros de los muertos acechan la memoria. De los guerrilleros de Centroamérica que saturan las imágenes de archivo (Katz, cit.) a los mártires de la masacre de Trelew. Estos hablaron por última vez en la televisión reivindicando la revolución, poco después morirían fusilados por el gobierno de facto. Las imágenes son recuperadas en el film del Grupo Cine de la Base Ni olvido ni perdón (1972): «Los que hablan al momento en que se exhibe el film, ya están muertos −escribe Sebastián Russo− [s]on ya (serán, seguirán siendo) espectros» (2016, p. 115). Los que se intentó obliterar, aquellos que fueron efectivamente borrados de la historia, de la matanza de Tlatelolco a los desaparecidos en Argentina, que oprimen «como una pesadilla el cerebro de los vivos» (Marx, 2014, p. 103). Los cientos de miles de cuerpos sin identificar, insepultos, cuando no ocultados debajo de la tierra, inhumados en fosas comunes o cementerios clandestinos, arrojados al Océano Pacífico, al Río de la Plata, borrado todo rastro de su paradero, fueron confiados al secreto y al olvido, de acuerdo con un plan criminal. Son reclamados por madres y abuelas, en Montevideo, Uruguay [Unas preguntas (Kristina Konrad, 2018)] y en la Plaza de Mayo de Buenos Aires. O buscados en el desierto de Atacama, en Chile, donde mujeres ancianas deambulan trágicamente por el yermo con la amorosa esperanza de encontrar los restos de sus hijos que anhelan, hasta la locura, volver a ver. Tal como fue filmado por Patricio Guzmán en su luctuosa y bella Nostalgia de la luz (2010).

Son demasiados los muertos. Fueron en su mayoría víctimas de las brutales dictaduras de las derechas del continente, pero no hay que olvidar a aquellos asesinados por las izquierdas degradadas en autoritarismos, proclives a la envenenada sospecha, las purgas, la eliminación de las disidencias. Como Roque Dalton, poeta, muerto en El Salvador por sus compañeros comunistas, por nombrar solo el caso más notorio. Continúa siendo el asesinato a manos del poder una práctica común en toda la región, cuya intensidad varía de acuerdo con la zona de la que se trate (en años recientes, las siniestras muertes de Berta Cáceres en Honduras, Marielle Franco en Brasil, Rafael Nahuel en sur de Argentina). Escribir o filmar en América Latina puede convertirse en una apuesta a vida o muerte. El periodista mexicano Sergio González Rodríguez, por ejemplo, cruzó −como él mismo dijo− la línea de sombra al investigar las desapariciones de mujeres y femicidios en Ciudad Juárez (Huesos en el desierto), lo que le valió la experiencia de ser secuestrado y torturado por sicarios. Conservó su vida, finalmente, por azar. O el escritor Horacio Castellanos Moya, autor de El asco: Thomas Bernhard en San Salvador (1997), cáustica novela diatriba dirigida contra todo ese país, que fue amenazado de muerte cuando se publicó esta obra. Es decir, en semejantes circunstancias prácticamente se elige entre el silencio, «tener que desparecer en el exilio, o ser desaparecido literalmente» (Halfon, 2020, p. 83). Como en el doloroso caso del argentino Jorge Julio López, dos veces desaparecido. La primera −en 1976, durante la última dictadura− fue secuestrado y permaneció cautivo en un Centro Clandestino de Detención durante tres años; la segunda −en 2006, en democracia− cuando estaba abierto el juicio al comisario de la policía bonaerense que fue su torturador. De momento no se conoce su paradero. Todxs somos López. Donde empieza la vida y termina la muerte (Marcos Tabarrozzi y Nicolás Alessandro, 2017) se dedica a su caso, plasmándolo de forma justa y conmovedora, a la vez que se suma al reclamo por la aparición con vida de López.

Las singulares escenas se repiten con variaciones: entre muchos otros, el historiador anarquista Osvaldo Bayer, quien se salvó de lo que anticipaban las amenazas recibidas por su libro Los vengadores de la Patagonia trágica (1972-74), al salir escondido de Argentina tras el golpe de estado de 1976. El intelectual comprometido no cesó su actividad en el exilio, escribiendo contra la dictadura de los generales del país que había dejado atrás −a la que comparó al nazismo−, asistiendo a manifestaciones en la embajada argentina en Alemania, informando acerca de las atrocidades cometidas, colaborando con los organismos de derechos humanos, etc. Escenas de su activismo en el extranjero y de su regreso a la Argentina se muestran en el precursor y, en muchos sentidos, secreto documental del periodo de transición democrática Cuarentena: Exilio y regreso (Carlos Echeverría, 1984); o Rodolfo Walsh, asesinado y desaparecido después de que enviara su Carta abierta de un escritor a la Junta Militar (1977), en donde son denunciadas con exactitud y claridad refulgentes −a un año del golpe de estado− las características del régimen asesino cuyo objetivo último fue la implantación del plan económico, disciplinando a (gran parte de) la sociedad argentina con el conocimiento terrorífico de las persecuciones, los secuestros, desapariciones, torturas (picana eléctrica) y asesinatos. Su carácter de contrainformación es replicado por Las A.A.A. son las tres armas (Grupo Cine de la Base, 1977), en cuya banda sonora se leen fragmentos de la carta. Este cortometraje de intervención urgente funciona como una especie de actualización del film colectivo Informes y testimonios. La tortura política en la Argentina 1966-1972 (1973). En el momento de su aparición, este trabajo daba cuenta de una dictadura acontecida y preanunciaba de manera fatídica otra (inimaginable). Ciertas películas documentales posteriores, como El botón de nácar (Patricio Guzmán, 2015) y Retratos de identificacao (Anita Leandro, 2014), visibilizarían formas abyectas del infernal aparato del terrorismo estatal latinoamericano (en Brasil y en Chile), del suplicio de la tortura, la muerte concentracionaria, el horror de la desaparición de personas.

El cineasta Raymundo Gleyzer, integrante del militante Grupo Cine de la Base, fue secuestrado y desaparecido en 1976. La totalidad de su extraordinaria y lacerante obra está dedicada a problemas acuciantes del continente (filmó en Brasil, en México) tomados desde una perspectiva política revolucionaria. Grupo Cine de la Base difundió a través de sus films ideas sobre la revolución socialista en barrios populares, fábricas y sindicatos. El problema fundamental del grupo era cómo llegar a las bases, al pueblo, a los obreros y campesinos. En relación con este objetivo pragmático los integrantes de Cine de la Base discutían la efectividad y la conveniencia de las diferentes técnicas y estilos audiovisuales que serían empleados, así como las cuestiones concernientes a la distribución y exhibición de su cinematografía. En este sentido, el grupo construyó la primera de una serie de salas de cine que serían emplazadas en barrios populares. Asimismo, el Grupo Cine de la Base se convertiría en el brazo cinematográfico del PRT-ERP. Cuando el secuestro de Gleyzer fue consumado y el terror arreciaba, sus compañeros partieron en el éxodo continental. Por su parte, Fernando Solanas, Octavio Getino y Gerardo Vallejo del Grupo Cine Liberación, marcados por la policía de Onganía desde 1968, a partir del momento en que tiraron esa prodigiosa primera piedra del cine militante argentino que fue La hora de los hornos, partieron hacia el exilio tras sufrir amenazas y sendos atentados por parte de fuerzas paramilitares; también Jorge Cedrón −quien filmó clandestinamente Operación masacre (1973), basada en el libro homónimo de Rodolfo Walsh que narra y esclarece los fusilamientos ilegales del 56 en José León Suárez− sería alcanzado por el Plan Condor: fue asesinado en una comisaría de París, en circunstancias nunca aclaradas. Los cineastas Pablo Szir, Enrique Juárez, al igual que ciertos integrantes del Grupo de Cine Peronista de La Plata fueron desaparecidos.

Aquellos que han sido marcados por la violencia política de la reacción, viven sus vidas destruidas. En el final de Juan, como si nada hubiera sucedido (Carlos Echeverría, 1987), las breves palabras de la madre del desparecido Juan Herman −suspendida en una espera perpetua− destilan una inmensa pena. «El fantasma nos sigue a nosotros, donde vayamos». (2012, p. 44), escribió Nicolás Prividera. Ladino, expone apremiantes y lúcidos argumentos (interpelando incesante e incómodamente a la sociedad, a la clase política o a los dirigentes de organizaciones armadas de los setenta) de M (2007) a su bellísima Adiós a la memoria (2020), que lo llevan a discutir con todos y, quizás, a una inevitable soledad (aun cuando su intención sea articular con lo común). Este, a diferencia de Albertina Carri en Los rubios (2003) y María Inés Rouquié en Papá Iván (2004) −ambas directoras hijas de desaparecidos−, no cuestiona la militancia de su madre desaparecida, sino las razones por las cuales la sociedad permaneció y permanece indiferente frente al terror del pasado y al horror cotidiano del presente.  

En la actualidad, los muertos vivos estragados por la droga en Colombia, los desechables, llamados de esta manera −según Eduardo Halfon− «porque ya no sirven para nada» (cit, p. 31), ¿cuántas generaciones los separan de los parias convocados por Carlos Mayolo y Luis Ospina en la escenificación del film tercermundista Agarrando pueblo (1977)?, ¿y cuántas generaciones separan a los niños que piden monedas a la vera del tren en Tire dié (Fernando Birri y Escuela Documental de Santa Fe, 1955-1958) de los niños desnutridos y llenos de furia que en las provincias argentinas del interior hurgan en la basura buscando comida, registrados en Memoria del saqueo (Fernando Solanas, 2004)? ¿Y cuántas a aquellos que vivían en condiciones de pobreza en los suburbios marginales registrados en Buenos Aires (David José Kohon, 1956) de los indigentes que duermen en las calles de la misma ciudad, cubiertos como amortajados por la sucia ropa de cama, filmados breve pero incisivamente en Adiós a la memoria?

La (in)materia(lidad) de la imagen espectral también atraviesa transformaciones: del cine que −barthesiana o bazinianamente− conserva o preserva al menos un vestigio de los seres (y las cosas) al deep fake, cuyo caso es el de la creación por medio de inteligencia artificial de una imagen basada en datos pero, de hecho, totalmente artificial y que emula la realidad a la perfección. ¿Cómo serán los futuros efectos de extrañamiento que se continúan y amplifican en las imágenes técnicas desde la invención de la fotografía a nuestros días? Durante la restitución de los legajos de los estudiantes desaparecidos durante la última dictadura argentina en la actual Facultad de Artes de la Universidad Nacional de La Plata, por ejemplo, se proyectaron fragmentos de films de manifestaciones políticas que habían sido registrados por el Grupo de Cine Peronista de La Plata en los 70. Un joven que se encontraba en él público identificó en una de las imágenes a su padre desparecido, fue −según dijo− la primera vez en su vida que vio su figura en movimiento (animación de la fotografía). Al mismo tiempo que posamos nuestra mirada en el pasado, la tecnología inventa insólitos futuros cancelados. Recientemente se difundió una pieza audiovisual en el que se recrea por medio de un software al periodista Javier Valdes, asesinado en México, su réplica enlutada se dirige al presidente de ese país exigiendo justicia por su propia muerte y la de muchos otros periodistas asesinados por investigar casos peligrosos vinculados al poder del Estado paralelo dentro del Estado, aduciendo que no puede ser muerto una segunda vez.

Al interior del omnipresente y esquizofrénico flujo de la comunicación, las imágenes revolucionarias se encuentran permanentemente en peligro de ser anuladas, tergiversadas, convertidas para beneficio de cualquier neofascismo. Paralelamente se establece un relativismo de intención falaz que confunde hechos con ficción, inoculando la idea del fin de la verdad, estimulando (algo que excede al fenómeno de) las fake news y triunfando en ese juego peligroso. En este contexto se desarrolla la impune escena de Imagen final, de Habbeger, en la que uno de los soldados involucrados en el asesinato del camarógrafo tiene ante sus ojos las irrefutables imágenes filmadas por Henrichsen y, sin embargo, miente, negando que su patrulla disparara a los civiles. Este proceso irreversible solo en apariencia se relaciona con la aporía planteada en la crítica nietzscheana a la idea de verdad propia de la ciencia positivista. El estado de relativización permanente de todo implica un problema suplementario para el esclarecimiento por parte de la sociedad de los crímenes de lesa humanidad. En este estado de cosas, cuando la información desbocada se polariza, se encapsula, se cuantifica y se dirige por medio de algoritmos, las noticias enviadas desde los países de la región por cineastas que realmente piensan críticamente en aquello que filman y montan son más necesarias que nunca.

Habría que examinar detenidamente cómo se relaciona esto con el hecho de que en todo el mundo proliferan las imágenes de guerra civil o de guerra total con mucha más asiduidad que las imágenes revolucionarias. Cuatreros (Albertina Carri, 2017) expone perfectamente cómo en los años sesenta y setenta se oponían en Argentina dos pedagogías de la imagen: una revolucionaria −perteneciente al cine militante− y una represiva −propia del terrorismo de Estado y la televisión del poder−. Esta última visión prevaleció sin duda, mutando y difundiéndose como un virus que colonizaría las pantallas en todos los rincones del planeta. En comparación con el afán revolucionario del Nuevo Cine Latinoamericano, sobre todo en los planteos de su fase ofensiva, las mencionadas películas contemporáneas parecerán revisionistas. Y, sin embargo, existen gestos resistentes en la intransigencia. Algunos cineastas sostienen aun la consigna enarbolada en su momento por Rodolfo Ortega Peña, también él asesinado (circa. 1974): «La sangre derramada no será negociada». Me matan si no trabajo y si trabajo me matan (Grupo Cine de la Base, 1974), se refiere a este crimen perpetrado por esbirros de la Alianza Anticomunista Argentina (A.A.A.). Titulo lapidario, como tantos nombres de films que en la época hablaban de la América Latina profunda: Revolución (Jorge Sanjinés, 1963), La tierra quema (Gleyzer, 1964), Terra em transe (Glauber Rocha, 1967), Muerte y pueblo (Nemesio Juárez, 1969), por mencionar solo unos pocos. 

Una vez sucedida la aniquilación, disipada la verdad revolucionaria que se creía estaba a punto de fundar un mundo nuevo, se impone en las sociedades la exigencia de memoria, verdad y justicia. Sostener esta otra forma de verdad (evidentemente ligada a nociones tales como las de denuncia y contrainformación) es en ocasiones un acto revolucionario. Carlos Echeverría, uno de los cineastas argentinos más importantes de la democracia filmó siendo muy joven Juan, como si nada hubiera sucedido. Una investigación documental dedicada al caso de Juan Herman, desaparecido en la ciudad de Bariloche durante la última dictadura. De manera comparable a determinados trabajos periodísticos de Rodolfo Walsh que esclarecieron la verdad sobre crímenes ocultados por el Estado argentino, Echeverría desplegó una minuciosa pesquisa por medio de la cual rastreó a los civiles y militares que ejercían cargos jerárquicos en la ciudad durante el tiempo en que fue desaparecido el estudiante. En ocasiones, Echeverría entrevistó a quienes fueron responsables y cómplices del crimen filmándolos de manera inadvertida, sin autorización. El cineasta demostró también la vía muerta de la causa judicial en cuanto al caso, así como el desinterés del periodismo por investigar lo sucedido. La película fue planteada como un debate con el Estado y con la sociedad en un momento histórico en el que nos dirigíamos a la abyección o la amnesia.

 

Adiós al lenguaje (digresión de la digresión)

«[N]o te encuentro,

pero entro en la oscuridad alucinada de imágenes de un cine

que tiene tu nombre».

F. Birri, Por mares nunca d’antes navegados, 1982.

 

Pareciera que en el cine tampoco existen ya querellas entre las vanguardias. Acaso se trate de una cuestión perimida también para este arte. La gran mayoría de directores que hacen cine militante y de intervención política, optan por un lenguaje urgente e inevitablemente condicionado por su público. Mientras que, por su parte, la vanguardia estética por definición revoluciona las formas, socava sus bases, se opone a muerte a sus precursores en busca de lo original histórico (Groys, 2016). La polarización se renueva. Sin embargo, algunos de los cineastas más importantes del continente se movieron felizmente entre ambos mundos: Fernando Birri fue uno de ellos, Glauber Rocha también, al igual que Tomás Gutiérrez Alea, Santiago Álvarez y Raúl Ruiz. Si bien el Nuevo Cine Latinoamericano privilegió ante todo su dimensión político-revolucionaria, una de sus características más sobresalientes fue asimismo su abigarrada coexistencia, su diversidad en la unidad, su internacionalismo. Numerosas polémicas y debates estéticos e ideológicos entre facciones, colectivos cinematográficos, cineastas dentro del continente y hacia el exterior (que han sido investigados de manera específica por los estudios fílmicos) se produjeron durante esos años en los que la revolución parecía una posibilidad próxima. Como ya se dijo, los setenta fueron la tumba de estas ilusiones.

En Todo comenzó por el fin (Luis Ospina, 2015) pueden adivinarse los restos del naufragio en Colombia: «la resaca de Mayo del 68». Esos cineastas que vivieron la utopía según el propio Carlos Mayolo − radicalizan la forma estética y viven en la rumba, pero no como Santiago Álvarez cuya politización radical también pasaba por acrecentar la música sino como una experimentación del exceso: el triunfo de lo contracultural. Caliwood es un nombre con el que resuenan las irónicas palabras de Regis Debray:

«En Francia, los Colón de la modernidad política creyeron que después de La Chinoise de Godard estaban descubriendo China en París, cuando en realidad estaban aterrizando en California». (Jameson, 2014, p. 588)

Incluso si la historia se encargó de demostrarlo, no es seguro que en la actualidad la visión maniquea −perteneciente por igual a las dos vanguardias− que en el pasado negaba gran parte del cine en nombre del cine revolucionario tanto en su variante política como estética este superada, aun cuando no queden ya vanguardias. El pasado también puede conectarse con posibilidades que en su momento no fueron advertidas o se desestimaron. Habría que ver nuevamente el Nuevo Cine Latinoamericano en sus claroscuros, sin fetichizarlo. Esto implica la necesidad de renunciar tanto a la nostalgia como a un cierto triunfalismo acrítico que aún hoy obnubila a los más optimistas. Las palabras de José Martí «Es la hora de los hornos, en que no se ha de ver más que la luz» (1991, p. 275), que inspiraron el nombre del film-acto de Solanas, significativamente pueden aplicarse a una visión actual del progreso, sin revolución, guiada por un deslumbramiento que obtura la historia reciente e ignora las sombras terribles que se ciernen sobre nosotros. Podría contrastarse a aquel cine con la obra de Philip K. Dick, autor estrictamente contemporáneo y seguramente desconocido para esas mil flores surgidas y cada vez más en peligro de desaparecer en la nada, de las que hablaba Julio García Espinosa en su manifiesto «Por un cine imperfecto». Las visiones distópicas de aquel oscuro heraldo contracultural, al contrario de la mayoría de las utopías políticas sesentistas, se acercaron considerablemente a la diana del futuro, si es que no acertaron de lleno en el blanco. Conviene recordar para el presente (y para el futuro) una frase que el escritor arrojara en una conferencia por lo demás esquizoide: «Realidad es eso que, cuando dejas de creer en ello, no desaparece» (Dick, 2007, s/d)

Estamos lejos del cine puño eisensteiniano que golpea los cerebros, de los maoístas puños de La Chinoise (Jean-Luc Godard, 1967) puntuando visualmente la proliferación de proclamas sobre la Revolución Cultural, de los puños levantados en los bailes de los mítines políticos y en las manifestaciones exhibidos en Black Panters (Agnès Varda, 1968). Lejos, en fin, del cine que multiplicaba los puños revolucionarios alzados en revuelta, como en Le fond de l’air est rouge (Chris Marker, 1977). Quizás una de las últimas imágenes revolucionarias transmitidas tanto en oriente como en occidente fue el simple rostro de un hombre que hablaba a cámara en una entrevista. Se trató de las primeras revelaciones de Edward Snowden, grabadas por Laura Poitras a la manera de lo que se conoce como documental de cabezas parlantes, que, sin artilugios formales, antes de ser cine en Citizenfour (2014), fue subida a YouTube; aunque su mensaje acerca de cómo Estados Unidos espía masivamente a la población del mundo no recalara verdaderamente en sus destinatarios, como sí lo hizo en los gobiernos que se valieron de la tecnología instrumentándola contra los ciudadanos. Tales adelantos se difundieron en el momento exacto en que las películas se entremezclaban con el fenómeno de viralización online para convertirse de manera definitiva, un poco más tarde, en VOD (Video on Demand).

¿Qué transformaciones experimentan en la actualidad las imágenes utópicas? Una posible manera de responder a esta pregunta puede encontrarse en la obra de Godard. Al futuro remiten las palabras dichas en su film Notre musique (2004) por Juan Goytisolo     eterno disidente, citadas alguna vez por la cineasta cubana Susana Barriga en una luminosa conferencia sobre los restos en el cine:

«Si nuestra época ha alcanzado una interminable fuerza de destrucción, hay que hacer la revolución que cree una indeterminable fuerza de creación, que fortalezca los recuerdos, que precise los sueños, que corporice las imágenes, que le dé mejor trato a los muertos, que le dé a los efímeros una suntuosa lectura de su transparencia, permitiéndoles a los vivientes una navegación segura y corriente, por ese tenebrario».

Cineasta del futuro, ¿cuántas veces dijo Jean-Luc o J.-L. G. adiós al lenguaje, en los años que separan À bout de soufflé (1959) de Le Livre d’image (2018) y en sus más de doscientas obras audiovisuales? Tan admirada como inimitable, su filmografía continúa inspirando a inmensos cineastas emergentes como lo hiciera con Brian De Palma en los 60/70 [Greetings (1968); Hi, Mom! (1970)]. En Argentina hay un godardiano de la villa: su nombre es César González. Cineasta de inteligencia y sensibilidad desbordantes, no ha dejado de experimentar en ¿Qué puede un cuerpo? (2014), Atenas (2019), Lluvia de jaulas (2020). Su obra es un agujero negro que arrastra hacía sí, con fuerza implacable, la filosofía y la calle, el cine y la cárcel, la poesía y la muerte, la música y la lucha de clases. ¿Qué hay luego del horizonte de sucesos? Una singularidad.

Proyectadas hacia el futuro, las obras de estos cineastas vuelven sobre la cuestión de la innovación (más que renovación) radical que supone el término de revolución. Como excepción, surgirán en los lugares más impensados películas incandescentes que aviven la llama de la revolución. Para finalizar, citaré las siguientes tesis del molecular colectivo de distribución de films políticos Extreme Low Frecuency, que reverberan en términos conceptuales con la revuelta de sonidos, imágenes e ideas creada en Le Livre de image:

«El nuevo cine no se interesa en los debates tecnológicos, en particular los antagonismos de lo analógico contra lo digital. Utiliza sin prejuicios todas las herramientas que tiene a su alcance. [...] El nuevo cine solo puede existir en un estado tan (in)acabado e (in)completo como el mundo que pretende reflejar y enfrentar. [...] El nuevo cine se niega a reconocer las fronteras nacionales. No se identifica ni con la ficción ni con el documental. De igual modo, tampoco se interesa en el género, que solo es útil para los agentes del comercio. [...] El nuevo cine se esforzará por devolver la cultura popular a la propia gente. Por encima de todo: mientras se estudia lo viejo: crear lo nuevo». (Jonathan Rosenbaum, 2018, p. 33)

 

Referencias

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Bolaño, Roberto. Amuleto. Barcelona, Anagrama, 1999.

Dick, Philip. K. “Cómo Construir un Universo Que no se Derrumbe Dos Días Después”, 2007. Recuperado de https://unclarodelbosque.blogspot.com/2007/08/philip-k-dick-cmo-construir-un-universo.html?fbclid=IwAR3ED-5MXr-6xyO26fsbzsUDAAl6yCcstFtB0CJ1qhPz4XGy9MtDdmPy98A.  

García Espinosa, Julio. “Por un cine imperfecto”. La doble moral del cine. Santafé de Bogotá: Editorial Voluntad, 1995. 11-30.

Groys, Boris. “Modernidad y Contemporaneidad: reproducción mecánica vs. digital”. Arte en Flujo. Ensayos sobre la evanescencia del presente. Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Caja Negra, 2016.

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Jameson, Fredric. “Periodizar los 60”. Las ideologías de la teoría. Buenos Aires: Eterna Cadencia Editora, 2014. 575-611.

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Pavese, Cesare. “Vendrá la muerte y tendrá tus ojos”, 2017. Recuperado de https://www.eternacadencia.com.ar/blog/libreria/poesia/item/vendra-la-muerte-y-tendra-tus-ojos.html

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