«Che mai sarà una vasca di sangue
In comparazione a quelle che dovranno ancora scorrere?»
J.-P. Marat, in Marat/Sade
«Adesso io vedo
Dove ci conduce
Questa rivoluzione»
D.A.F de Sade, in Marat/Sade
Quando si pensa ai possibili collegamenti tra cinema e rivoluzione, il caso Marat/Sade sembra imporsi fin da subito per la tematica e i problemi che solleva: mette in scena, in modo oscuro e particolarmente denso, la storia, i personaggi e l'immaginario che circonda la Rivoluzione Francese. Lo fa attraverso il confronto immaginario fra due figure estreme: quella dello scienziato, medico, giornalista e rivoluzionario Jean-Paul Marat da un lato, e quella dell'aristocratico, filosofo, scrittore e drammaturgo Donatien Alphonse François, marchese de Sade, dall'altro.
Si tratta di uno strano incontro, mediato dalla teatralità e dalla follia, le cui ragioni e passioni ultime sono insondabili. Non ci concentreremo, in questo articolo, sulla pièce originaria del tedesco Peter Weiss, che ambientò questo incontro immaginario nel manicomio di Charenton, dove Sade venne recluso negli ultimi tredici anni della sua vita. In quell'ospizio il marchese scrisse e recitò diversi pezzi teatrali, andati tutti perduti, e non c'è traccia che in qualcuno di essi si fosse occupato di Marat. Weiss ha reso comunque possibile il confronto tra Marat e Sade, molto tempo dopo la morte del primo nella sua vasca da bagno medicinale pugnalato da Charlotte Corday, trasformandolo nel personaggio di una presunta commedia di Sade, interpretata dai detenuti di Charenton. Ed è così che Sade può affrontare Marat o, meglio, sfidare il suo fantasma, incarnato da uno dei detenuti dell'ospizio. Il dispositivo ideato da Weiss, che era pittore, scrittore, drammaturgo e regista sperimentale, è stato comunemente considerato "teatro nel teatro". Il suo intreccio di rappresentazioni, l'una dentro l'altra, è di per sé abissale, nella misura in cui Sade ribatte alle argomentazioni di Marat enunciate da un internato del manicomio.
Argomenti, invece, che si può supporre siano stati scritti dallo stesso marchese per l'opera, il che colloca l'enunciazione in uno statuto equivoco: chi parla? di cosa parla? che senso dare a ciò che viene detto? È il popolo o sono i detenuti quelli che chiedono gridando la loro libertà? O forse non è lo stesso? Dove finisce il teatro e inizia la follia? Rappresentato in teatro, lo spettacolo è ancora più intricato nei suoi diversi livelli drammatici: attori, alcuni dei quali sono veri psicotici ma non per questo abbandonano la loro condizione attoriale, rappresentano malati di mente che sono a loro volta attori di un’opera installata dentro quella precedente. Sarebbe rassicurante pensare a un oggetto nello stile delle scatole cinesi, fino al momento in cui il sistema di inclusione progressiva esplode, l'interno diventa un esterno, e ogni ordine, non solo quello delle rappresentazioni drammatiche ma quello della sicurezza dello spettatore, vacilla. Ci perdonerete se ci siamo intrattenuti così tanto sul Marat/Sade di Peter Weiss. Non è nostra intenzione soffermarci in dettaglio sugli intricati meccanismi testuali di un'opera che, va notato, venne giudicata (quando fu data alle stampe) da una certa critica teatrale come incapace di soddisfare i requisiti previsti dal teatro di testo tradizionale.
D'accordo, la coerenza delle sue argomentazioni e la sua presa di posizione non erano molto adatte per qualificarlo come pièce a tesi. E la psicologia delle sue creature immaginarie era un poco inconsistente per presentare personaggi memorabili. Nonostante questo, negli accorgimenti che Weiss ha messo in atto all'interno del suo testo, le mutevoli procedure drammatiche, i segnali visivi e le risorse sceniche previste hanno sollecitato una messa in scena in cui l'azione fisica e le variazioni visive dello spettacolo scandivano e problematizzavano il testo dei personaggi. Per dare forma a una pièce di esemplare rarità, l'autore ha affermato di aver cercato consapevolmente di combinare le due correnti di pensiero centrali per l'innovazione scenica nel XX secolo: il teatro epico di Bertolt Brecht e il teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Ed è qui, ancora nel terreno teatrale, che il drammaturgo e regista britannico Peter Brook entrò in azione. E lo fece non girando subito un film basato sull'opera drammatica, ma montando uno teatrale spettacolo a Londra con una messa in scena che era, a sua volta, rivoluzionaria.
In quanto opera in transito, le basi del Marat/Sade non vanno ricercate né nell'opera teatrale omonima scritta da Peter Weiss nel 1963, né tantomeno nel film realizzato da Brook nel 1967, ma nei suoi stati mutevoli e nella sua poetica in tensione. In quanto film, non si emancipa dal teatro, ma costruisce una sua propria forma, installandosi in un ambiente interstiziale, rilanciando ed esaminando le distanze dalla scena. Nel corso della sua storia, come testimoniano casi come quelli di Vertov o Bresson, il cinema ha intrapreso una radicale separazione poetica dal teatro. In altre occasioni (Welles, Bergman, Rivette, Cassavetes, tra le altre) il cinema ha fondato il suo potere sulla prossimità, l’articolazioni e gli interstizi tra schermo e scena. Il caso di Marat/Sade è un esempio culminante non solo di quel dialogo intimo tra teatro e cinema, ma anche di quella condizione del cinema che André Bazin chiamava arte impura. E lo fa gridando la sua impurità in un modo difficile da eguagliare, in quanto evoca non solo l'incontro tra un'opera drammatica e un film, ma anche fra linee di pensiero diverse di teatro e cinema. Dal vortice del film di Brook emerge un rapporto ancora più complesso tra cinema e rivoluzione, che porta Sade, Weiss, nonché due grandi referenti del pensiero teatrale del Novecento, Brecht e Artaud, a convergere in un film unico nella sua categoria. In esso cinema e rivoluzione si intersecano non solo nei termini di tematizzazione e rappresentazione, ma anche sul piano di una vera rivolta dei linguaggi, o in altro senso, nel confronto tra diversi linguaggi artistici trasformati in cinema.
Marat/Sade si erige come un artefatto che fa esplodere le convenzionali relazioni di prossimità tra cinema e teatro per proporre una loro interrogazione mutua, nel quadro di una strategia che può essere definita violentemente rivoluzionaria. La messa in scena teatrale e quella cinematografica finiscono così per intersecarsi e interrogarsi reciprocamente, insieme alla scena politica in cui l'arte e le sue forme precipitano. Entriamo quindi più nel dettaglio dentro questa zona lasciata aperta da Marat/Sade, che invoca una rivoluzione che riguarda non solo le dimensioni politiche di cinema e teatro, ma anche la politica del teatrale e del cinematografico, da una prospettiva che non si riferisce alla rivoluzione, ma piuttosto la mette in atto nella sua stessa forma e struttura. Marat/Sade, o meglio, secondo il suo titolo completo, La persecuzione e l'assassinio di Jean-Paul Marat, interpretato dal gruppo teatrale della casa cura di Charenton sotto la direzione di M. de Sade, fu in primo luogo, come si è detto, un'opera di Peter Weiss, della quale l’autore scrisse cinque versioni. La storia teatrale di Marat/Sade è ben nota, ampia e preliminare all'argomento che qui ci interessa, sebbene contenga alcuni elementi importanti. Scritta originariamente in tedesco, fu presentata per la prima volta il 29 aprile 1964 allo Schillertheater di Berlino, sotto la direzione di Konrad Swinarski, con un'accoglienza positiva ma in certo modo limitata.
Nello stesso anno Peter Brook lo mise in scena a Londra, con il Royal Shakespeare Theatre. L'impatto devastante di quella messa in scena fu una delle pietre miliari teatrali del decennio: presto le rappresentazioni di Marat/Sade si moltiplicarono su scala globale, e continuano fino ai giorni nostri. Pochi anni dopo averlo messo in scena in teatro, Brook è passato da metteur-en-scène a regista cinematografico: con lo stesso titolo e, salvo eccezioni, con gli stessi attori del Royal Shakespeare, ha girato il suo Marat/Sade come lungometraggio nel 1966. Da quel momento in poi, ogni menzione di questo titolo deve specificare se si tratta dell'opera scritta da Weiss, di una delle sue tante messe in scena o del film diretto da Brook.
Esistenza multipla sotto lo stesso nome come attesta anche il titolo, scritto in modo variabile: a volte, come lo facciamo qui, attraverso una presentazione avversativa per mezzo della barra: Marat/Sade. Altre volte, con la continuità suggerita da un trattino: Marat-Sade, e in altre ancora con la connivenza suggerita da un curioso cognome composto: Marat Sade. In un modo o nell'altro viene designata così un'entità tanto anomala quanto inequivocabilmente connessa alla rivoluzione: da un lato l'asceta ed idealista estremo, malato oscuro e vittima della cospirazione girondina, e il nichilista libertino, teorico e promotore di un ordine del desiderio basato nella rivincita reciproca dei corpi, dall'altro. L'opera teatrale e il film sono conosciuti, sin dall'inizio della loro messa in circolazione, con quel nome breve e bifronte, dove la duplicità è uno dei tratti salienti. Ma questa condizione può essere considerata solo superficialmente un mero gioco a due, così come il teatrale Marat/Sade non si confronta letteralmente con la sua versione cinematografica. Non è né un adattamento, come vuole il vocabolario tradizionale più addomesticato, né una trasposizione convenzionale, come la tradizione semiotica usava dire qualche decennio fa. Niente qui si adatta a uno stampo preliminare, né viene trasposto un determinato contenuto da uno spazio all'altro. Ciò che viene messo sulla scena (teatrale, cinematografica o in una zona che scambia continuamente il suo luogo di identità e appartenenza) è un richiamo alla rivolta dei linguaggi artistici, dove il combattimento tra le sue due figure centrali è già materia topologica e quasi una metonimia delle opere in questione.
Marat/Sade non ha esattamente un principio, ma ne possiede due simultanei, quando il film (come accadeva nell'opera teatrale) inizia nei bagni del manicomio di Charenton e assistiamo all'inizio di uno spettacolo teatrale. Veniamo introdotti in uno spazio inquietante, che rievoca il famoso ospizio che, già ai tempi in cui Sade era un internato, condannato per reati sessuali, aveva liberato i malati dalle catene tradizionali, sostituendole con camicie di forza. Liberati, anche se apparentemente non tutti, o non del tutto, come si può vedere in un piano rivelatore del film in cui l'organista dell'opera viene mostrato incatenato al suo strumento, i pazienti vagano, si agitano, si dimenano in un angolo o corrono in modo incontrollabile per la struttura di detenzione. Il governo francese aveva rilevato Charenton nel 1795, e il suo direttore, desideroso di progresso e della possibilità di entrare nell'élite parigina, aveva progettato un ciclo di spettacoli teatrali che, come un “programma morale”, avrebbe accompagnato le sessioni di idroterapia, e per questo sancì un curioso contratto con il suo aristocratico paziente. La scena si apre nei bagni: nei primi dell'Ottocento l'idroterapia era una vera e propria protagonista delle cure lenitive. Bagni improvvisi nell'acqua ghiacciata funzionavano in un senso tanto brutalmente fisico quanto metaforico, per spazzare via l'impurità dello spirito della malattia mentale. Ma anche il folle offriva il suo spettacolo: il teatro veniva in aiuto della follia, così come quest’ultima si apprestava a esercitare la sua quota di teatralità, non senza rischi di esplosione.
In una grande stanza dominata dalle sue vasche terapeutiche e concentriche, radiali, come un'evocazione idraulica del panopticon di Bentham, gli internati si preparano a rappresentare la persecuzione e la morte di Marat, secondo l'immaginazione di Sade, con al centro quella morte di intensa teatralità mediante accoltellamento, e con l'emorragia del rivoluzionario nella sua vasca da bagno. Oltre ad essere sorvegliati, tutti i detenuti vengono sistematicamente bagnati con l'impeto di un'idroterapia presumibilmente pacificante. Ma sebbene il controllo da parte dello sguardo vigilante non si detenga, l'ordine di Charenton è più aduso al suo mantenimento per mezzo dei veloci manganelli che i guardiani religiosi nascondono tra le loro vesti. “Siamo moderni”, spiega il direttore Coulmier nella sequenza di apertura, accompagnato dalla moglie e dalla figlia nello stesso spazio in cui sono rannicchiati gli internati dell'ospizio. Lo spettacolo si svolge nel 1808, sono passati dieci anni e mezzo dalla morte di Marat e il regno del Terrore è stato superato. Si afferma una forma di modernità compulsiva, ma questa stabilizzazione è andata di pari passo con l'istituzione di un regime in cui si affaccia l'ordine imperiale. In questo modo, la doppia apertura dispiega, in uno spazio che sarà scrutato da ogni angolazione e distanza, uno scenario di eventi che vanno dall'accumularsi delle tensioni fino alla rivolta e allo scoppio finale.
Un'idea fondamentale nel testo e nella messa in scena di Marat/Sade, che attraversa sia l'opera di Weiss che il film di Brook, è che non si tratta di “rappresentare” la rivoluzione, ma di “produrre” una rivoluzione in atto. Così come molto più tardi Francis Ford Coppola assicurava che il suo Apocalypse Now non era un film sul Vietnam ma che era il Vietnam, ossia un film capace di installare al suo stesso interno un conflitto segnato dalla dismisura e dall'insolubile, si potrebbe sostenere che Marat/Sade non è un’opera sulla rivoluzione, ma produce la sua rivoluzione. È come un reattore nucleare che fonde le sue particelle e rilascia energie che in ogni momento minacciano una catastrofe. Ma in questa dinamica di contenimento ed esplosione, il film dispiega un lato stranamente riflessivo, nonostante questa riflessività sia unita con l'inquietudine e il disagio. Ancora più insolito è il modo in cui sviluppa questa possibilità di mostrare la sua parte di pensiero nel bel mezzo della clamorosa liberazione dei corpi sullo schermo e dei materiali e dei procedimenti che riproducono lo scatenamento più violento. Dopo più di mezzo secolo è diventato un luogo comune sottolineare come Marat/Sade unisca l'eredità di Artaud con quella di Brecht.
A questa doppia stirpe novecentesca si deve senz'altro aggiungere la tradizione della tragedia greca con il coro, sicuramente rivisitato in chiave brechtiana. E a tutto questo va aggiunto come Peter Brook, già nella sua messa in scena teatrale, aveva incorporato elementi legati al laboratorio di Jerzy Grotowski e alla sua esplorazione dell'azione scenica come istanza fondamentale. Il film Marat/Sade è una cassa di risonanza di tutti questi elementi eterogenei. I suoi accordi esplosivi, le sue dissonanze, indicano una battaglia di linguaggi tra le arti dello spettacolo, della performance, del cinema e delle arti visive, in cui nulla rimane esattamente in piedi, ma piuttosto ogni regime, messa da parte ogni pretesa di stabilità, si trasforma e muta in un movimento vertiginoso.
Gilles Deleuze ricordava, in un passaggio assai citato da L'Immagine-Tempo, il vecchio monito di Artaud: il cinema della crudeltà non raccontava una storia, ma sviluppava una serie di stati dello spirito. Questi venivano dedotti l'uno dall'altro, come accade con i pensieri. Marat/Sade sposta l'organizzazione narrativa dentro un sistema di attrazioni dove frammenti drammatici, pezzi cantati, la partecipazione del coro, i commenti, sono giustapposti in un montaggio dove predominano bruschi cambiamenti di registro, suscitando quei vari stati dello spirito reclamati da Artaud. La maggior parte dei personaggi recita in modo versificato o canta. Sade e Marat, invece, preferiscono la prosa: ma si tratta di una prosa chiusa in sé stessa. In un saggio scritto nel 1965, sotto l'impatto della messa in scena teatrale di Brook, Susan Sontag confrontò ciò che aveva provato durante una rappresentazione del Marat/Sade con una pratica artistica che era molto popolare in quel momento, l'happening, evidenziando lo spostamento operante in attività siffatte, spesso interpretate da professionisti non del teatro ma delle arti visive o della musica.
Pochi anni dopo avrebbe sicuramente avvicinato quell'esperienza alla ascendente performance e alla sua crescente centralità nell'arte contemporanea: il Marat/Sade, sia nella messa in scena di Brook, sia nella sua forma filmica, sono infatti estremamente performativi. È infatti attraverso l'azione performativa che entrambi vengono riscritti, dal testo alla scena e da lì allo schermo. E ciascuno attraverso la messa in tensione e in rivolta del suo stato precedente. Nel lungometraggio, sebbene alcune procedure di recitazione, disposizione spaziale e di oggetti, vengano mantenute, la manipolazione del punto di vista e del piano, la messa a fuoco della cinepresa, i bordi dell'inquadratura, la composizione e il colore non solo entrano in un'organizzazione cinematografica altamente cosciente, paragonabile a quella di alcune esperienze vicine a quelle del Godard di quegli anni, ma invocano un loro rapporto con la pittura e l'arte sonora. Nella disgiunzione tra ciò che si vede e si sente, nell'ambiguità tra il plastico, il figurativo e la rappresentazione, Marat/Sade costruisce non poco del suo potere.
Il lavoro di Weiss presentava già nella sua forma scritta un'operazione complessa che poteva essere designata solo superficialmente come teatro nel teatro. In un certo senso, c’era anche nel testo pubblicato una sorta di cinema all'interno del teatro. Ma senza la precisione che gli può conferire un contenitore adeguato al contenuto. Quello che aveva luogo era piuttosto un gioco di attrito tra pezzi in conflitto, uno scontro di specchi distorti, in cui un dialogo di tipo intellettuale portava a un balbettio tra corpi e fantasmi attraverso strati finzionali. Quei fantasmi, temporaneamente esteriorizzati attraverso attori e personaggi, non erano altri che quelli di una rivoluzione diventata presto un regime di stato. Il nuovo sistema infatti, facendo appello alla rivoluzione consacrata e trionfante, si cristallizzò in un ordine in cui i rivoluzionari di una volta, diventati funzionari, prepararono le basi di un impero nascente. Ma dal Marat/Sade di Weiss al Marat/Sade di Brook l'operazione è diventata ancora più complessa. Dal testo drammatico alla sua messa in scena teatrale da parte del britannico, e da lì al cinema, non solo è avvenuto lo spostamento del nucleo centrale dell'opera dall'autore della sua forma scritta alla messa in scena ma anche l'installarsi di un'altra forma di scrittura.
In breve: insediando una rivoluzione all'interno dei diversi modi di esistenza di Marat/Sade che cortocircuitano la sua stessa paternità, nel film non opera più il Peter Brook regista teatrale al Royal Shakespeare Theatre, ma un regista di cinema che va oltre il compito tradizionale e obbediente di filmare un'opera teatrale. Il viaggio da Weiss a Brook insemina nella pièce uno stato di rivolta permanente, che la fa esplodere dall'interno. Risulta prodigioso come, nonostante i testi di Weiss siano preservati letteralmente nel film, tutta l’operazione di messa in scena cinematografica li relativizza e li mette all'angolo. Già nella messa in scena teatrale di Brook, ha puntualizzato Sontag, non solo il testo drammatico sembrava sopraffatto dall'irruenza dell'azione fisica in scena, rispondendo alle esigenze di Artaud, ma le idee espresse erano date come una fuga irrisolta e non come argomenti da trasmettere allo spettatore. Si trattava di una macchina contro il teatro e contro il film di tesi: più che presentare idee, la missione di Marat/Sade era sommergere lo spettatore in esse. Si potrebbe aggiungere che una simile immersione dovrebbe essere pensata in termini vicini all'inquietante idroterapia di Charenton.
Lo stesso ammutinamento o il grido dei corpi, il loro arresto fisico (una vera specialità di Brook, come quella del confronto dello spettatore con l'invisibile e l'indicibile) tanto chiede a gran voce una lettura quanto sfida ogni possibile verbalizzazione e ogni convenzione dei linguaggi corporei codificati. Rimangono i soggetti slegati, non trattenuti, anche quando vengono inseguiti a manganellate. Le urla e i gemiti, i colpi e la confusione tra gli spazi oppressivi e gli oggetti posti lì a rompersi non sono un elemento aggiuntivo, ma piuttosto materiali che competono in protagonismo con il testo parlato. In definitiva, si tratta di attivare sullo schermo una rivoluzione dai contorni inquietanti, il cui motore è tanto radicalizzato quanto estraneo ad una formulazione razionale, poiché si fonda su una rivolta oscura che resiste a qualsiasi teoria rivoluzionaria. In termini performativi, Marat/Sade registra alcune forme cruciali in cui il sogno della rivoluzione genera mostri. I suoi dispositivi in perenne rivolta li eccitano, li smascherano e, lungi dal tentare di domarli, incoraggiano lo spettatore a evocarli.
Trad. Giovanni Festa
TESTO ORIGINALE
"Marat/Sade" de Peter Brook: monstruos del sueño revolucionario
«¿Y qué es una bañera de sangre
en comparación con toda la que tiene que correr aún?»
Jean-Paul Marat, en Marat/Sade
«...ahora yo veo
a dónde conduce
esta revolución»
Donatien Alphonse François de Sade, en Marat/Sade
Al pensar en las articulaciones posibles entre cine y revolución, el caso de Marat/Sade parece imponerse, en principio, por su tema y el planteo de sus problemas: pone en escena, de un modo oscuro y particularmente espeso, la historia, los personajes y el imaginario que rodean a la Revolución Francesa. Lo hace a partir de una confrontación ficcional de dos figuras extremas: la del científico, médico, periodista y revolucionario Jean-Paul Marat, por una parte, y la del aristócrata, filósofo, escritor y dramaturgo Donatien Alphonse François, Marqués de Sade, por la otra. Ambos mantienen un encuentro extraño, mediado por la teatralidad y la locura, cuyas razones y pasiones últimas son insondables. No nos centraremos en este artículo en la pieza original del alemán Peter Weiss, quien localizó este encuentro imaginario en el asilo de Charenton, donde Sade fue recluído durante los últimos trece años de su vida. En ese hospicio escribió y representó varias piezas teatrales, todas perdidas, y no hay constancia de que en alguna de ella se ocupara de Marat. Pero Weiss hizo posible el enfrentamiento entre Marat y Sade, mucho después de que el primero muriera en su bañera medicinal apuñalado por Charlotte Corday, convirtiéndolo en en personaje de una presunta obra de Sade, representada por los internos de Charenton. Así es como Sade puede enfrentar a Marat o, más bien interpelar a su fantasma, encarnado por uno de los internos del hospicio. El dispositivo ideado por Weiss, quien fue pintor, escritor, dramaturgo y cineasta experimental, ha sido comúnmente considerado como “teatro dentro del teatro”.
Su encastre de representaciones, una dentro de otra, es de por sí abismal, en la medida en que Sade enfrenta los argumentos de Marat enunciados por un interno del asilo. Argumentos, por otra parte, que cabe suponer han sido escritos por el mismo marqués para la obra, lo que localiza a la enunciación en un estatuto equívoco: ¿quién habla? ¿de qué habla? ¿qué sentido otorgar a lo que allí se dice? ¿Es el pueblo o los internos los que gritan por su libertad? ¿o es que serán lo mismo? ¿dónde termina el teatro y comienza la locura? Representada en escena, la obra es aún más intrincada en sus distintos niveles dramáticos: actores de teatro, entre los cuales algunos son verdaderos psicóticos pero no por eso abandonan su condición actoral, representan a enfermos mentales que a su vez son actores de una obra dentro de la anterior. Sería tranquilizador pensar en un objeto al estilo de cajas chinas, hasta el momento en que el sistema de inclusión progresiva estalla, el adentro se convierte en un afuera, y todo orden, no solo el de las representaciones dramáticas sino el de la seguridad del espectador, vacila.
Se nos disculpará si hasta aquí nos demoramos en el Marat/Sade de Peter Weiss. No es nuestra intención extendernos detalladamente en los intrincados mecanismos textuales de la obra teatral que, cabe resaltar, ha sido observada en sus primeros años por cierta crítica dramática, por no cumplir con los requisitos esperables del teatro de texto tradicional. De acuerdo la consistencia de sus argumentos y su toma de posición no era muy apta para calificar como pieza de tesis. Y por la psicología de sus criaturas ficcionales era un tanto inconsistente para presentar memorables personajes. Por lo contrario, en los recursos que Weiss puso en marcha dentro de la misma pieza escrita, los procedimientos dramáticos cambiantes, las indicaciones visuales y los recursos escénicos previstos instaban a una puesta en escena donde la acción física y las variaciones visuales del espectáculo escandían y problematizaban el texto de los personajes. Para dar forma a una pieza de rareza ejemplar, el autor afirmó que había intentado concientemente combinar las dos corrientes centrales del pensamiento de la innovación escénica en el siglo veinte: el teatro épico de Bertolt Brecht y el teatro de la crueldad de Antonin Artaud. Y es aquí, aún en el terreno teatral, donde entró en escena el dramaturgo y cineasta británico Peter Brook. Lo hizo en un primer momento, no a través de la realización de una película a partir de la obra dramática, sino montando la obra en Londres con una puesta que fue, a su vez, revolucionaria.
Como obra en tránsito, Marat/Sade no sienta sus bases en la pieza teatral que con ese título escribió Peter Weiss en 1963, ni en la presunta autonomía del film realizado por Brook en 1967, sino en sus estados cambiantes y sus poéticas en tensión. Como película, no se emancipa del teatro, sino que construye su propia forma, instalándose en un ámbito intersticial, remitiendo y examinando las distancias tomadas respecto de la escena. A lo largo de la historia del cine, como lo demuestran casos como los Vertov o Bresson, el cine ha emprendido radicales poéticas de separación respecto del teatro. En otras ocasiones (Welles, Bergman, Rivette, Cassavetes, entre otros) el cine ha fundado su poder en las proximidades, en las junturas y distancias entre pantalla y escena. El caso de Marat/Sade es un ejemplo culminante no solamente de ese diálogo íntimo entre teatro y cine, sino también de aquella condición del cine que André Bazin denominó como arte impuro. Y lo hace gritando su impureza de un modo difícilmente igualado, en la medida en que no solamente convoca al encuentro entre una pieza dramática y una película, sino a diversas líneas de pensamiento sobre el teatro y el cine.
Desde el vórtice del film de Brook asoma una relación entre cine y revolución más compleja aún, que toma a Sade, a Weiss, así como también a dos referentes mayores del pensamiento teatral en el siglo veinte, Brecht y Artaud, para converger en una película única en su categoría. En ella, cine y revolución se intersectan no solamente en cuanto a la tematización y las representaciones en juego, sino también en el plano de una verdadera revuelta de lenguajes, o en otro sentido, en el enfrentamiento entre diversos lenguajes artísticos devenidos en cine. Marat/Sade se erige como un artefacto que hace estallar las convencionales relaciones de proximidad entre cine y teatro para proponer su interrogación mutua, en el marco de una estrategia que cabe calificar como violentamente revolucionaria. Allí se intersectan y cuestionan mutuamente la puesta en escena teatral, la cinematográfica y también la escena política de la que el arte y sus formas toman parte. Entremos entonces más en detalle en esta zona abierta por Marat/Sade, que convoca a una revolución que atañe a las dimensiones políticas, no solo tratadas por el cine y del teatro, sino a las políticas de lo teatral y cinematográfico, desde una perspectiva que no se refiere a la revolución sino que la pone en acto, en su misma forma y estructura.
Marat/Sade, o más bien según su título completo, Persecución y asesinato de Jean-Paul Marat, representado por el grupo teatral de la casa de Charenton bajo la dirección del señor de Sade, fue en primer término una obra de Peter Weiss, de la que llegaría a escribir cinco versiones. La historia teatral de Marat/Sade es muy conocida, extensa y preliminar al asunto que aquí nos ocupa, aunque contiene algunos elementos de importante mención. Escrita originalmente en alemán, fue presentada por primera vez el 29 de abril de 1964 en el Schillertheater de Berlín, con la dirección de Konrad Swinarski, con una recepción positiva pero en cierto modo acotada. En ese mismo año, Peter Brook la puso en escena en Londres, con el Royal Shakespeare Theatre. El impacto arrasador de esa puesta fue uno de los hitos teatrales de la década: pronto las representaciones de Marat/Sade se multiplicaron a escala global, y continúan hasta el presente. Unos pocos años después de montarla en el teatro, Brook pasó, en relación a esta obra, de metteur-en-scène a cineasta: con el mismo título y, salvo excepciones, con los mismos actores de la Royal Shakespeare, filmó su Marat/Sade como largometraje en 1966. A partir de allí, cualquier mención a este título debe precisar si se trata de la obra escrita por Weiss, de alguna de sus numerosos montajes en escena o del film dirigido por Brook.
Múltiple existencia bajo un mismo nombre, por otra parte escrito en forma variable, a veces, como lo consignamos aquí, mediante una presentación adversativa por medio de la barra: Marat/Sade. Otras veces se muestra con la continuidad que sugiere un guion: Marat-Sade, y en otras con la convivencia que sugiere un curioso apellido compuesto: Marat Sade. De una forma u otra se designa una entidad tan anómala como inequívocamente conectada con la revolución: por un lado el idealista ascético y extremo, oscuro enfermo y víctima de la conspiración girondina, y el nihilista libertino, teórico y promotor de un orden del deseo basado en el mutuo desquite de los cuerpos, por el otro. La obra teatral y el film son conocidas, desde el inicio de su circulación, por ese nombre breve y bifronte, donde la duplicidad es uno de sus signos resaltantes.
Pero esta condición sólo superficialmente puede considerarse un mero juego de dos, así como el Marat/Sade teatral no se confronta de manera literal con su versión cinematográfica. Ni es una adaptación, como quiere el domesticador vocabulario tradicional, ni una transposición convencional, como acostumbraba designar hace unas décadas la tradición semiótica. Nada aquí se adapta a un molde preliminar, ni se transpone llevando un determinado contenido de un espacio a otro. Lo que se pone en escena (teatral, cinematográfica, o en una zona que intercambia su identidad y pertenencia) es un llamado a la revuelta de lenguajes artísticos, donde el combate que entablan sus dos figuras centrales ya es todo un asunto topológico y casi una metonimia de las obras en cuestión.
Marat/Sade no posee exactamente un inicio, sino dos en simultáneo, cuando el film (como ocurría en la obra teatral) comienza en los baños del asilo de Charenton y asistimos al inicio de una representación teatral. Ingresamos en un espacio perturbador, que evoca al célebre hospicio que, ya en los tiempos en que tuvo a Sade como interno, condenado por delitos sexuales, había liberado a los enfermos de las tradicionales cadenas, reemplazándolos por chalecos de fuerza. Liberados, aunque aparentemente no todos, o no del todo, como puede apreciarse en un revelador plano del film donde el organista de la obra se muestra encadenado a su instrumento. Los pacientes deambulan, se agitan, se retuercen en algún rincón o corren descontroladamente por las instalaciones. El gobierno francés se había hecho cargo de Charenton en 1795, y su director, ávido de progreso y posibilidades de ingreso a la élite parisina, había diseñado un ciclo de representaciones teatrales que en tanto “programa moral” acompañaba a las sesiones de hidroterapia, elaboró un curioso contrato con su aristocrático paciente. La escena se abre en los baños: en los inicios del siglo XIX la hidroterapia era una verdadera estrella de los tratamientos tranquilizadores. Baños repentinos en agua helada funcionaban en sentido tan brutalmente físico como metafórico, para barrer con la impureza de espíritu de la enfermedad mental. Pero el loco también ofrecía su espectáculo: el teatro iba en ayuda de la locura, así como ésta se disponía a ejercer su cuota de teatralidad, no sin riesgos de estallido.
En una gran sala dominada por sus bañeras terapéuticas y concéntricas, radiales, como una evocación hidráulica del panóptico de Bentham, los internos se disponen a representar la persecución y muerte de Marat, de acuerdo a la imaginación de Sade, con el centro en esa muerte de intensa teatralidad, mediante el apuñalamiento y desangrado del revolucionario en su bañera. Además de vigilados, todos los internos son bañados sistemáticamente con el ímpetu de la hidroterapia presuntamente pacificadora. Pero si bien el control por la mirada vigilante no se detiene, el orden de Charenton es más afecto a su mantenimiento por medio de las veloces cachiporras que entre sus túnicas esconden las guardianas religiosas. “Somos modernos” , explica el director Coulmier en la secuencia inicial, acompañado por su esposa e hija en el mismo espacio en que se apiñan los internos del hospicio. La obra tiene lugar en 1808, una década y media han transcurrido desde la muerte de Marat y el Reino del Terror ha sido superado. Se afirma una forma de modernidad compulsiva, pero esa estabilización ha corrido a la par de la instauración de un régimen en el que asoma el orden imperial. De esa manera, la doble apertura despliega, en un espacio que será escrutado desde todo tipo de ángulos y distancias, un escenario de acontecimientos que van desde la acumulación de tensiones hacia la sublevación y el estallido final
Una idea fundamental en el texto y la puesta en escena de Marat/Sade, que atraviesan la obra de Weiss y la película de Brook, es que se trata no de representar la revolución, sino de producir una revolución en acto. Así como mucho más tarde Francis Ford Coppola aseguraba que su Apocalypse Now no era una película sobre Vietnam sino que era Vietnam, un film que instalaba en su mismo interior un conflicto signado por la desmesura y lo insoluble, podría afirmarse que Marat/Sade no versa sobre la revolución, sino que produce su revolución propia. Es como un reactor nuclear fusionando sus partículas y liberando una energía que a cada momento amenaza con la catástrofe. Pero en esa dinámica de contención y explosión la película despliega un costado extrañamente reflexivo, aunque de una reflexividad aunada al desasosiego. Más insólito aún es cómo desarrolla esa posibilidad de desplegar su cuota de pensamiento en medio de la liberación estrepitosa de los cuerpos en pantalla y de los materiales y procedimientos que juegan al más violento desencadenamiento.
Luego de más de medio siglo se ha convertido en un lugar común el resaltar que Marat/Sade combina el legado de Artaud y Brecht. A este doble linaje proveniente del siglo XX hay que agregarle sin duda la tradición de la tragedia griega con sus coros, por cierto revisados en clave brechtiana. Pero a ello conviene agregar que Peter Brook, ya en su puesta teatral, había incorporado elementos que se conectaban con el laboratorio de Jerzy Grotowski y su exploración de la acción escénica como instancia fundacional. El film Marat/Sade es caja de resonancias de todos esos elementos. Sus acordes explosivos, sus disonancias, apuntan a una batalla de lenguajes entre las artes del espectáculo, la performance, el cine y las artes visuales, en las que nada queda exactamente en pie, sino que todo régimen, apartado de cualquier pretensión de estabilidad, gira y muta en movimiento vertiginoso.
Gilles Deleuze recordaba, en un citado pasaje de La imagen-tiempo, la vieja advertencia de Artaud: el cine de la crueldad no contaba una historia, sino que desarrollaba una serie de estados de espíritu. Éstos se deducían unos de otros, como ocurría con los pensamientos. Marat/Sade desplaza la organización narrativa en beneficio de un sistema de atracciones donde los fragmentos dramáticos, los cantados, las participaciones del coro, los comentarios, se yuxtaponen en un montaje donde predominan los abruptos cambios de registro, suscitando esos diversos estados de espíritu que Artaud reclamaba. La mayoría de sus personajes recita en modo versificado o canta. Sade y Marat a su vez, prefieren la prosa. Pero se trata de una prosa cercada. En un ensayo escrito en 1965, bajo el impacto de la puesta teatral de Brook, Susan Sontag comparaba lo vivido en una representación de Marat/Sade con una práctica artística muy en auge para entonces: el happening, destacando el desplazamiento que operaba en aquellas actividades, a menudo protagonizada por practicantes no del teatro sino de las artes visuales o la música.
Pocos años más tarde seguramente habría acercado esa experiencia a la ascendente performance y su creciente centralidad en el arte contemporáneo. Tanto el Marat/Sade en la puesta escénica de Brook como en su forma fílmica son extremadamente performáticos. Es a través de la acción respectiva que se re-inscriben: del texto a la escena, de allí a la pantalla. Ycada uno lo hace en tensión y sublevación con su estado anterior. En el largometraje, si bien algunos procedimientos actorales, arreglos espaciales y de objetos se mantienen, la manipulación del punto de vista y el encuadre, el foco de la cámara, los bordes del cuadro, la composición y el color no solo ingresan en una organización cinematográfica altamente conciente, comparable a la de algunas experiencias como las de Godard en aquellos años, sino que claman por su relación con la pintura y con el arte sonoro. En la disyunción entre lo visto y oído, en la ambigüedad entre lo plástico, lo figurativo y la representación, Marat/Sade construye no poco de su poder.
La obra de Weiss ya presentaba en su forma escrita una compleja operación que sólo de modo superficial podría ser designada como teatro dentro del teatro. En cierto sentido, también había en ese texto publicado una suerte de cine dentro del teatro. Pero sin la precisión que da un contenedor ajustado a un contenido. Lo que allí se ejecutaba era más bien un juego de fricciones entre piezas en conflicto, un enfrentamiento de espejos deformantes, donde un diálogo presuntamente intelectual derivaba en un farfullar entre cuerpos y fantasmas a través de capas ficcionales. Esos fantasmas, provisoriamente externalizados a través de actores y personajes, no eran otros que los de una revolución devenida en régimen estamentario. El nuevo sistema, apelando a la revolución consagrada y triunfante, se cristalizaba en un ordenamiento donde los otrora revolucionarios, devenidos funcionarios, preparaban los cimientos de un imperio en ciernes. Pero del Marat/Sade de Weiss al Marat/Sade de Brook la operación se hizo aún más compleja. Del texto dramático hacia su puesta en escena teatral por parte del británico, y de allí al cine, no solamente se desplegó el desplazamiento del núcleo central de la obra desde el autor de su forma escrita, hacia una otra puesta en escena y finalmente, hacia la instalación de otra forma de escritura.
En síntesis: instalando una revolución en el seno de los distintos modos de existencia de Marat/Sade que atañe a su misma autoría, en la película ya no opera el Peter Brook director de escena en el Royal Shakespeare Theatre, sino un director de cine que desborda el tradicional y obediente cometido de la filmación de una obra teatral. El recorrido de Weiss a Brook instala en la obra teatral un estado de revuelta, para hacerla estallar desde adentro. Resulta prodigioso cómo, a pesar de conservar literalmente los textos de Peter Weiss en el film, toda operación de puesta en escena cinematográfica los relativiza y acorrala. Ya en la puesta teatral de Brook, señalaba agudamente Sontag, no solamente el texto dramático parecía arrollado por la impetuosidad de la acción física en escena, respondiendo a aquella exigencia de Artaud, sino que las ideas expresadas se daban a modo de fuga, no resueltas como argumentos a transmitir al espectador. Era una máquina contra el teatro y el film de tesis: más que presentar ideas, la misión de Marat/Sade era sumergir al espectador en ellas. Cabría agregar que dicha inmersión debería ser pensada en términos cercanos a la turbadora hidroterapia de Charenton.
El mismo enmudecimiento o el grito de los cuerpos, su detención física (una verdadera especialidad de Brook, como la de la confrontación del espectador con lo invisible y lo indecible) tanto clama por su lectura como desafía toda verbalización y toda convención de los lenguajes corporales codificados. Quedan los sujetos sueltos, des-sujetados, aún cuando son perseguidos a porrazos. Los gritos y gemidos, los golpes y la confusión entre los espacios opresivos y los objetos puestos allí para romperse no son un elemento adicional, sino materiales que compiten en protagonismo con los textos pronunciados. Se trata, en última instancia, de activar en pantalla una revolución de contornos perturbadores, cuyo motor es tan radicalizado como ajeno a una formulación racional, ya que está fundada en una revuelta oscura que se resiste a toda teoría revolucionaria. En términos performáticos, Marat/Sade deja constancia de algunas formas cruciales por las que el sueño de la revolución produce monstruos. Sus dispositivos en perpetua revuelta los suscitan, los exponen, y lejos de pretender resolverlos, animan al espectador a conjurarlos.««