Per comprendere quanto il nesso Natura/Utopia sia insito e inscindibile nel filmare di Mario Martone basterebbe considerare (alla vigilia di Capri Revolution) due piccoli-grandi film. Si tratta di Teatro Sommerso, realizzato per la Triennale di Milano nel 2008, e di Pastorale Cilentana, realizzato per l’Expo nel 2016. Lungi dall’essere film “d’occasione” sono due lavori che “postillano” in modo ispirato un nesso cruciale: quello che unisce il fare arte, il fare cinema, il fare teatro con il nucleo di vita racchiuso nel binomio Natura-Utopia.

Nel primo si preleva una sequenza straordinaria tratta dal Fellini di Roma (il viaggio sotterraneo degli addetti allo scavo della Metropolitana), in cui le viscere della terra “rivelano”, estraggono, fanno rinascere da quel buio millenario e ventrale, i volti e le posture di antichi affreschi romani e, consegnandoli alla luce e all’aria, al tempo stesso li sgretolano e li fanno sparire in un pulviscolo, una polvere e cenere che si spande come anima ancestrale. Martone compie un lavoro ardito: usare come “tappeto” quella sequenza ma sostituire, in una sorta di “rimontaggio anacronico”, di revisione-reviviscenza, gli affreschi del film (che erano “ridipinti”) con riprese ravvicinate e potenti, terse e misteriose, di ombre antiche. Volti di statue e affreschi,  soprattutto del Museo Archeologico Nazionale di Napoli ( e qui il ritorno al “set” rosselliniano di Viaggio in Italia, e al traumatizzante scambio di sguardi tra la Bergman e quelle concrete parvenze secolari, è evidente). Maschere teatrali antiche, bocche d’ombra spalancate, occhi iridescenti di sculture bronzee, gesti arcani, sistri, passi magici, voli animici, ninfe e satiri, metamorfosi divine irrompono con sguardi in macchina che ci interpellano dal fondo dei secoli e riemergono dal terriccio e dalle acque sotterranee, ritornano a vivere, nella panoplia di un warburghiano nachleben, come una “seconda natura”. Martone si rincammina sulle orme della catabasi felliniana e usa il veicolo del cinema, come macchina del vero, per affondare in una antichità nilotica, partenopea-isiaca. Genialmente questo “scavo filmico” procede ad enucleare il racconto perduto e ritrovato di una possibile origine del teatro (sulla scorta di Tito Livio), un teatro sommerso, ma dentro noi stessi e il nostro appartenere allo scorrere eterno della vita.

Il testo scritto e detto da Emanuele Trevi mette in rapporto, artaudianamente, peste e teatro. La sua voce parla di “un rumore diverso da ogni altro perché dotato di una forza demiurgica cosmogonica dentro uno spazio creava un altro spazio, un luogo dotato di una geometria sconosciuta, impossibile ma infallibile, un carnevale si era incuneato nella pestilenza”, mentre racconta l’irruzione di istrioni etruschi ad esorcizzare la pestilenza con la diffusione del teatro. Quella invenzione del teatro, quella congettura borgesiana dell’epifania dell’attore viene suscitata ed evocata ai nostri occhi, implicando il nostro sguardo a una “distanza ravvicinata” così pregnante che si fa quasi tattile. Una sonorità di risate squillanti e chiocce, di frammenti in latino, di spire di vento, intersecate con le note magiche di Rota, sono gli “strumenti” dell’evocazione. Il sognato e il fantasmatico si concretizzano con una forza inaudita, si fanno presenti, vivi, mentre su una visione di Roma umbertina all’imbrunire la voce riflette: “Lo spettacolo etrusco non era altro che una maschera dell’epidemia, la sua rivelazione suprema. Era questa la salvezza della città. Perché la vita, non meno del teatro e dell’epidemia è pur sempre qualcosa di impossibile.”

Con Pastorale Cilentana sembrerebbe di assistere a una sorta di anello di congiunzione tra il dittico Noi credevamo/Il giovane favoloso e il film che il cineasta ha, nel momento in cui scriviamo, in lavorazione, Capri-Revolution. In tal senso il binomio Natura-Utopia si staglia con una evidenza di luce, colore, spazio, straordinaria. Il film è precipuamente uno sguardo in viaggio: quello di un bambino nel paesaggio, nelle luci, nelle ombre, nei gesti, nell’aria di una Natura (il Cilento contadino) che, se è posta apparentemente fuori dal tempo, è solo nell’apprensione visiva del tempo della visione che diventa viva, che parla un linguaggio silenzioso (il film è muto e senza musica) ma assolutamente pregno della sonorità profonda del lavoro umile, del dialogo tra le generazioni, del linguaggio naturale, dei ritmi quotidiani. Ciò è ottenuto da Martone con la scelta di un “superscope” e di campi larghi, lunghissimi, piani sequenza e panoramiche che fluiscono tanto quanto l’ambiente naturale filmato, sotto lo sguardo di una vita giovanissima che sembra scoprire il mondo nell’atto stesso e nel momento stesso in cui viene ri-velato dalla macchina da presa. Lo spettatore, quasi come in una installazione, ha modo di disporsi rispetto all’enorme schermo, di attraversare lo spazio di visione dove si colloca il film in accordo con l’attraversamento lento e maestoso della vita umana e animale che trascorre. In una sequenza in campo lunghissimo un paesaggio è tagliato da un fiume e le due sponde attraversate con semplicità solenne da uomini e animali e lo spettatore, come risucchiato dalla visione, attraversa egli stesso lo spazio per percorrere l’immagine con lo sguardo, al “passo reale” del cinema. Allora la visione “panottica” e polittica dell’opera totale, lo screen che per Martone è un segno primigenio di creatività, la luce che trascorre verso il buio (nella cifra incisa e cristallina della fotografia di Renato Berta) qui si riassumono in una specie di poesia virgiliana, di scorrere eraclitèo, di rosselliniano accordo con il manifestarsi del vero, di epifania “divinoumana” parmenidea (i luoghi del film sono gli stessi della filosofia presocratica). Si ha accesso alla “presa” dell’aura, e al suo lento ac-cadere nell’immediato, che, “qui e ora”, come in un altrove dove il mondo è nel suo farsi e apprendersi, sembra concretizzare ogni utopia di tridimensionalità, di “realtà virtuale”, con la semplice, incommensurabile puntualità di uno sguardo. Per cui, contro ogni apparenza, nulla c’è di arcadico e nostalgico, ma un rendere presente l’avvento sincronico e anacronico del tempo (passato-presente-futuro).

Su ciò sembrerebbe interrogarsi Martone con il film in lavorazione Capri-Revolution. Sulle scaturigini di una “modernità più moderna del moderno” e di “un vero più vero del vero”, risalendo nelle pieghe dell’origine primonovecentesca di una sensibilità più che mai contemporanea. La Capri del 1914, quando sull’isola sembrava compiersi il crocevia tra Natura e Tecnica, tra ancestrali ritorni e incipienti avventi rivoluzionari, sociali, scientifici, artistici. La Capri pagana e mistica, di futuristi ed esoteristi, di rivoluzionari e utopisti, di spiritualisti e materialisti, di Gorki e Picasso, di Fersen e Diefenbach, di Clavel e Depero, di Rilke e Gide, di Douglas e Wilde, di Ewers e Mackkenzie, di Maugham e Munthe, e del Lenin che profetava: “Il comunismo è il socialismo più l’elettricità”. Ma anche la Capri di Beuys. Un artista, il maestro tedesco, che Martone ha incontrato quando giovanissimo frequentava la galleria di Lucio Amelio e da cui trae il titolo del film, che è lo stesso di un’opera dell’artista consistente in una lampadina che prende energia e luce dorata da un limone, lavoro alchemico di trasformazione e trasmissione che Beuys realizzò per Lucio Amelio e che lo stesso gallerista (come si vede in un punto straordinario del documentario girato da Martone nel 1993 Lucio Amelio/Terrae Motus) mostra al regista, facendogliene dono come un viatico, il segno dell’inesauribile forza della vita e della metamorfica presenza continua della Natura che incontra l’utopia di uno sguardo. Qui (nel film che ancora deve essere visto da me e dal pubblico al momento in cui scrivo) si incroceranno le comunità della vita e della storia.

La comunità degli utopisti stranieri che attraversavano nel loro progetto un altro incrocio, tra Natura e Progresso e la comunità di coloro, contadini e pastori, continuavano a parlare con gli dèi che si nascondono negli elementi naturali, nonostante un destino incipiente di esclusione e cancellazione del dato umano e naturale perpetrato dal lato oscuro della tecnica. Tale incrocio magnetico parrebbe concentrare in una focalizzazione esemplare il tema della comunità possibile-impossibile, dell’incedere della Storia e dello sguardo memoriale delle singolarità, così come la porosità ancestrale napoletana, i suoi misteri reviviscenti. Certo è che in questo racconto, dove pare che il sogno e la favola. da un lato, e il vero e la Storia, dall’altro, possono camminare di pari passo, riemerge un lato in ombra, ma persistente e fondante, del nostro Novecento, un XX secolo segreto, affacciato su un futuribile nuovo millennio. Infatti l’esperienza della comunità utopica di Monte Verità ad Ascona pare sia uno dei riferimenti sottili del film. Quella “città del Sole” praticata come utopia concreta all’inizio del secolo scorso parrebbe riflettersi nella “comune” di nordeuropei che trova a Capri un intervallo eterno, l’attimo futuro in cui immaginare (alla vigilia della carneficina della guerra) un ulteriore mondo possibile. Se si pensa che il binomio Natura-Progresso, la meditazione sui destini umani e naturali, il senso profondo dell’intersecarsi di Storia e Mito, sono racchiusi nella tensione poetica da cui scaturisce La Ginestra leopardiana, e che i versi del poeta risuonavano nel film di Martone come scaturendo dallo sguardo di Leopardi seduto sulla terrazza di fronte al Vesuvio e al golfo, e ai cieli “iperuranici” del fluire dei tempi cosmici, potremmo dire indovinare che Capri-Revolution rilancia da lì, da quella visione “anacronica”, un altro sguardo sul secolo della modernità e parabolicamente su ciò che dell’ “aura” novecentesca muove tuttora il nuovo millennio.

Secolo di orrori occidentali e di scienze in rapida espansione, il Novecento è ruotato attorno a un centro misterioso, da cui ha preso vita tutto: l’ideologia verde che sarebbe mutata geneticamente in un certo nazismo, l’importazione delle religioni orientali, la Rivoluzione d’ottobre in Russia, il magnetismo e la psicologia del profondo, la premessa al movimento hippie. Questo luogo da cui si diparte il secolo si trova in Svizzera: è il Monte Verità ed è stato la meta per eccellenza di comunità utopistiche, gimnosofisti e asceti, naturisti e teosofi, architetti esoterici e occultisti vegetariani. Il Monte Verità è l’Atlantide emersa all’origine della modernità.

Ci sembra di poter divinare come Capri-Revolution si agganci in una ideale trilogia ai due film sull’Ottocento, sfociando in modo naturale nei destini del nuovo secolo, e illuminando da lì, ancora una volta genealogicamente, il nostro presente. Reviviscenze anacroniche che, da lontano, ci appaiono più che mai vicine. A distanza ravvicinata.

Tags: