Da Alcuni anni oramai si invoca, tanto da parte degli studi di ambito cognitivo che di quelli filmologici, la necessità di una convergenza interdisciplinare, e di una sintesi funzionale tra i reciproci paradigmi d’analisi. Il presente contributo intende muoversi in questa direzione tentando la via di una struttura funzionale integrata tra i due livelli di descrizione diversi, quello critico filmologico e quello relativo ai processi di embodiment.
L'oggetto d'analisi sarà il medesimo: l’ultimo film di Tsai-Ming Liang, di cui, attraverso l'integrazione dei due livelli d'analisi si tenterà di fornire una descrizione "allargata", non limitata alla sola comprensione critico-estetica dell'oggetto. Con l’analisi formale e filmologica si tenterà di gettare luce su alcune delle implicazioni stilistiche e semantiche di questo film atipico e al contempo di fornire alcune indicazioni per un raffronto intertestuale con altre opere del regista. Affrontando il livello della sua descrizione incarnata si cercherà di fornire, invece, una spiegazione del funzionamento e delle ragioni della sua ”efficacia”, cioè della sua capacità di coinvolgimento empatico dello spettatore. L’analisi filmologica, in sostanza, ci fornisce una descrizione dei pregi estetici e delle soluzioni stilistiche che il regista adotta per conseguirli, di come queste “facciano presa” sull’emotività dello spettatore, quello della descrizione incarnata ci permettere di comprendere come e perché quelle stesse configurazioni stilistiche funzionino a livello di ricezione neurale da parte del guardante, fornendo una descrizione dei meccanismi di livello celebrale che determinano quella “presa” emotiva sullo spettatore prima descritta in termini estetici.
ANALISI FILMICA
Il Volto Nella Storia.
L’emersione del volto, e della sua epifania schermica del primo piano, nei primi vent’anni del ‘900, fu certamente tra le acquisizioni più significative dell’incipiente retorica del cinema nell’orientare gli sviluppi futuri del suo linguaggio, delle sue tecnologie, e del suo star system. I pionieri della scuola di Brighton prima, e successivamente Griffith che ne codificò in maniera stabile le possibilità e le modalità espressive d’uso, con le big heads fornirono all’infante cinematografo l’emozione, ovvero la possibilità, attraverso la contemplazione del volto, di compiere lo scarto evolutivo che da semplice dispositivo per la registrazione del reale avrebbe trasformato la settima arte nel più sensibile degli strumenti per la restituzione di infinite istanze emozionali e psicologiche.
Tutto il linguaggio filmico degli anni a venire, il suo montaggio, le strategie di collocamento e movimento della mdp ecc., si svilupparono in funzione di questa acquisita emozionalità, che nel primo piano trovava la propria sublimazione; e basterebbe guardare un film con Rodolfo Valentino o con la Dietrich (scelgo appositamente due esempi estremi di divismo) per capire come l’intera macchina performativa e produttiva di cinema andasse evolvendo in una direzione funzionale all’uso del primo piano come momento “di punta” delle scene. Il primo piano viene a configurarsi come pura immagine-affezione, come amava dire Deleuze, snodo di mediazione tra l’esteriore e l’interiore, tra il corporeo e l’immateriale della sfera emozionale o psicologica. Non che prima del cinematografo il volto non esistesse, anzi, da che il teatro dimise l’uso delle maschere “l’espressione”, cioè la capacità di un uso emozionale del viso, divenne uno dei ferri del mestiere fondamentali per l’attore da palcoscenico, ma le differenti necessità d’uso imposte dalla natura del medium ne decretavano anche una diversa misura d’importanza semantica.
Nel teatro la distanza ottica da cui si osserva la performance attorica impone una visione d’insieme, tale cioè da comprendere in unico sguardo tutto lo spazio scenico e quindi, per quanto riguarda la visione dei corpi, in grado di offrirceli sempre e solo come figura intera. Di contro, ovviamente, tale distanza ottica imposta inibisce la decrittazione più minuta dell’immagine e la percezione di dettaglio, imponendo la necessità di una mimica corporea e facciale leggibile nella distanza, quindi decisamente più marcata sotto il profilo mimico. Da tutto ciò deriva che il volto teatrale “esprime”, cioè manifesta con differenti comportamenti muscolari le variazioni emozionali del personaggio, solo come parte integrante di un corpo completo, che quindi esprime i concetti “nel suo insieme”, attraverso l’azione congiunta di tutti gli arti, oltre che del volto, senza che l’una o l’altra parte abbia un ruolo prioritario nella produzione del significato complessivo voluto.
Con il primo piano del cinematografo sono proprio questi i presupposti che vengono a essere ribaltati, sia perché con la visone ravvicinata diventano visibili i dettagli, le molteplici microespressioni e le loro minime mutazioni che segnano il fluire della vita psicoemozionale dell’uomo, sia perché il volto staccato dal contesto corporeo e ambientale che lo contiene diventa mezzo autonomo di significazione, soggetto privilegiato di una semantica che esclude l’interazione con le rimanenti parti del corpo ed è specificamente dedicata alla manifestazione delle emozioni del personaggio (mentre in genere la mimica del corpo, le azioni, portano avanti la componente narrativa). Sono queste emozioni, i loro fantasmi filmici, che innescano la compartecipazione empatica dello spettatore, anche in assenza, come questo film ben dimostra, di ulteriori elementi adescatori, come una trama avvincente o il ricorso ad attrazioni spettacolistiche di sorta, scene da cardiopalma, effetti speciali “mai visti prima” et similia.
Ni De Lian -Your Face: film di sottrazione.
Your Face (Ni De Lian), opera nuova di Tsai-Ming Liang, appena passata fuori concorso alla settantacinquesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, si distingue come campione di un cinema di sottrazione, amputato d’ogni possibile fronzolo formale e narrativo. Solo 13 giganteschi primi piani, infatti, costituiscono questo film “deprivato”, spogliato d’ogni sua vestizione cinetica, narrativa o drammaturgica e ridotto al nudo scabro della sola immagine a macchina fissa che squadra il volto. 13 primi piani e un ambiente vuoto che fa da chiusa, per essere precisi, come immagine di un’assenza, forse quella del pubblico di questo cinema che viene meno. Ma soprattutto 13 enormi primi piani di gente comune, non di attori, che, non sapendo recitare, altro non fanno se non vivere di fronte all’obiettivo di Tsai: scrutano lo spettatore, si sottraggono o si offrono alla macchina, ridono o piangono, si addormentano, si emozionano, e a volte prendono parola, per raccontare brandelli delle loro vite, ma nulla più.
Ni De Lian eThe Deserted.
Sul piano tematico e della significazione complessiva del film non ci troviamo affatto lontani dalla riflessione sulla società taiwanese sua contemporanea che Tsai ha affrontato in altre e ben più strutturate opere: come spettri ritornanti, infatti, riappaiono anche qui gli stessi ritratti di umanità dimidiata di lavori come Stray Dogs (Tsai-Ming Liang, 2013) e del più recenteThe Deserted (Tsai-Ming Liang, 2017).
La Taiwan e la gente che in quei film aveva messo in scena, qui diventano reali; i soggetti che riprende, infatti, vengono veramente da quelle strade, da quei chiusi e scalcinati interni diThe Deserted, e il ritratto finale è il medesimo, lo stesso senso di smarrimento e di deriva di quella società. Un universo intertestuale di senso internamente coeso, in cui la testimonianza documentaristica della società (Your Face) e la sua rappresentazione finzionale (Stray Dog, The Deserted) convergono in un ritratto finale che è uguale. Che poi Tsai voglia con ciò interrogarsi e interrogarci sulla necessità della componente finzionale del cinema, credo sia qualcosa di più che un legittimo sospetto, se consideriamo l’orientamento segnatamente metariflessivo della sua ricerca recente. Your face, infatti, non si discosta affatto da quella lirica di un cinema sospinto sul crinale della dissipazione che è l’esito più maturo del percorso di Tsai-Ming Liang, in cui è proprio il continuo dubbio sulla consistenza cinematografica delle concatenazioni audiovisive a fornire la chiave di accesso all’operazione concettuale che sta portando avanti.
Che cosa è il cinema? Quale ne è l’essenza irrinunciabile? Con lo spirito di un bambino che smonta il suo giocattolo per capire come funziona, com’è fatto dentro, Tsai ha iniziato da un po’ a staccarne i pezzi, i rivestimenti esterni, gli abbellimenti e le decorazioni, prima, e poi le parti interne, certe viti che credevamo lo tenessero insieme, sempre in cerca di quel piccolo motore che ancora lo anima e che per quante componenti smonti, continua sempre a funzionare. La narrazione, il montaggio analitico e l’alternanza di piani, il montaggio alternato, il movimento di macchina e quello interno all’inquadratura, la spazialità e la temporalità del film, tutto può essere criticamente ridiscusso a partire dalla sua elisione in questo cinema delle assenze, a cui con quest’opera Tsai aggiunge un ulteriore grado di concentrazione densificatrice, derivante dal restringimento del campo ottico.
Un unico oggetto-luogo, il volto, che nella negazione di spazialità ulteriori (tutto il resto, il contorno e lo sfondo sono ridotti a nero) diventa la totalità dello spazio; catalizza, fagocita come un buco nero siderale ogni possibile sguardo, quello della mdp, quello dello spettatore e con essi ogni possibile significazione. In questo concentrare lo spazio, e dunque in questo porsi come opera di rimetabolizzazione delle consuete coordinate spaziali del film, Ni De Lian dimostra un elevato grado di continuità con l’opera precedente, The Deserted, che però lavorava sul concetto inverso, di espansione dello spazio filmico, un’espansione tale da arrivare a perforare in ogni direzione i limiti piatti dello schermo in quella sorta di debordamento aptico e totalizzante che è la realtà virtuale. Questa spazialità extra-planare, di The Deserted, omnidirezionale e perciò (quasi) infinitamente percorribile e attraversabile in ogni direzione dallo sguardo mobile dello spettatore (e della macchina, ovviamente), in questo nuovo film è come se si ricompattasse tutta in quello spazio circoscritto e densissimo che è il volto, uno spazio totalizzante, anche questo, ma iperconcentrato, unipuntuale invece che espanso e che, possedendo limitata superficie, non si percorre né si attraversa ma che si pone come punto di fuga unico per ogni traiettoria di sguardo possibile, luogo di carismatica calamitazione di ogni guardare.
E non è solo la questione spaziale ad accomunare The Deserted e Your Face. In entrambi i film, infatti, nel suo scarnificante lavorio sul cinema Tsai trova il modo di inibire le facoltà decisionali, di guida della visione, che caratterizzerebbero in condizioni normali l’istanza-regista. La questione è ovviamente più manifesta nella realtà virtuale, in cui di fatto tutte le funzioni di “dispositivo vedente” ricadono sullo spettatore, il quale determina con i movimenti della propria testa ai lati e in verticale (e in casi più immersivi spostandosi nello spazio con l’intero corpo) i movimenti di macchina e il contenuto delle inquadrature, ormai svincolati entro certi limiti dalle previe decisioni del regista.
Questo discorso è chiaro anche in Your Face, in cui però l’abdicazione delle qualità decisionali non dipende più da un fatto strutturale del medium, quanto dall’esercizio di una precisa volontà di rinuncia, di autolimitazione. Tsai semplicemente si astiene dall’esercitare la propria facoltà di movimento sul dispositivo e dunque dal determinare in modo dinamico i contenuti del quadro, lasciando che questi dipendano unicamente dai comportamenti dei soggetti di ripresa, secondo una modalità tipicamente teatrale.
Il regista dimidiato.
Un regista ai minimi termini, dunque, cui si sottraggono anche altre prerogative, come quelle che gli conferivano potere assoluto sul tempo. Si accentua infatti un certo tipo di discorso sulla durata e sulla continuità di ripresa che già era presente, ma in forma meno evidente inThe Deserted, il quale si componeva sempre di scene lunghe e prive di cesure di montaggio interne. Questa tendenza al piano sequenza ritorna inYour Face in forma ancora più marcata, perché si allunga la durata di ogni singolo piano a un intero episodio, all’intera porzione di film dedicata a un certo soggetto. E anche questo piano sequenza, o ripresa in continuità, comporta una rinuncia: quella alla frammentazione, che in subordine invoca quella al montaggio, nella sua accezione microstrutturante, poiché se prima non si spezzetta, poi non ci sono pezzi da montare.
Ma è proprio sulla frammentazione del tempo lineare della realtà in unità discrete e di durata ridotta, le singole inquadrature, e sulla ricomposizione dei loro tempi parziali in sede di montaggio, che si basava la fondamentale possibilità che hanno i registi di modulare il tempo del film, di crearlo ex-novo sommando i tempi parziali dei singoli pezzi, di accelerarlo, rallentarlo, comprimerlo o espanderlo a proprio piacimento. Con l’assunzione del piano sequenza come modalità esclusiva, Tsai accetta di far coincidere tempo cinematografico e tempo del reale, deprivando ulteriormente il proprio ruolo di regista di una di quelle facoltà semidivine, la creazione e modulazione del tempo, che sostanziano l’idea convenzionale che abbiamo di questa istanza forte.
La dimidiazione di questo ruolo con l’operazione di Your Face si spinge a un livello ulteriore, perché in The Deserted ancora Tsai si riservava un certo grado di direzione “registica” sugli attori che qui viene meno. Per quanto ridotte all’osso di azioni minime di questo film (lei lava i piatti e lui guarda la tv, lei guarda fuori, loro due fanno il bagno ecc.) e prive di dialogo, comunque erano di azioni in qualche modo recitate, poste fittiziamente in essere in base alle indicazioni comportamentali fornite dal regista, che aveva precedentemente indicato a degli attori, gente pagata per fingere, quali azioni compiere.
InYour Face Tsai rinuncia a qualsiasi prerogativa di predominio sull’attore, rinuncia alla sua istruzione preventiva, a dirgli cosa fare e, soprattutto, come farlo, e rinuncia a tutte le possibilità di risignificazione della performance attorica insite nella mobilità della mdp e nel montaggio, che normalmente sono il martello e lo scalpello con cui il regista scolpisce e riconfigura la recitazione secondo le proprie necessità di senso. In senso stretto rinuncia proprio al concetto di attore professionista, pagato per fingere e in grado di eseguire a livello “professionale” una serie di istruzioni fornite dal regista, scegliendo i propri soggetti tra la gente di strada, che non sapendo fingere di fronte all'obiettivo, né essendo stata istruita dal regista sul come farlo, si limita a vivere.
Tutto il senso, tutto il contenuto drammaturgico sono demandati alla decisionalità comportamentale dei soggetti, che con le fluttuazioni umorali e spontanee del proprio agire di fronte alla macchina da presa costruiscono il contenuto del film. E il film, nella latitanza dell’istanza strutturante di una regia forte si crea quasi da sé, a partire dai propri contenuti, dalle storie di queste persone, ma soprattutto da questi volti sovradimensionati, enormi, che ci fronteggiano per un tempo inusitatamente lungo.
Il volto e la sua grammatica.
L’incontro visivo con un volto estraneo è esperienza perturbante anche nella realtà, sia per l’osservatore che per l’osservato, tanto che è sempre buona norma comportamentale scrutare le persone da una distanza che non ne violi lo spazio peripersonale e contenendo il tempo del nostro sguardo esclusivo entro una durata che non trasmetta all’altro l’impressione di essere fissato. Tsai invece inchioda il suo spettatore a una manciata di centimetri da questi visi ignoti, a distanza di fiato, e lo costringe a sostenere il contatto per un periodo che pare interminabile, eccessivo per qualsiasi galateo del buon guardare. È un’esperienza psichica ai limiti del cinema, o che quantomeno ne problematizza i confini e le definizioni.
Sottraendo ordito narrativo, performatività attoriale, e ritornando al modello del film monopuntale delle origini, in cui ogni inquadratura coincide con un’intera scena o stacco di montaggio, cosa resta ancora di questo cinema?
Rimane uno spettatore che guarda un’immagine luminosa. Il grado zero, ma anche l’unico atto veramente fondativo del cinema, il luogo più primitivo della sua significazione, l’immagine che viene guardata. Ed è all’interno di questa immagine, tra le pieghe e le irregolarità della sua pasta, che Tsai ricerca le possibilità del senso, relegando lo spazio rimanente, il circostante, a un nero privo di significazioni.
La visione è un processo cognitivo progressivo che dal generale muove verso il particolare, programmata per decrittare prima l’immagine complessiva di un oggetto di cui solo col tempo decifra dettagli sempre più minuti. Protraendo l’osservazione di questi volti lo spettatore di Tsai, una volta decifrata in maniera stabile la fisionomia generale, concentrerà le sue risorse cognitive sull’unico elemento dinamico, in continuo mutamento, dell’inquadratura: i comportamenti e le espressioni di queste facce, col loro cambiamento inesausto. Col tempo dall’immagine della fisionomia complessiva lo spettatore comincia a estrapolare segni e segnali sempre più minimi, ma iperpotenziati dall’ingrandimento dimensionale dovuto alla estrema prossimità del piano: le rughe iscritte dal tempo, le più piccole contrazioni e spasmi muscolari dovuti a un’emozione o a un accenno trattenuto di pianto, le cicatrici e le asperità della pelle, tutti micro segnali fisionomici che diventano i punti fermi di una comunicazione che è tutta visiva e comportamentale.
Il sottrarsi timidamente allo sguardo della macchina da presa, o l’offrirsi impavidamente ad essa, il tremore di un pianto trattenuto, la curva ascendente di un labbro piegato da un sorriso: è a partire da questo tipo di lessemi puramente visivi e comportamentali che lo spettatore edifica per via immaginativa il proprio film personale, ricostruisce i percorsi, ricrea la psicologia dei personaggi e risuona empaticamente con essi. Lo spettatore, abbandonato a sé stesso, per così dire, da un dispositivo filmico che non racconta, che non ne guida lo sguardo con movimenti di macchina, cambi di piano o di punto di vista e che non lo posiziona ideologicamente o emotivamente rispetto ai contenuti, vede fortemente attenuate quelle qualità di passività che caratterizzano la sua funzione di istanza ricettrice pura e si ritrova, volente o nolente, ad esercitare funzioni attive, di produzione di contenuti di senso che genera per via immaginativa o empatica.
Spetta infatti a lui la ricognizione e l’edificazione di questi personaggi, il dotarli di un carattere, di una psicologia che andrà inferendo mano mano che il contatto visivo prosegue dai comportamenti concreti del viso, dal suo sorridere, dalle traiettorie e le espressioni dei suoi occhi felici, disperati o innamorati, dal sentirsi solidale e coinvolto dalle medesime afflizioni o gioie.
L’ANALISI INCARNATA
Volto e neuroscienze.
Potenza del cinema di Tsai-Ming Liang? Certamente, ma forse non solo. L’assoluta preminenza del volto, la sua ostentazione prolungata e ingigantita che innesca forzosamente un’ osservazione di dettaglio, offrono la possibilità di un grado ulteriore di lettura del film e di ricognizione sulle ragioni della sua efficacia, che muova da presupposti non strettamente cinematografici. L’osservazione del volto e delle sue espressioni a contenuto emozionale, infatti, è stata oggetto negli ultimi due decenni di un rinnovato interesse scientifico e fatta materia, soprattutto dalle discipline di ambito cognitivo, di una molteplicità di studi riconducibili al contesto della cosiddetta embodied cognition, la “scienza dei neuroni specchio”. È a partire da contributi di questo tipo che sembra ipotizzabile una lettura “incarnata” di Your Face, la cui efficacia empatica, la capacità di contagio affettivo dello spettatore, in questa prospettiva dipenderebbe dalla possibilità di attivare nell’encefalo di chi guarda gli stessi “sentimenti” che stanno provando i soggetti di ripresa mentre li esprimono con il viso, per quanto in una forma dimidiata e ridotta per intensità che chiamiamo “simulazione”.
In termini di attività cerebrale tutto questo corrisponde all’attivazione delle medesime aree cerebrali emozionali tra chi esprime l’emozione attraverso le espressioni facciali perché, presumibilmente, le sta attivamente esperendo in quel momento, e chi semplicemente osserva mentre ciò accade. Vittorio Gallese, il più popolare divulgatore in questo campo, per descrivere questo meccanismo, anche se il suo riferimento specifico riguardava le aree cerebrali motorie e premotorie, non quelle emozionali, parla di un processo di «riuso degli stessi circuiti neurali1V. Gallese - M. Guerra, Lo schermo epatico, Cinema e Neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, p.24.» tra osservato e osservante, nel quale tali regioni encefaliche verrebbero attivate a partire da uno stimolo visivo. Se ciò fosse vero, la forte carica empatica di Your Face potrebbe essere spiegata a partire da una serie di attivazioni neuronali nello spettatore localizzate nelle stesse regioni encefaliche attive in quel momento nel soggetto ripreso, che presumiamo provare attivamente quelle emozioni. Si tratterà quindi di verificare in prima battuta se questi fenomeni osservati in contesto di realtà siano effettivamente operativi anche in situazione finzionale filmica, e successivamente si procederà coll’addurre prove circa il ruolo attivante delle espressioni emotive del volto.
Mirror cinetico-emotivo e stimoli audiovisivi.
Per quanto riguarda il primo punto si dovrà osservare, a un livello del tutto generale e aspecifico, che nell’esperienza estetica moderna rientrano normalmente forme di immersività profonda in situazioni di tipo diegetico, suscettibili di ingenerare variazioni dello stato emozionale empiricamente registrabili, suscitate dalla visione di prodotti audiovisivi: il film, certamente, ma con modalità ancora più invasive la V.R o il videogioco. A un livello puramente intuitivo, basato su un’osservazione ascientifica delle evidenze, le forti implicazioni emotive di questo tipo di prodotti audiovisivi, e il fatto che tali fluttuazioni siano analoghe per qualità a quelle manifestate dai personaggi, ci spinge a considerare plausibile una loro lettura a partire da un meccanismo mirror-like. Si tratta quindi di verificare se anche in ambito emozionale possa esistere un processo di riuso degli stessi circuiti neurali tra osservante ed esperiente, analogo a quello ormai comunemente accettato dei neuroni specchio-motori (il fatto che la visione di qualcuno che compie un’azione attivi in noi le stesse aree motorie e premotorie che si attivano nel compimento attivo e in prima persona del medesimo gesto).
Il contesto generale è quello di una sempre minore possibilità di discriminazione dello statuto effettuale o finzionale delle immagini che vediamo a partire dalla considerazione esclusiva del mezzo che le veicola. Condizione che, sempre a un livello intuitivo e non supportato da evidenze sperimentali, mi permetto estendere anche alle emozioni, forzando in senso interpretativo il tracciato segnato da Gallese e colleghi. È infatti possibile, chiedo, discernere a un a un livello qualitativo consapevole le emozioni “reali”, un improvviso spavento, uno stato di commozione, cagionati da fatti effettivamente accaduti nella nostra vita, da quelle analoghe che si producono a partire dalla visione di una spaventosa scena filmica o di una che ci risulti altamente drammatica, senza fare ricorso a considerazioni di tipo ambientale e contestuale, ovvero basandosi unicamente sulle loro qualità esperienziali intrinseche? non lo crediamo.
Certo è che questa non differenziabilità qualitativa tra i prodotti emozionali derivanti dalla visione di un film da quelli reali propende per farci ritenere possibile l’insistenza di un meccanismo di simulazione emotiva, nel senso che se i ricaduti emotivi del film sono esperiti soggettivamente come reali ed effettivi sarà legittimo ritenerli il prodotto di meccanismi simili se non identici a quelli operanti in situazione di realtà.
Anche i più recenti sviluppi riguardanti la nozione del “guardare un film” potrebbero favorire l’inclusione di effetti emozionali. «Osservare il mondo attraverso oggetti artistici come ad esempio un film va molto oltre la semplice attivazione del cervello visivo e presuppone piuttosto una nozione altamente integrata e multimodale della visione.2V. Gallese - M. Guerra, Forme di simulazione e sti(mo)li cinematografici., in «Reti, saperi, linguaggi», a. 4, vol. 2, n. 2, 2013.»
E certo questa multimodalità ci consente se non di includere con certezza gli effetti di tipo emozionale tra quelli scaturenti dal film, quantomeno di ritenerli tra quelli plausibili e di includere quello dell’emozione tra i molteplici livelli modali con cui l’esperienza filmica viene recepita e interpretata.
Un ulteriore elemento utile in favore di una operatività dei processi incarnati di natura simulativa durante la fruizione audiovisuale potrebbe venirci anche da una tendenza generale della prassi sperimentale in campo cognitivo. Bisogna infatti ricordare che, nelle varie sessioni sperimentali, piccoli filmati, brevi video e immagini in movimento rientrano normalmente tra il materiale utilizzato per la mappatura delle reazioni cerebrali dei soggetti cavia, al pari di altri tipi di materiali. Ora, anche senza tenere conto dei risultati ottenuti dai pochissimi studi dedicati specificamente alla comparazione degli effetti simulativi derivanti dall’osservazione di situazioni dal vivo e filmate, si dovrà riconoscere, come tendenza puramente generale, che nei contesti in cui brevi filmati erano parte del materiale sperimentale gli esiti indicano non solo che sempre suscitavano una risposta di tipo incarnato, ma anche che la sua intensità era decisamente superiore a quella fatta registrare da altre forme di evocazione dell’esperienza emozionale o sensoriale, come quella letteraria o fotografica, e inferiore solamente a quella conseguente all’osservazione di azioni ed emozioni poste in essere da soggetti fisicamente presenti.
La prova decisiva, per noi, potrebbe però essere uno studio condotto nel 2008 da Järveläinen e colleghi3 J. Järveläinen, M. Schürmann, S. Avikainen, R. Hari, Stronger reactivity of the human primary motor cortex during observation of live rather than video motor acts, in «Neuroreport» n.12. 3493-5, 2001. realizzato studiando le differenti reazioni di cavie umane durante l’osservazione di azioni eseguite dal vivo e di azioni riprese e viste in video. Analizzando i dati così ottenuti si sono potuti evidenziare livelli di attivazione della corteccia motoria primaria del 15-19% superiori nel caso della azioni dal vivo. Il che, per noi, significa che comunque, per quanto con intensità minore, gli stessi meccanismi mirror-motori sono risultai operanti anche in risposta agli stimoli filmati, fornendo un appiglio definitivo all’ipotesi che stiamo indagando. Certamente un film ha implicazioni più complesse e differenti sul piano della immersività rispetto agli elementari video in questione che mostrano azioni singole, ma il dato in buona misura sembra fare gioco alla nostra ipotesi, di embodiment videomatico.
Un esempio spesso menzionato è quello del lavoro sperimentale di Jabbi et al. (2008) in cui si sono studiate le reazioni di un gruppo di 12 partecipanti durante le tre differenti esperienze del disgusto: in prima persona attraverso l’ingestione di un liquido disgustoso, per osservazione, attraverso la visione di brevi filmati in cui attori simulavano espressioni disgustate bevendo un liquido e per evocazione immaginativa, indotta dalla lettura di un breve script che descriveva situazioni disgustose. Il risultato principale di questo lavoro è stato quello di confermare l’esistenza di una base neurale comune in tutti e tre i tipi di esperienza, identificabile con una comune attività, per quanto differente per intensità dell’attivazione, dell’insula anteriore e dell’adiacente opercolo frontale, le aree normalmente reclutate nell’esperienza attiva di questa sensazione, come si evidenzia nelle conclusioni: «We tested and confirmed the hypothesis that the shared- circuitry in the IFO, shown earlier to be active during experience and observation of other people’s disgust [17,23], is also activated by the imagination of one’s own disgust4 M. Jabbi, J. Bastiaansen, C. Keysers, A Common Anterior Insula Representation of Disgust Observation, Experience and Imagination Shows Divergent Functional Connectivity Pathways, PLOS ONE, 2008. ».
Il dato è più che rilevante e ci tornerà utilissimo nel prosieguo per dimostrare che la visione di espressioni facciali emotive stimola simulativamente le aree deputate all’elaborazione di quello stesso sentimento in chi le osserva, ma ora ci interessa se letto differentemente. Ai fini del nostro discorso, infatti, il dato essenziale è che le sessioni di osservazione di espressioni disgustate non sono state condotte dal vivo, utilizzando attori in carne ed ossa, ma esibendo dei filmati. Considerati da quest’altra prospettiva i dati lasciano emergere un’altra evidenza, e cioè che la visione di immagini filmiche, non dunque qualitativamente differenti da quelle impiegate da Tsai-Ming Liang per Your Face, si è rivelata in grado di attivare l’insula anteriore e l’opercolo frontale nelle stesse regioni, sebbene con un’estensione inferiore, che si attivano sia durante l’esperienza attiva del disgusto, che durante l’osservazione dal vivo delle manifestazioni corporee della medesima sensazione. Un’altro celebre studio sperimentale volto a rendere conto delle similitudini e delle differenze tra l’esperienza in prima persona di una emozione, anche in questo caso il disgusto, e la visione della sua espressione mimico-facciale è quello di Wicker et al. (2003)5 B. Wicker, C. Keysers, J. Plailly, J. Royet, V. Gallese, G. Rizzolatti, Both of Us Disgusted in My Insula: The Common Neural Basis of Seeing and Feeling Disgust, «Neuron», 2003.. Anche in questo caso le sessioni di osservazione sono state condotte con l’ausilio di brevi filmati e anche in questo caso l’osservazione dei video ha prodotto effetti di simulazione dei contenuti emotivi esibiti uguale per qualità, ma diversa per misura da quella che si produce nell’esperienza in prima persona. In entrambe le sessioni sperimentali, dunque, lo strumento audiovisivo si è rivelato dotato dello stesso tipo di efficacia attivante di processi di riuso dei circuiti neurali di cui è dotata la realtà esperienziale, l’esperienza in prima persona di quelle emozioni.
«Tra la percezione del mondo reale» leggiamo in Gallese-Guerra 2013, «e la percezione mediata», intendendo con questo indicare quel tipo particolare di esperienze che definiamo artistiche, cioè stilisticamente mediate, come il cinema, «vi è dunque una differenza di tipo dimensionale più che di tipo categoriale, o per lo meno questo è quanto suggerisce la prospettiva neurobiologica6 V. Gallese, M. Guerra, Forme di simulazione e sti(mo)li cinematografici, cit.». Tra l’osservazione di situazioni reali e quella di situazioni filmate, secondo i dati riportati sin qui, la differenza sarebbe solo di ordine quantitativo, non qualitativo, il che ci permette di ritenere che di fronte ai volti di Your Face lo spettatore e il suo encefalo si comporteranno esattamente come se ritrovassero di fronte a visi reali, incontrati in situazione non finzionale e posti rispetto a lui alla medesima distanza che sul set li separa dalla mdp.
Le espressioni facciali emozionali e i processi mirror-emotivi.
Avendo fornito elementi sufficienti a sostenere l’idea che i meccanismi di simulazione incarnata operino anche in situazione filmica, e dunque anche durante la visione di Your Face, converrà ora spostare la nostra attenzione sui molti studi che si sono concentrati sull’espressività facciale e sull’ipotesi che questa sia suscettibile di attivare meccanismi simulativi incarnati, che ci tornano utili nel rendere conto del tipo di efficacia emozionale che espletano i 13 primi piani di Your Face.
Il tracciato concettuale da seguire è adamantinamente segnato da Wicker e colleghi nel già citato lavoro sul disgusto, che fissano il punto di partenza in conoscenze già consolidate, il cui funzionamento è stato accertato da risultanze sperimentali incontrovertibili, come «il sistema di corrispondenza dei neuroni specchio scoperto nella corteccia motoria del macaco e successivamente dell’uomo» che «mostra come la nostra rappresentazione interna delle azioni viene attivata dall’osservazione o dall’ascolto delle azioni di qualcun altro», mentre l’esito da conseguire è quello di mostrare che «Un meccanismo simile può essere applicato alle emozioni 7 B. Wicker, C. Keysers, J. Plailly, J. Royet, V. Gallese, G. Rizzolatti, cit., p. 1.» (trad. nostra).
Se così fosse, allora, si potrebbe estendere anche al dominio delle emozioni il vero e proprio rivolgimento di modello cognitivo che la scoperta del sistema mirror-motorio ha comportato in relazione all’interpretazione di azioni e movimenti altrui. Se infatti sino a prima della scoperta si riteneva che attribuissimo senso alle azioni attraverso un processo razionale di deduzione, inferenza e analogia che si attivava a partire dal raffronto tra i gesti osservati negli altri e la nostra personale conoscenza del movimento, con i neuroni specchio, che ci fanno compiere la stessa azione di chi stiamo osservando simultaneamente a lui, per quanto in forma solamente simulata, emerge l’idea di una conoscenza “dall’interno” di quei gesti. Una conoscenza che deriva dalla possibilità di mappare i gesti altrui sugli stessi circuiti neuronali su cui si basano le nostre esperienze e conoscenze del movimento, e che in quel momento sono attivi in entrambi, anche se con intensità differente.
Secondo Gallese e Guerra: «Comprendiamo il senso dei comportamenti e delle esperienze altrui grazie al riuso degli stessi circuiti neurali su cui si fondano le nostre esperienze agentive, emozionali e sensoriali in prima persona8 V. Gallese, M. Guerra, Lo schermo epatico, Cinema e Neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, p. 67.». Se dunque il meccanismo di rispecchiamento dovesse riguardare anche le emozioni, il mutamento investirebbe anche il modello cognitivo in base al quale le interpretiamo, portando a un ripensamento radicale di ciò che sino ad oggi abbiamo inteso come “intersoggetività”.
Wicker e colleghi procedettero misurando i livelli di attivazione neuronale su un gruppo di cavie sia mentre esperivano il disgusto causato dall’ingestione di un liquido dal sapore disgustoso, sia mentre lo osservano sul volto di alcuni attori, sia mentre leggono brevi script che suscitano disgusto.
Dalla lettura dei dati emerge una chiara relazione di tipo specchio, del tutto analoga per funzionamento a quella registrata in ambito motorio:
«The main finding of the present study is that the observation of disgust automatically activates neural substrates that are selectively activated during the feeling of disgust. This suggests that the understanding of the facial expressions of disgust as displayed by others involves the activation of neural substrates normally activated during the experience of the same emotion. These shared neural substrates are the left anterior insula and the right anterior cingulate cortex.9Both of Us Disgusted in My Insula: The Common Neural Basis of Seeing and Feeling Disgust, Neurons, p. 658». Si noterà nell’estratto di Wicker, per riprendere le fila del discorso sul modello cognitivo di interpretazione delle emozioni iniziato poco fa, che dalla constatazione dell’esistenza del meccanismo, l’attenzione immediatamente si sposta sulle sue conseguenze di tipo interpretativo, sul fatto che osservare le espressioni emotive di un’altra persona implichi immediatamente il comprenderle, attraverso la loro esperienza diretta anche s solo simulata.
Anche Jabbi e il suo gruppo di collaboratori (Jabbi et al. 2003) studiano il disgusto, in cerca stavolta di una base neurale comune alle esperienze del disgusto provato in prima persona, osservato negli altri ed evocato immaginativamente e pervengono a conclusioni analoghe: «By making participants view disgusted facial expression of others, read disgust provoking scenarios and taste an unpleasantly bitter solution, we found a modality a-specific involvement of a region of the IFO during disgust10M. Jabbi, J. Bastiaansen, C. Keysers, A Common Anterior Insula Representation of Disgust Observation, Experience and Imagination Shows Divergent Functional Connectivity Pathways, PLOS ONE 3(8), 2008, p.7. ». L’attivazione, come sottolineano Jabbi e colleghi, avviene in modalità a-specifica, opera, cioè, indipendentemente dal fatto che il disgusto sia il mio, in prima persona o quello che osservo in altri, rendendo le due condizioni poco distinguibili, trattandosi sino a un certo punto, della stessa attività neurale (diverse sono invece le aree motorie e viscero-motorie con cui l’IFO si interconnette nei tre tipi di esperienza) ed è proprio questa non perfetta separabilità, questa forte comunanza a rendere l’una esperienza conoscibile per l’altra.
Osservando meglio le prassi sperimentali poste in essere dalle due équipe, inoltre, è possibile inferire qualche utile informazione anche su emozioni diverse dal disgusto, qualora dovesse insorgere il dubbio che il meccanismo possa riguardare questa sensazione solamente. In entrambi i casi, infatti, per ridurre nelle cavie l’effetto d’abitudine, si è scelto di interpolare agli stimoli disgustosi analoghi stimoli (odori, espressioni facciali, letture) che suscitavano piacevolezza. Orbene, questi stimoli positivi si sono dimostrati in grado di produrre valori di attivazione neurale analoghi a quelli del disgusto, ma allocati in aree celebrali diverse, selettivamente deputate all’elaborazione di quei diversi contenuti emotivi. Da questo primo dato è plausibile desumere che il meccanismo mirror-emotivo funzioni, oltre che per il disgusto, anche per altri tipi di espressioni facciali a contenuto emozionale, ma solo quelle a contenuto emozionale, si badi bene, come sottolineano ancora Gallese e Guerra: «Questa risposta è è specifica per per l’osservazione di espressioni del volto che esprimono emozioni, poiché non è evocata dall’osservazione di movimenti del volto privi di contenuto emozionale11V. Gallese, M. Guerra, Lo schermo epatico, Cinema e Neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, p. 65.».
I quali pure concordano nel riconoscere l’esistenza di un meccanismo mirror-emotivo che si attiva a partire dall’osservazione delle corrispondenti configurazioni muscolo facciali degli altri nel passaggio già citato: « L’emozione dell’altro è prima di tutto costituita e compresa attraverso il riutilizzo degli stessi circuiti neurali su cui si basa la nostra esperienza in prima persona di quella data emozione. Osservare l’espressione facciale di un’emozione significa anche simularla internamente12V. Gallese, M. Guerra, cit., p. 67.»
A una concettualizzazione simile era giunto anche Iacoboni, ipotizzando l’esistenza di un nesso di causalità tra il livello del mirroring motorio e quello emotivo, secondo cui quest’ultimo, cioè l’attivazione comune di aree celebrali emotive tra esperiente attivo dell’emozione e osservatore, sarebbe una conseguenza elettrochimica della simulazione motoria, cioè dell’attivazione dei neuroni specchio delle aree motorie normalmente reclutate nella produzione attiva di quella configurazione facciale: «Nel cervello umano questa risonanza di tipo empatico avverrebbe grazie ad una comunicazione tra le reti di rappresentazione delle azioni e le aree limbiche, fornita dall’insula.
All’interno di questa rete, i neuroni specchio permetterebbero la simulazione automatica delle espressioni facciali osservate nelle altre persone, che a sua volta attiverebbe le aree limbiche producendo nell’osservatore l’emozione altrui [...]13M. Iacoboni, Imitation, empathy, and mirror neurons, «Annual Reviewof Psychology», 60 (1), 2009, p. 653-670.». Un’ipotesi, questa del nesso causale tra livello motorio ed emozionale dei processi mirror-like, che trova conferma anche nelle concettualizzazioni di Gallese e Capuana circa il differente ruolo che l’espressione avrebbe come parte integrante dell’esperienza emotiva, non quindi come sua semplice manifestazione: «Noi sosteniamo che la dicotomia “esperienza/espressione” delle emozioni, sopra discussa, non sia nient’altro che l’ombra che la dicotomia “percezione/azione” proietta nel dibattito sulle emozioni. Al contrario, un modello neuroscientifico maturo dell’esperienza emozionale dovrebbe considerare l’espressione dell’emozione come parte integrante dell’esperienza emozionale14F. Caruana, V. Gallese, Feeling, expressing, understanding emotions: A new neuroscientific perspective. Sistemi Intelligenti., p. 227.
Nel corso degli anni, è questo che a noi interessa, il meccanismo è stato testato anche su altri tipi di espressioni facciali, come il dolore, le sensazioni tattili e perfino il sorriso, in un esperimento condotto da Hennenlotter e colleghi, che evidenziano una serie di sovrapposizioni, di aree celebrali comuni, che si attivano tanto nel sorridere che nel guardar sorridere qualcuno, localizzate in regioni come la corteccia promemoria destra, la pars opercularis del giro inferiore frontale, l’opercolo parietale destro e l’insula anteriore sinistra, dimostrando così l’esistenza di una comune base neurale tra le due attività innescata visivamente : «Overlaps between the brain activation during observation and execution of smile expressions were located in the right premotor cortex and pars opercularis of the inferior frontal gyrus, right parietal operculum (SII) and left anterior insula. Observation of smile expressions further yielded signal increases within the posterior superior temporal sulcus (STS), fusiform gyrus and ventral amygdala.
The results show that perceiving and expressing pleasant facial affect share a common neural basis in areas concerned with motor as well as somato- and limbic-sensory processing. In concert with temporal regions serving the visual analysis of facial expressive features, a mapping of the observed expressions onto neural circuitries associated with the production of these expressions and its somatosensory consequences could provide a description of what the expression would feel like if produced in the observer. Such a mechanism is suggested to be important for empathic understanding of others' feelings15A. Hennenlotter, U. Schroeder, P. Erhard, F. Castrop, B. Haslinger, D. Stoecker, K. W Lange, A. Ceballos-Baumann, A common neural basis for receptive and expressive communication of pleasant facial affect, «NeuroImage», 26, 2005.».
E’ bene ribadire come tutti gli autori citati, nel riconoscere l’esistenza del meccanismo pure concordino nel mantenere separati i due livelli dell’ emozione attiva in prima persona e quello della sua osservazione sul piano del contenuto esperienziale. Osservare l’emozione altrui, per quanto implichi l’attivazione simulata delle medesime aree celebrali, non significa anche “sentire” quell’emozione a livello cosciente, ma ne permette una comprensione e una esperienza preconcettuali, espresse in un formato di rappresentazione strettamente corporeo e distinto da quello razionale-verbale astratto con cui formalizziamo i concetti razionali.
Ni De Lian: Il contagio emozionale e la distanza.
Tutti questi elementi ci permettono quindi di concludere che il meccanismo mirror-emozionale, in quanto operante in situazione cinematografica e attivabile a partire dalla osservazione dei comportamenti facciali di tipo emozionale altrui, possa essere uno strumento di interpretazione proficuamente spendibile nella descrizione delle dinamiche di senso che la visione di Your Face di Tsai-Ming Liang innesca nel suo spettatore. Questi, infatti, costretto al prolungato contatto visivo coi volti, stimolato continuamente dal variare e dal combinarsi delle loro espressioni, andrà incontro a quella forma particolare di attivazione empatica delle emozioni che Daniele Roganti e Pio Enrico Ricci Bitti definiscono come “contagio emotivo”, che distinguono da un primo tipo di empatizzazione di tipo «cognitivo», «che avviene quando si prova ad immaginare i sentimenti di una persona dal modo in cui si sta comportando o dal contesto, oppure quando si deduce l’emozione che un altro sta provando attraverso una serie di pensieri di tipo logico-razionale.
Il secondo tipo si riferisce invece al cosiddetto "contagio emotivo", che si manifesta quando si osserva una persona e si prova la sua stessa emozione. La percezione degli stati emozionali degli altri infatti può produrre "empatia emozionale spontanea", "contagio emotivo", o anche "’elicitazione nell’osservatore delle stesse emozioni e degli stessi comportamenti di approccio/fuga dell’osservato (Hatfield, Cacioppo e rapson, 1994). Il contagio emotivo è stato definito anche come la tendenza ad imitare gli aspetti verbali, fisiologici, e/o comportamentali dell’esperienza e/o dell’espressione emozionale di un’altra persona, che porta ad esperire e/o esprimere a propria volta quelle stesse emozioni: questo fenomeno consisterebbe in una condivisione spontanea, automatica e non consapevole delle emozioni altrui, in modo tale che chi viene contagiato vive le medesime emozioni dell’altro senza differenziazione tra il suo vissuto e quello altrui (Hatfield et al., 1994).16D. Roganti, P.E. Ricci Bitti, Empatia ed emozioni: alcune riflessioni sui neuroni specchio, in «Giornale italiano di pscicologia» n.3, 2012, pp. 591 - 615 [articolo], pp.566, 567 »
Per concludere il discorso sulle ragioni dell’empatica efficienza di Your Face si dovrà notare ancora che i volti sono enormi, ripresi da distanza ravvicinata, un fattore che anche sotto il profilo cognitivo ha la sua rilevanza. E’ accertato infatti il ruolo che la distanza esercita sui processi di attivazione speculare, come evidenziato da Fogassi e Rizzolati, che in un articolo ripreso da La Stampa dichiaravano: «Volevamo capire se i neuroni specchio svolgono altri ruoli rilevanti per la scelta del comportamento. Per verificarlo abbiamo analizzato gli effetti della distanza relativa tra l'osservatore e chi compie l’azione. Sebbene, infatti, sia completamente irrilevante ai fini della comprensione dell’azione in sé, la precisa conoscenza della distanza è cruciale per scegliere la reazione più adeguata e calcolare la possibilità di interazione”.
Questi risultati indicano che un set di neuroni specchio codifica gli atti motori osservati non soltanto ai fini della comprensione dell’azione ma anche per analizzare tali atti in termini di caratteristiche rilevanti nel generare appropriati comportamenti (valutare non solo cosa l’altro sta facendo, ma dove lo sta facendo e cosa posso fare io a seconda di cosa può fare l’altro)17 in «Tutto Scienze», «La Stampa», ed. del 18/01/2010».
In un lavoro sperimentale del 2009 Caggiano e colleghi18V. Caggiano, L. Fogassi, G. Rizzolatti, P. Thier, A. Casile, Mirror neurons differentially encode the peripersonal and extrapersonal space of monkeys, in «Science» 324, 2009, pp. 403-406. hanno indagato gli effetti della distanza sulle attivazioni neurali mirror-based nel macaco, sottoponendo le cavie all’osservazione di azioni compiute a distanze diverse all’interno e all’esterno del cosiddetto spazio peripersonale, quello a portata dell’azione della mano. L’esperimento ha permesso di rilevare innanzitutto l’esistenza di piccole popolazioni percentuali di neuroni che reagiscono selettivamente alla distanza, cioè che alcuni si attivano solamente durante l’osservazione di azioni entro lo spazio peripersonale (27%) e altri solo se l’azione è eseguita in quello extrapersonale (26%), ma anche che l’intensità dell’attivazione è sensibile alla distanza, per cui quando questa aumenta si avrà un aumento di attività di quelli selettivamente attivati dall’osservazione dello spazio extrapersonale, e al suo diminuire una maggiore estensione dell’attività di quelli dedicati alla codifica dello spazio peripersonale.
In questo sistema metrico-neuronale, l’apice di attivazione si avrà con la condizione di contatto fisico con l’oggetto e andrà a decrescere con l’allontanamento da esso. Le inquadrature di Tsai-Ming Liang sono colte da quella ravvicinata distanza la cui conseguenza visiva è il primo piano. Ovviamente lo spettatore interpreta il punto macchina, il punto di vista collocato nello spazio da cui la scena è ripresa, come il luogo del proprio collocamento nello spazio rispetto agli oggetti di visione, facendo proprie le relazioni spaziali che legavano questi alla macchina da presa. Di fronte ai giganteschi primi piani di Your Face, dunque reagirà, cioè il suo encefalo si attiverà, come quando nella realtà si trova di fronte a un volto assai vicino, ricevendone un’attivazione mirror-emozionale “ad alta intensità”, ovvero espressa ad elevati valori delle proprie possibilità di attivazione.
Conclusioni: livello stilistico e livello incarnato, una ricongiunzione funzionale.
In considerazione di quanto detto è ora più semplice scorgere il nesso funzionale che ricongiunge i due livelli di questa analisi, come quelli del film. La determinazione di ordine squisitamente stilistico di Tsai di perseguire una poetica della progressiva spoliazione formale dello stratificato costrutto filmico lo ha condotto all’assunzione di forme estetiche essenziali, in cui sono dismessi gli orpelli retorici tipici del film narrativo, come narrazione e recitazione, e in cui tutto si riconduce all’esperienza cinematograficamente primordiale della sola contemplazione dell’immagine fissa. Tra le molte immagini possibili Tsai, probabilmente proprio per le molte implicazioni di livello emozionale ed espressivo che veicola, sceglie quella ipercarismatica del volto. Questa riduzione del volto a spazio totalizzate dello schermo espleta una sua efficacia sul piano della fruizione filmica, un tipo particolare di coinvolgimento empatico dello spettatore, che partecipa, o quanto meno che comprende e si rappresenta il vissuto interiore dei personaggi anche in assenza di narrazione, recitazione e variabilità delle inquadrature, basandosi solo sull’osservazione di questi enormi visi.
Per rinvenire le ragioni di questa forma di contagio empatico, non potendone trovare nè sul piano stilistico nè su quello narrativo, toccherà cercare altrove e spostarsi al sottostante e meno strutturato livello dell’interazione corporea e visiva tra individui (reali o filmicamente rappresentati poco importa, come abbiamo dimostrato) in cui a dominare il senso sono le grammatiche animali delle attivazioni neurali.
Ci sembra dunque di poter ragionevolmente sostenere che esista un fil rouge, che senza soluzione di continuità si stende a connettere il livello stilistico e quello relativo alle dinamiche di embodiment che inconsciamente la visione di Your Face innesca, e che i rispettivi paradigmi d’analisi possano essere fruttuosamente essere integrati nella lettura congiunta di oggetti filmici.