«L'importante per me era sfidarmi ancora, superare quello che avevo già fatto, e dopo aver fatto crollare le montagne in Monte (Amir Naderi, 2016), per andare avanti in quella direzione avrei dovuto aprire gli oceani come Mosè. Quindi ho capito che era il momento per un cambio di direzione radicale rispetto a quello che ho fatto sinora, una sfida che investisse anche il piano stilistico, qualcosa che non avevo mai fatto prima».
L’esito insolito di queste premesse battagliere si intitola Magic Lantern, presentato fuori concorso alla 75ª Mostra del Cinema di Venezia, e davvero Naderi sembra aver vinto la propria sfida con l'inaspettato e l’ineguale a sé a guardare questo film di vibranti sentimenti e atmosfere tenui. «Ma che diavolo è? Naderi?…Naderi che fa lui e lei che parlano amoreggiando nello specchio come in un film di Jacques Demy? Ma no! E’ impossibile!...già me li immagino i “fan” di Naderi» è consapevole del rischio di scontentare i puristi del naderismo, il nostro apolide del cinema, più di tutto avvezzi a quella sua poetica ruvida, di passioni forti e terribili e intensi stimoli sensoriali, di cui Monte è forse campione. Ma la coerenza, in soggetti di questa schiatta, è forza travolgente e oscura, che sulla considerazione dei rischi ha finito per lasciar prevalere quel «Amir se ci credi devi farlo, a prescindere dal resto!!!» che gli rimbombava in testa mentre pensava ai puristi cinefili potenzialmente scontenti.
C’è in verità poco da essere scontenti di fronte a questo film che, pur nella diversità dal resto della produzione naderiana, riesce a esprimere una complessità che dovrebbe soddisfare i più barricadieri tra i cinefili. Magic Lantern, infatti, è una struttura multilivellare, che permette una pluralità di pratiche di lettura dipendenti dal tipo e dal grado di competenza filmica dello spettatore. L'apparente leggerezza del livello più epidermico, una commedia di teneri amori, già offre un primo grado di complessità, dal momento che è dipanata su piani di realtà differenti, gradi differenti di consistenza dell'esistente incagliaiti tra reale oggettivo, sogno e fantasmaticità filmica. Su questo sostrato, per chi abbia il piacere e le competenze per seguirlo lungo un non scontato percorso di citazioni e rimandi intertestuali, Naderi innesta un più complesso ordito riflessivo, metalinguistico e cinefiilico, che mette in scena il suo commosso adieau au langage, un commiato affettivo, ma epurato da rimpianti, in cui la riflessione teorica si coniuga con l'affettuosa celebrazione del grande cinema del passato e delle teknè spicciole del suo farsi analogico.
In Magic Lantern si cerca disperatamente una donna, un'identità, un fantasma, e soprattutto l’amore, ma d'altronde il tema della ricerca ossessiva è piuttosto ricorrente nell’opus naderiana, se si ricordano film come Tangsir (Amir Naderi 1973) e Vegas: Based on a True Story (Amir Naderi, 2008), storie di ricerche che diventano ossessioni in cui però, qui sta la differenza rilevante, l’oggetto di valore era un che di distruttivo, come la vendetta o il denaro, capace di effetti nefasti sulle vite degli uomini. In Magic Lantern il sacro Graal è il più tenero dei sentimenti, l’amore, il che mi porta a domandare ad Amir se qualcosa nel cuore granitico di Naderi non sia andato ammorbidendosi con gli anni: «In realtà si tratta di un percorso che avevo iniziato molti anni fa, con Waiting (Amir Naderi, 1974), che era un film molto personale e volto all’interiorità.
Fu censurato nel mio paese e vinse un premio della giuria a Cannes », una linea di sviluppo dell’indagine che lì bruscamente si era interrotta, dopo quel solo episodio, a causa dell’incalzare di eventi che è stata la sua burrascosa vita: «Ma poi la lotta per sopravvivere, come uomo e come film-maker, la fuoriuscita dal mio paese, le difficoltà continue, mi hanno allontanato un po’ da quel tipo di riflessioni, spingendomi a fare un cinema di sentimenti estremi, di passioni forti, che hanno sempre richiesto una certa irruenza sul piano espressivo». Dunque è solo ora, a più di quarant’anni di distanza, che Amir sente arrivato il momento giusto per riprendere in mano le fila di quel discorso interrotto a fior di labbra, ripiegandosi sull’analisi di sentimenti delicati e intimi. Un’emozionalità che noi amanti del suo cinema non gli riconoscevamo forse abbastanza, per quanto il suo senso alato di umanitarismo fosse stato sempre ben leggibile nelle opere, un'urgenza dei sentimenti che lo ha sempre accompagnato: «Sono sempre stato così» mi dice con un sorriso quasi timido «solo che con il tipo di film di che ho fatto non ho potuto mostrarlo più di tanto» .
Un film, Magic Lantern, che può piacere ai critici perché strategico nell’utilizzo di ogni suo codice, a cominciare da quel titolo che per ammissione dello stesso Amir serve ad orientare preventivamente la ricerca di senso di uno spettatore che, sapendo di avere a che fare con una lanterna magica, antesignana del cinematografo, esplorerà da subito il corpo filmico in cerca di indizi che afferiscano ai processi di coniazione primaria di immagine, alla proiezione della luce creatrice di icone, al cinema nel suo farsi o alle origini della settima arte. Ma anche un titolo che dichiara precise intenzioni, se si considera la non casuale omonimomia con l’autobiografia di Bergman, collezione preziosa di ricordi cinematografici che nulla ha di nostalgico, come Amir ci tiene a sottolineare: «Ricordi, non rimpianti, fanculo i rimpianti!!! Ho voluto fare un film che fosse come quel libro, quindi non un’operazione sulla nostalgia, e nemmeno la celebrazione di una qualche età dell’oro del cinema ormai perduta, semmai è un film sulla memoria, un richiamare alla mente senza rimpianti, ma con affetto infinito quel cinema, questo sì, ma non c’è alcuna forma di rimpianto». Le strategie testuali attraverso cui Naderi mette in essere questo suo affettuoso omaggio ai fantasmi di un cinema spazzato via dal digitale sono molteplici e funzionalmente intrecciate nell’ordito filmico, dunque è solo per comodità d’analisi che prenderemo in considerazione separatamente il livello che chiameremo del “citazionismo affettivo” da quelli del “riferimento stilistico” e della “ocularizzazione feticistica delle componenti tecniche del cinema”, che così denominiamo per pura convenzione.
Quello che rubrico come "citazionismo affettivo" coincide con la pratica naderiana di un continuo accoglimento di suggestioni, atmosfere e ispirazioni provenienti dai film che più ama, in uno scambio senza posa tra il film allo stato attuale di esistenza e il cinema “fantasma”, immanente nell’assenza, vivo solo attraverso la rievocazione affettiva e filmica. Non è difficile scorgere la provenienza minnelliana di certa levità magica che si profonde nella deicatezza di certe scene. Soprattutto la palette e le colorimetrie fortemente emozionali, luminose ma discrete, mai sgargianti o eccessive, sembrano ispirarsi all’uso che ne faceva il regista di Two Weeks In An Other Town (Vincent Minnelli, 1962), e interrogato Naderi non solo conferma questa intuizione, ma rilancia continuamente: «Se guardi tutta l’estetica estremamente retrò del negozio, in stile Hollywood classica, imbellettata e infiocchettata, è visivamente minnelliana. Ma più di tutto ho voluto far rivivere certe sue qualità di cineasta nel personaggio di Jaqueline (Bisset), tutto modellato sul tipo di donne eleganti e sobrie che lui portava sullo schermo. The Bad And The Beauty (Vincent Minnelli, 1952), Two Weeks in an Other Town e soprattutto The Band Wagon (Vincent Minnelli, 1953), anzi Jaqueline è come se fosse Cyd Charisse di Band Wagon quarant'anni dopo, e infatti la faccio ballare su quella musica come faceva lei, ed è stupenda.»
«Rosebud» dico io a un certo punto: «tutta la sotto trama relativa alla ragazza, la ricerca della sua identità che via via ne rivela molteplici altre, e che ci sfugge nel momento stesso in cui sembriamo averla trovata, pare un’omaggio a Citizen Kane (Orson Welles, 1941)». Naderi “mi batte il cinque” (!!!) emettendo un prolungato «yeah man!» e mi spiega concitato: «avevo in mente Rosebud sin dall’inizio, scopriamo via via i molti nomi della ragazza e le sue molte vite come scoprivamo una diversa identità di Kane a seconda di chi fosse a parlarne e proprio come la sua leggendaria slitta, che finisce al fuoco nel momento esatto in cui lo spettatore la identifica, lei ha l'incidente nel momento stesso in cui finalmente lui la trova, capisce chi è e dove si trova, ma gli sfugge per un soffio.
Contemporaneamente vediamo che la pellicola salta e si brucia, facendola sparire completamente…mi piaceva l’idea di un’identità che resta molteplice e inafferrabile, che resta comunque un mistero anche di fronte ai nostri sforzi per conoscerla, perché in fondo, la vera identità, la verità, degli uomini ci rimarrà sempre sconosciuta» Inevitabile anche il riferimento a Hitchcock, che mi pare di rinvenire, ma Amir lo ha confermato, nell’applicazione fruttuosa della tecnica delle “marche testuali isotopiche”, con cui il maestro inglese era solito costruire i suoi film. Si tratta in sostanza dell’abitudine che aveva Hitch di disseminare il film di presenze minute, piccoli indizi visivi che continuamente rimarcassero il tema di fondo del film all’attenzione dello spettatore, come le molte macchine fotografiche, le fotografie e i dispositivi meccanici per la visione che si affollano in Rear Window (Alfred Hitchcock, 1954), metafiim per eccellenza sulle pratiche di significazione filmica, che rinviano insistitamente l’attenzione ai processi della produzione di immagini, o i molti indizi pennuti (la coppia di “inseparabili” i teneri uccellini che innescano l’incontro tra Mitch e Melania nel negozio di animali, l’attacco del gabbiano a Melania, l’uccellino morto che trova la maestra ecc. ecc.) con cui in The Birds (Alfred Hitchcock, 1963) costruisce la suspence in un crescendo tensivo che culmina nell’attacco ai bambini.
Interrompiamo solo temporaneamente il discorso sul citazionismo per rilevare che è a questo livello, quello della disseminazione isotopica di marche testuali afferenti al tema del cinema passato, delle sue pratiche e delle sue competenze artigiane, che si espleta quel livello della rievocazione affettiva che ho chiamato della “ocularizzazione feticistica delle componenti tecniche”. L’affetto di Naderi è anche quello per tutto quell’insieme di saperi tecnici, manualità e tecnologie su cui sta calando l’oblio del digitale, un affetto da regista, che si esprime mostrando, inserendo le cose nel corpo dei propri film per omaggiarle. Ed è per questo che nelle immagini di Magic Lantern continuamente tornano i vecchi proiettori, gli obiettivi, le bobine e soprattutto la pellicola, feticcio d’elezione di registi, montatori e proiezionisti, che qui non solo si replica reiteratamente in visione, ma viene addirittura toccata, accarezzata con la voluttà che solitamente si riserva a pelle di donna «Accarezzando la pellicola sta accarezzando lei, la donna che ama, che poi è il cinema, la sua essenza», sino a scoprire in essa il supporto ineliminabile per la vita stessa, se accolta nella sua accezione fantasmica, della finzione filmica, come dimostra la scena in cui, rompendosi la pellicola, lei svanisce perdendo ogni residua consistenza materica.
Tornando invece, per concluderlo, sul discorso del citazionismo affettivo è Amir stesso a rivelarci inconfessabili passioni cinefiliche. A parte la scena del primo incontro con lei, al negozio, interamente modellata sulla scena di Vertigo (Alfred Hitchcock, 1959) in cui Scotty al bar cerca Madeleine\Judy con lo sguardo e poi lei avanza voltandosi, alcuni omaggi possono ancora sorprendere, come quello a Ugetsu Monogatari (Kenji Mizoguchi, 1953) di Mizoguchi, che realizza attraverso le due figure fantasmatiche femminili «perché il fantasma di quel film è talmente fascinoso e reale, che ogni volta che lo mostro in classe ai miei studenti poi ho l’impressione che lei mi segua veramente», o il riferimento ai film di Ophüls come Lola Montès (Max Ophüls, 1955), La Ronde (Max Ophüls, 1950), Pleasure (Max Ophüls, 1952), di cui omaggia e fa sua la sensibilità d’uso del medium cinematografico, la caratura emozionale e magica nell’impiego di suono e immagini.
Al centro della vicenda troviamo un giovane proiezionista, «piccolo omaggio al fantastico Keaton di Sherlock Jr. (Buster Keaton, 1924), in cui fa il protezionista e sogna sé stesso all’interno di un film», personaggio sintomatico della vocazione metafilmica dell’operazione di Naderi. Per professione, infatti, il proiezionista vive sempre in bilico tra sogno e realtà, finzione filmica e fantasticheria. Non è strano quindi che si veda come protagonista del film che sta proiettando, in cui incontra questa misteriosa ragazza di cui inizia la ricerca. «Un lavoro legato al mondo dell'immaginazione, della fantasia, il protagonista guarda i film e fantastica, vive parte della sua vita dentro a questo sogno fatto di cinema e parte fuori da esso, nella realtà, ma nella sua mente non c’è discontinuità tra le due dimensioni. Ogni giorno si cala nei mondi fantastici e irreali dei film che proietta, esercita la sua fantasia, la adotta come modalità di vita, quindi nel film non sappiamo mai se quello che vediamo è il suo sogno, un film che sta vedendo e vivendo, o la realtà. Gli basta sfiorare un manichino (altro simulacro, forma di riproduzione dell’immagine umana, noto io) per iniziare a fantasticare. Ma che siamo in un sogno forse può risultare chiaro già dall'inizio, quando nelle prime inquadrature il ragazzo, correndo, arriva dove ci sono degli orologi, che se guardi bene sono tutti fermi, perchè il tempo nel sogno, il tempo a Hollywood, magicamente si ferma.» Questo elemento di incertezza ontologica, di impossibilità di giudizio circa lo statuto di realtà delle cose è la cifra caratteristica dell’intera operazione «Un film-sogno, che è come i sogni, i fantasmi, non risponde a logiche razionali, non offre risposte, anzi ho fatto un film che pone solo domande e non da alcuna risposta».
Effettivamente basandosi sul solo dato schermino è arduo, forse impossibile, inferire se il giovane sogni o fantasticando sostituisca la propria immagine a quella del protagonista di un film in corso di proiezione, o se veramente abbia recitato nel film, così come è impossibile stabilire in via definitiva se la fanciulla di cui s’ossessiona esista veramente, sia il personaggio di un film o addirttura un fantasma, visto che in corso d’opera veniamo informati della sua prematura dipartita. Gioca con le mille possibilità di un’identità liquida Naderi, moltiplicandola per il numero delle bocche che la descrivono e rifrangendola nella moltitudine d’occhi che l’hanno spiata, indìce relazioni instabili tra chi avevamo creduto madre e figlia mostrando le loro immagini riflesse in una sovrapposizione identificatoria perfetta. Insinua dubbi più che dare spiegazioni il regista di The Runner (Amir Naderi, 1984), lascia intendere che le due figure femminili siano metafore del cinema (si dissolvono insieme alla pellicola che si rompe) e al contempo lo nega, ed esattamente come voleva, crea un mondo di sogni e presenze fantasmatiche «Esiste davvero questa figlia, visto che la madre, Jaqueline Bisset, racconta di averla solo adottata o è un macguffin puro, un semplice pretesto per visualizzare l’immagine giovane di questa madre ex-diva, una proiezione onirica della sua fame di giovinezza, il sogno chimera di tutte le dive? non ho risposte da darti se non altre domande, ma proprio questo volevo, pur sapendo di mettere in difficoltà il pubblico, creare un paesaggio di sogni, di fantasmi…quando guardo certi vecchi film mi capita di provare una strana impressione. Vedo, riconosco quei volti familiari, quello è Bogart, quella la Bergman…mi parlano e ne riconosco le voci…ma so che non sono reali, non esistono, sono fantasmi, tutta quella Hollywood, quelle atmosfere, quel mondo, tutto è diventato fantasma, ecco perché per rendergli omaggio non potevo fare altro che un film di fantasmi.»
E il gioco delle possibilità e dei travisamenti inizia subito, con Naderi che impone allo spettatore una premessa falsificante mostrando nell’incipit l’iconica scritta Hollywood poggiata sul fianco del monte Lee, terra franca di sogni e sognatori, gettando l’ombra del dubbio sulla possibile consistenza finzionale di tutto quanto si vedrà in seguito. E come lui mi ha fatto notare gli orologi che incontra il ragazzo poche inquadrature dopo durante la sua corsa sono tutti fermi, come a misurare un tempo sospeso, incantato. Si noterà anche che la ragazza non lascia impronte mentre cammina sulla spiaggia con lui. La scena della spiaggia, visto che ne parliamo, è alquanto particolare per riuscita visiva e la narrazione della sua acrobatica realizzazione tecnica merita di essere ascoltata. I due ragazzi si ritrovano come per incanto su un’assolata spiaggia di sogno dopo che finalmente lui era riuscito a trovarla tra l’ombra chiusa dentro a un’armadio, il solo luogo in cui lei, che ormai alle ombre appartiene, possa ancora esistere. Si potrà osservare, intanto, che il passaggio dalla tenebra alla luce come forma di traduzione visiva del passaggio da una fase di chiusura o negazione del sentimento a una di apertura ci riporta a Monte, a quella liberatoria deflagrazione luministica conclusiva che chiudeva il film e i destini degli uomini.
A un certo punto le immagini immobili dei due ragazzi iniziano a slittare lateralmente a grande velocità sparendo fuori dal margine laterale del quadro come se una invisibile mano le trascinasse con forza fuori dai bordi dell'inquadratura, ogni inquadratura dura pochi secondi e l’immagine di ognuno sparendo lascia posto all’immagine dell’altro, quasi che improvvise cesure di montaggio siano intervenute a spezzare la continuità di ogni moto, generando una sorta di circolarità, di loop allucinatorio in alternanza. Un effetto visivo insolito sulla cui natura interrogo: «è stata una scena complicatissima da girare perché, come tutto il resto, tranne l’effetto delle impronte della ragazza, volevo farlo senza l’ausilio di effetti di post-produzione. Trattandosi di fantasmi, pure immagini filmiche, non volevo riprendere i corpi reali degli attori, ma una qualche forma della loro presenza fantasmica, così ho deciso che avrei ripreso solamente le loro immagini riflesse in tantissimi specchi conficcati nel mare, e passando lateralmente da uno specchio all'altro ottenere l'effetto di slittamento delle loro immagini che segnalavi tu. Le immagini che vedi slittare in realtà sono le loro immagini riflesse in molti specchi, e slittano perché la macchina da presa si muove rapidamente da uno specchio all’altro. Al di là della difficoltà tecnica, del dover posizionare gli attori in modo che si riflettessero in tutti gli specchi nel modo giusto, non sono riuscito ad avere tutti i permessi che occorrevano per posizionare gli specchi nell'oceano, ma quando mi metto in testa una cosa…diciamo che è una scena“pirata”!»
L’altro livello della celebrazione cinefilica posta in essere da Naderi è quello che ho chiamato per convenzione dell’"evocazione stilistica”. Per lui si tratta dell'adozione di un «linguaggio cinematografico della memoria», una pratica registica che riattualizzi modi della ripresa, del montaggio e delle colorimetrie caratteristiche di quel cinema passato su cui la sua passione cinefila si è formata ed esercitata per tanti anni facendole affettuosamente rivivere tra le pieghe di Magic Lantern. Nelle scene del negozio c’è tutto un spirito retrò di movimenti laterali di macchina su cavalletto, la cui funzione è quella di seguire pedissequamente ogni minimo spostamento dei personaggi, che rinverdisce i fasti di quel cinema “classico”, un po' ingenuo e goffo per lo sguardo spettatoriale medio contemporaneo, ossessionato dalla centratura del quadro, dal dover scrupolosamente tenere il soggetto principale quanto al centro geometrico dell’inquadratura. I colori stessi sono quelli della Hollywood di quegli anni, aspirano a riprodurre gli effetti derivanti dalle tecnologie ottiche e dai tipi di pellicola che ne erano il supporto: «Sì, ho voluto caricare il livello stilistico di una particolare importanza di senso. Considera che questo è un film girato in digitale, un mezzo che implica precise possibilità di movimento, di colore, eccetera, quindi il fatto che il risultato sembri girato in pellicola, e che sia girato in certe parti come un film degli anni '40 o '50 sono scelte intenzionali. E' il mio “linguaggio della memoria”, lo stile che mi riporta a un modo di fare il cinema che ho amato tantissimo e a cui rendo omaggio facendolo rivivere un’ultima volta».
E il fatto che sia girato in digitale un peso lo ha anche perché proprio l’irruzione del digitale è la causa prima di dispersione del cinema che oggi Naderi celebra e ricorda, delle sue tecniche e tecnologie. Girando in digitale e assoggettando questo strumento di natura computazionale alle logiche e alle estetiche estranee dell’analogico, non solo Amir dichiara implicitamente una precisa volontà di usare lo stile filmico come medium di negoziazione di contenuti significanti (l’omaggio a un modo di fare cinema espresso attraverso l’assunzione del suo orizzonte stilistico), ma attualizza con la pratica produttiva quel superamento dell’analogico da parte del digitale che in modo sottaciuto è il tema di fondo del film: «il digitale è l’inevitabile futuro, non ci si può fare niente, io lo vedo come un cambiamento, non come una perdita, è lo strumento che usano le nuove generazioni e la sua forza è la facilità: rende tutto più semplice, più semplice il finanziamento dei film, che si fanno a costo quasi zero, semplifica la tecnica, rende più facile fare riprese praticamente ovunque, in qualsiasi momento e senza l'ingombro di complesse strutture da montare e smontare. Ma la grande facilità è anche la sua grande pericolosità, perchè disponendo di cose facili si tende a dimenticare quelle difficili, si disimpara il senso “educativo” della difficoltà, le pratiche complesse vanno “perdute nel tempo come lacrime nella pioggia” (Blade Runner, Ridley Scott, 1982, Cit.) il cambiamento dovrebbe restare tale, non diventare una perdita, ma essere trasformazione».
La questione del digitale interseca le traiettorie significanti del film anche ad un altro livello, inserendosi come dato perturbante nel più generale discorso che fa sull’identità. Durante la spasmodica ricerca della ragazza, infatti, e come ci ha già spiegato il modello ideale era la Rosebud di Citizen Kane, via via che le sue molte vite e identità alternative vengono a galla insieme alla lunga lista dei suoi molti nomi si compone un’idea aleatoria e instabile di ciò che chiamiamo “identità” e del suo essere una consolidata configurazione di relazioni tra identità corporea, identità antroponomastica e identità comportamentale, che già rappresenta un primo livello dell’interrogazione di Naderi sull’identità, ma che nel film dialoga continuamente con un polo ulteriore della diatriba, il nuovo livello della dispersione identitaria, che è il digitale, la nuova forma, parcellizzata e smaterializzata tra account social e memorie dei cellulari, della nostra vecchia e unitaria identità, con tutte le rinnovate possibilità di memorizzazione e connettività interpersonale che offre, ma anche con le sue assenze e perdite (del corpo, del contatto) e le sue infinite possibilità di falsificazione.
Le uniche certezze su chi sia l’amata giovane, in un turbinio di identità presunte reali posticce e simulatorie, arrivano al proiezionista dalle foto e dai piccoli video contenuti nel cellulare che lei ha smarrito «come una versione tecnologica della scarpa di Cenerentola». Il dispositivo virtualizzante è anche l’unico luogo di condensazione e memorizzazione, per quanto sempre opinabile e potenzialmente falsificabile, della nostra presenza: «Ormai tutta la nostra identità, il nostro sistema di relazioni sociali, le nostre memorie, i nostri affetti, sono custoditi da questo piccolo “coso” (e alza il suo cellulare agitandolo leggermente). L'elenco di persone salvato nella nostra rubrica o nei contatti è la misura dell'estensione della nostra rete di relazioni sociali e lavorative, l'insieme delle persone che ci conoscono. Nel film possiamo definitivamente dire che la ragazza sia sparita solo quando verifichiamo che nessuna delle persone contenute nei suoi contatti o nella rubrica del cellulare ha notizie della sua esistenza. Il telefonino è la nuova forma della nostra proiezione di identità, come prima era il cinema. E infatti dove ritrova lui i piccoli pezzi dell'identità di lei, i suoi ricordi, le sue parole, le sue paure, che gli permettono di avanzare nella ricerca? Sempre nello scrigno-memoria del cellulare, dove conserviamo le nostre immagini, e i video, i ricordi di lei, i nostri ricordi. Ricordi che sono immagini e film. Il cellulare è anche il nuovo schermo, la direzione e la dimensione verso cui inesorabilmente va il cinema, il cinema del futuro».
Il cellulare in quanto schermo, nella sua funzione di produttore e registratore di immagini luminose in movimento (la lanterna magica 2.0), ha il ruolo di interlocutore terzo nel sistema multilivellare di realtà e schermi su cui si struttura il film, convitato di pietra nella dialettica analogico-digitale che informa l’opera tutta. Magic Lantern, infatti, si sviluppa su una struttura di più film disposti “a Matrioska” in cui il livello di realtà messo in scena da ciascuno dovrebbe, a rigor di logica, essere “contenuto”, in quanto realtà simulata, nel livello di realtà del film che lo contiene. Noi spettatori vediamo un film (e crediamo che la realtà che rappresenta sia quella oggettiva) che contiene un altro film, la cui realtà quindi dovremmo percepire come simulata all’interno della realtà oggettiva, che mostra a sua volta un film contenuto in un cellulare, la cui realtà dovremmo recepire come simulazione all’interno della simulazione. Ho però usato il condizionale, perché questo sistema di distinzioni dipende dal rispetto di quella convenzione visiva che chiamiamo “Mise en abyme”, l’immagine nell’immagine, che Naderi con astuzia viola ripetutamente per creare il grado di confusione tra piani di realtà e finzione che stava cercando. Bisogna infatti ricordare che l’economia semantica di cui ci serviamo durante la fruizione di un film è a prevalenza visuale, e che la produzione di significati a quel livello è per lo più pre razionale e pre verbale, producendosi a partire da indicazioni di tipo visivo, come i rapporti dimensionali, prossemici, le qualità cromatiche o volumetriche.
La percezione dei vari gradi di finzionalità delle immagini filmiche contenute in altre immagini filmiche dipende in larga misura dalla presenza di particolari “indici visivi di finzionalità” e infatti permane sin tanto che restano visibili la cornice, i bordi, la superficie o lo schermo che limitano fisicamente la seconda immagine, dichiarando, all’interno dell’immagine a schermo intero e della realtà che assumiamo come realtà di primo grado, la sua natura di immagine artificiale, proiettata, imitativa e fisicamente limitata dalle dimesioni del suo supporto fisico. Di contro si tende ad obliterare la finzionalità dell’immagine a schermo intero e a ritenerla una forma di continuità con la realtà in cui siamo posizionati come spettatori. Naderi quindi, che dopo pochi istanti lascia slittare l’immagine che prima era “en abyme”, schermo nello schermo, nel totalizzante schermo intero, fonda la costruzione del proprio mondo onirico e multilivellare a un grado primordiale della produzione di senso, in cui è l’equiparazione dimensionale delle due immagini, il fatto che ometta gli indici visivi che consentivano di discriminare una immagine (e una realtà) di primo grado da una di secondo grado, a fondare l’idea di una equiparazione degli statuti di realtà delle vicende che vediamo in immagine. «Volevo creare una struttura con più livelli di realtà, o di finzione, a seconda di come la guardi, e un primissimo livello arriva già all’inizio, quando mostro a scritta di Hollywood, un simbolo assoluto del sogno e della finzione. Se siamo a Hollywood, dove tutto si confonde non possiamo essere certi della natura di ciò che si vede. E’ realtà, finzione o stiamo guardando un film? O è il ragazzo che guarda un film? e dove ci troviamo, nel film che stiamo guardando ora, in quello che guarda il ragazzo, nel cellulare, dove? non deve mai essere possibile dirlo con certezza, perché siamo nel mondo dei fantasmi e dei sogni.»
Semmai si potrà sottolineare come ridiscendendo i vari gradi di realtà presenti nei diversi film quello delle immagini del cellulare (sebbene appartenente all’ontologia fittizia di un film contenuto in un film) sia l’unico che conserva una relazione di primo grado con la realtà che iconizza in quanto sua registrazione diretta e non mediata da istanze di tipo drammaturgico e finzionale, non frutto di una messinscena, di un’intenzione registica, come invece lo sono sia le immagini del film che guardiamo come spettatori sia quelle del film in esso contenutio. Mentre le vicende del giovane proiezionista, della ancora avvenente ex-diva del cinema e della fantasmatica fanciulla vivono a cavallo tra finzione e realtà, costruzione drammaturgica e fantasticheria, le immagini del cellulare sono il solo frammento di verità oggettiva presente nel film, i veri ricordi, registrati senza infingimenti di una ragazza (sulla cui consistenza di realtà si può, anzi secondo Naderi si deve, certamente obiettare). Anche in questo senso, quindi, Naderi riafferma quell’ipotesi di sopravanzamento del digitale sull’analogico che fa da matrice concettuale a Magic Lantern, riconoscendo quella digitalizzata e dispersa, come ultima forma possibile di rappresentazione della nostra identità, capace, più dell’ormai vecchio cinema, di farsene depositaria.
Per concludere gli chiedo se c’è qualcosa di cui vorrebbe parlare che non gli ho chiesto io «La musica!!! Non hai notato che in questo film uso la musica? Per me è una sfida nella sfida!!! anche perché la ho composta io. E’ stata una ricerca molto molto lunga. Alla fine ho trovato quel senso di trasporto sentimentale che cercavo, nel bellissimo tema che Nino Rota ha composto per La Strada, anche la situazione drammatica è simile perchè Zampanò ha perso la ragazza, e quella musica è davvero stupenda. Avendo in mente il tono emotivo del pezzo di Rota, il suo andamento melodico, ho buttato giù una rudimentale versione del tema e poi ci ho lavorato con Alex Kovacs un bravissimo compositore. E quindi diciamo che la componente emotiva, il sentimento si ritrova nella componente musicale, poi c’è quell’altro suono, quel rumore oscuro che si sente ogni volta che il tempo a disposizione della ragazza sta per finire e lei sta per sparire ancora. E’ un’assemblaggio di suoni notturni provenienti da Monte, in cui se ricordi, quel suono era la voce di forze oscure e ancestrali. Qui significa la stessa cosa è il richiamo delle forze della notte, della morte, che la richiama a sé.»