Tra le rovine del comunismo, uno spettro si aggira nei deserti di una generazione, e lì, tra edifici collassati, Olivia Lonsdale incarna ciò per Alex Williams è questo (nostro) sentire (il sentire di una intera generazione)
Cosa è questo essere nati troppo tardi? Questo sentire di essere nati troppo tardi? La sensazione di essere venuti dopo qualcosa… Ma questo guardare al passato come a un età dell’oro dai grandi momenti, delle grandi storiche conquiste – e nel film la parola ‘passato’ tuonerà e salirà come un mantra, ripetendosi come in un rituale magico– non tradurrà l’oblio in nostalgia, non guarderà esotico a un ritorno dello stesso; annullerà, bensì, l’idea stessa di futuro che in quegli anni amorevolmente vi si cucì per i nuovi arrivati. L’impossibilità di rapportarsi con questa linea del tempo, l’impossibilità di procedere verso un proprio generazionale futuro non lascia spazio se non al ripensare a quella passata idea di futuro. O accelerare, verso una densa automazione del presente.

Metahaven e Rob Schröder, alternano, in un lapidario video-essay (con contributi teorici di Nick Srnicek, Alex Williams e colonna sonora di Laurel Halo) una diagnosi-collage con immagini di repertorio (da archivi you tube sino a sciolte riprese della base aerea croata) porzioni di fiction di quello scorrere che è Olivia Lonsdale, aprendo addosso apocalittici paesaggi di liquefazione digitale. Queste le nostre antichità, questo il nostro classico e queste le nostre rovine.

Un commosso Füssli costernato difronte alla grandezza dell’antico o quell’atteggiamento piranesiano di scavare e ritrovare l’origine archeologica delle cose ripensandone l’immaginario; un viandante, un pellegrino che indugia tra distruzioni od occupazioni ricostruendo costumi e funzioni, fasti, vanità. Ma qui nessuna feconda melanconia; voci recitano come salmi (e tra salmi) la fine di un mondo e di una vita e accompagnano tra rovine e cose morte, sommandosi in una devastante contemplazione di resti di città rase al suolo, di strumenti per il riconoscimento facciale, di dispositivi per il controllo, selfie estremi, make up tutorial… La guerra al terrore ci ha preparati alla normalizzazione della crisi, a uno stato di emergenza diffuso e perpetuo, tanto che –per continuare a citare Fischer- è più semplice immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo (e a tal rigore, riporta la celebrazione della distruzione dello spazio pubblico quale requisito d’eccellenza del neoliberismo - ridisegnato splendidamente in Children of Men di Cuarón: il mondo non finisce con una esplosione, ma lentamente sgretola via. La fine è già adesso).

Ma Possessed insiste sul fallimento del futuro, sulle aspettative mitologiche costruite negli anni sull’idea dello stesso, sull’effetto che il processo di digitalizzazione ha avuto sui nostri volti, sui nostri corpi, sui nostri pensieri, sterilizzando e creando un nuovo sentire, un nuovo percepire, una nuova, irreversibile idea di sicurezza, capillare, entro i nostri passi, entro la nostra epidermide. Nuovi scudi, nuove corazze, una nuova iconografia, una nuova vanità, una nuova comunicazione: una nuova lingua? Una lingua guardata, masticata, condivisa. Una lingua morta.

Un diario di viaggio di un grandtourista del futuro sul mito di questa rovina che è il reale. Diremmo, su quel fantasma che è il nostro presente.

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