Nei film diretti da Craig Zahler, scrittore, musicista e regista, prima o poi succedono cose terribili (scene di cannibalismo, teste spiaccicate, pestaggi, torture…) ma accadono con tutta calma, senza fretta – se di una certa “fretta” si può parlare, questa è riservata semmai alle scene culminanti, quelle che un tipico regista hollywoodiano cercherebbe in tutti i modi di valorizzare. Zahler, invece, si diverte a “rallentare”, inserendo particolari che non hanno diretta attinenza con la storia raccontata, o sembrano inessenziali, oppure mettendo in bocca a personaggi di modesta o rustica estrazione considerazioni complesse sulla vita e sulla morte (spesso auto-ironiche) degne d’un filosofo, o d’uno scrittore (quale Zahler è).

Anche così manipolata, l’appartenenza del film a un determinato genere (il western/horror, il noir) non viene meno ma acquista valenze nuove. La tensione aumenta man mano, senza mai veramente scaricarsi, la missione degli eroi positivi (sempre solo parzialmente tali) giunge a compimento: ma di solito, compiuta la rischiosa missione, l’eroe muore. Si tratta di film che lasciano frustrate le aspettative dello spettatore. Alla resa finale dei conti, i conti non tornano mai completamente. È una tensione che aumenta senza mai scaricarsi del tutto: si può dire che si tratti di film anti-aristotelici, tragedie dove non esiste catarsi, se non parziale.

Film non-consolatori, dunque, come tali portatori d’una valenza politica latente. Film hollywoodiani anti-hollywoodiani, tutt’altro che legati al patto tacito segnato tra politica del consenso e pratica del “lieto fine”. C’è violenza, c’è ferocia, c’è razzismo, alle basi stesse della società americana, e allora il genocidio degli indiani può tornare, all’inverso, come incubo: gli indiani sterminati tornano come trogloditi o abitanti delle caverne, più bestie che uomini, spettri selvaggi antropofagi, divoratori di quelli che nella storia sono stati i loro carnefici. 

In questo senso, Bone Tomahawk rispecchia la cattiva coscienza americana. I trogloditi divorano il corpo americano, lo squartano, lo smembrano. Poi, a salvare i superstiti sono proprio gli “eroi deboli”, quelli in apparenza destinati a soccombere (l’uomo con la stampella, il vecchio, la donna…). Soccombono i forti: lo sceriffo dalle maniere spicce, il pistolero vanitoso che ha ucciso non si sa quanti indiani («Non è un vanto» gli fa notare l’anziano vicesceriffo; «Non è un vanto, è un fatto» replica lui).

Non meraviglia che il western, genere consacrato alla celebrazione dell’epopea americana, per quanto già sottoposto a contaminazioni numerose, si mescoli qui con l’horror: l’orrore dietro l’epopea, l’uno come interfaccia dell’altra.
Analogamente, non c’è nessun Robert Redford a cambiare le cose in un carcere di massima sicurezza o a smascherare il sadismo delle guardie e del direttore. La violenza dei criminali mafiosi, oramai, nel cinema americano, quasi per definizione messicani, ha come contraltare la tolleranza dei sorveglianti corrotti, che si rovescia in violenza  contro quelli che della violenza sono vittime . Neppure loro, s’intende, del tutto innocenti, salvo la bambina che deve nascere, il cui destino sarebbe segnato in anticipo, senza il sacrificio del padre.

Forse a Zahler non interessa tanto il cosiddetto “occhio cinematografico” (per esempio, non sfrutta a fondo la trovata della croce tatuata dietro il cranio di Bradley Thomas, che magari avrebbe fatto impazzire Scorsese) ma vi supplisce con la costruzione lenta, paziente e progressiva del plot. Rispetto a quelli che altri registi hollywoodiani taglierebbero come tempi morti, ama indugiare, attardandosi, come s’è detto, su particolari apparentemente inessenziali,  né disdegna di inserire battute di sapore letterario nel bel mezzo delle scene più violente. 

Violenza calma, violenza che si prende il suo tempo, facendo a meno d’un ritmo frenetico, ma secondo un crescendo ben congegnato. Qui, se c’è un personaggio emblematico, è quello del criminale senza nome indicato solo come «the placid man» (Udo Kier). “L’uomo calmo” è forse il più sinistro di tutti, prospetta cose terribili con mostruosa indifferenza, quasi con gentilezza. “Cinema calmo” potrebbe forse essere il contraltare dello slow cinema di Paul Schrader, versione noir, ma qui la calma è foriera dell’esplosione accuratamente preparata di una violenza insostenibile, che scoppia e colpisce alla cieca. La violenza è il destino finale della calma, vi proietta sopra continuamente la sua ombra (e credo che questo valga anche per Dragged Across Concrete, che non ho visto). Mi fermo su certi dettagli insignificanti, dice Zahler, magari ci costruisco sopra delle ministorie secondarie (nella storia principale) ma aspettate, aspettate…

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