Motus, etimologicamente indica il participio passato del verbo latino movere; Motus come movimento, spinta come breccia nel buio, dislocazione continua, trasformazione. Motus, la compagnia teatrale fondata da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, si fonda su questa ricerca che è perenne spinta del corpo (scenico e attoriale) verso un altrove. Il superamento del confine sembra essere la parola chiave del lavoro di questa compagnia: l’idea di soglia perennemente messa in discussione. Panorama è il titolo della loro ultima produzione teatrale nata in stretta collaborazione con la Great Jones Repertory Company de La MaMa, teatro dell’East Village newyorkese fondato da Ellen Stewart e sembra essere il proseguo di un discorso già avviato con MDLSX attraverso il corpo androgino di Silvia Calderoni costantemente aperto e coinvolto con tutto ciò che lo attraversa.
Come già specificato dai due registi, Panorama è una parola di origine greca formata dalla radice del verbo “vedere” e dalla parola “tutto” e sulla possibilità di “vedere il più possibile. Qui lo spazio scenico diventa luogo di moltiplicazione di identità: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò infatti, hanno lavorato su sei biografie scaturite da lunghe interviste sotto forma di casting ad attori/attrici della compagnia newyorkese durante i sei mesi in cui entrambi hanno deciso di spostarsi a New York vestendo i panni di veri e propri stranieri e cioè come corpi dislocati, in movimento, Motus, appunto. Nascono interviste che sono storie di vita mai completamente definite, emigrate, perforate, continuamente in cammino, interviste che nascono tutte da un’unica domanda: Chi sei? Ci si accorge dell’evidente difficoltà di definire e quindi confinare la propria esistenza attorno ad un unico nome o confine geopolitico poiché anche la parola diventa limite contro questo io in perpetuo divenire.
Sul palcoscenico si è di fronte ad una biografia collettiva in cui l’identità risulta svelarsi nella sua non linearità perché è la contaminazione tra corpi, lingue, età, origini diverse a deframmentarla continuamente. Per questo, in Panorama, si assiste ad una vera e propria osmosi in cui la mescolanza si interseca con l’utilizzo di un dispositivo scenico caleidoscopico completamente incentrato sullo storytelling transmediale: “un processo nel quale gli elementi integrati di una narrazione vengono sistematicamente separati e diffusi tramite diversi canali di comunicazione, con lo scopo di creare una esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. Idealmente, ogni media dà un contributo unico allo sviluppo della storia“(H. Jenkins, 2006).
Il Chroma key (che permette di unire due sorgenti video su unico sfondo) come scenografia fa sì che il luogo scenico diventi un non-luogo completamente aperto all’intersezione di immagini, suoni, verità, finzioni e quindi alla moltiplicazione dei piani con schermi laterali ad offrire un ulteriore panoramica di queste vite nomadi. La tensione che si crea alla vista di tutte queste registrazioni, archivi fotografici, stralci di interviste incrociate, spezzoni cinematografici e poi video di ripresa diretta (tramite l’utilizzo sul proscenio di una piccola videocamera sorretta da un cavalletto posto dinanzi agli attori), fa sì che lo sguardo dello spettatore non riesca più a contenere tutta questa portata esistenziale costantemente rifessa e moltiplicata, costantemente in divenire tanto che gli schermi diventano dei veri e propri mezzi di fuga delle immagini.
In un certo senso Motus fa sì che contemporaneamente il teatro resti sempre quello spazio in cui i corpi si manifestano al presente, irriproducibili nel loro cangiante atto performativo ma, allo stesso tempo, fa sì che ogni corpo diventi anche - nella sua riproducibilità infinita - moltiplicazione, un divenire sempre altro, sempre nomade e cioè un corpo politico. Un teatro, politico.