Analizzando i film di Hong Sang-soo ci si rende presto conto che il suo sguardo si sofferma ad interrogarsi sempre sulla relazione che esiste tra il cinema e l’impossibile comunicazione tra uomo e donna. Sta in questo nodo la maggior parte del suo lavoro, e ad ogni film ci si accorge di una sensazione diversa, di un sentimento, di una percezione nuova, scoperchiata e ammirata come farebbe un entomologo, consapevole ad ogni film che sia immensa la gamma di scoperte ancora da fare.

Così, in On the Beach at Night Alone il punto di partenza è ancora una storia d’amore, tra la protagonista, la giovane attrice Young-hee, e un regista già sposato di cui non si saprà quasi nulla. Racconto in due parti, geograficamente distinte (la prima è ambientata ad Amburgo, la seconda nella cittadina Sudcoreana di Gangneung), con ritorni e ripetizioni cui Hong ci ha abituati da sempre, zoom e veloci movimenti di macchina che improvvisamente destabilizzano e interrompono i lenti piani sequenza, i campi lunghi, mentre si protraggono i silenzi affollati di pensieri. Il mondo offerto allo spettatore è il microcosmo della donna, minimale nella sua rappresentazione e complesso nella sostanza del sentire. L’esilio in cui vive non è solo quello reale (la fuga dallo scandalo dopo che la relazione clandestina è stata scoperta) che l’ha portata dall’altra parte del mondo, ma soprattutto quello intimo, la separazione tra se stessa e ciò che ci ostiniamo a chiamare realtà. Che non esiste nel modo in cui la percepiamo con gli occhi, ed è contraddittoria nel modo in cui ne abbiamo esperienza coi sentimenti. In questo la ricerca di Hong si compie sul doppio binario esistenziale e della riflessione sul cinema.

Come se ogni film fosse anche studio sul mistero del cinema, che impone una distanza incolmabile tra l’immagine e ciò che si vuole rappresentare, perché vedere vuol dire essere allontanati da ciò che si guarda, esiliati dall’oggetto nel nostro vedere. Lontananza che si somma a distanza e descrive nella forma del discorso filmico lo stato d’animo della protagonista, sola in Europa, sola in Corea, sola sulla spiaggia di notte, dove si addormenta e si risveglia e poi si risveglia di nuovo, nell’impossibile simmetria del suo travagliato percorso interiore. Non c’è una storia da raccontare in questo film, si può solo seguire una linea frammentata, tra una parte di pura riflessione e una di evidente confusione, dove i gesti esprimono con maggiore profondità sentimenti per cui non si trovano parole (quando Young-hee si inginocchia in una preghiera prima di attraversare un ponte nel parco di Amburgo o quando, appunto si stende sulla sabbia in ascolto). C’è qualcosa di non detto o di ambiguo rannicchiato nel divario tra le due sezioni, come un sipario sistemato nel punto sbagliato, o meglio, un irragionevole vuoto che richiama l’inizio e la fine, perché non c’è un prima o un dopo, ma solo un flusso discontinuo diviso a metà. La relazione tra le due parti del film, come ogni altra relazione in esso contenuta, resta sospesa tra mille domande e nessuna risposta. Ciò che il pubblico sperimenta come “prima” e “dopo” potrebbe essere due versioni della stessa storia o il sogno sognato dall’attrice nel suo impossibile ritorno alla realtà. Che poi, secondo Hong, non esiste una vera realtà a cui tornare.

“Lavoriamo e ci muoviamo, non credendo veramente nelle cose, semplicemente facendole automaticamente e pensandole a partire da questa falsa concezione della realtà – spiega Hong – e i nostri sentimenti la seguono perché abbiamo fatto tutte queste cose così tante volte. Semplicemente proviamo delle sensazioni, di piacere o dolore, quindi il contesto ci appare più reale. A volte, però, quando nella vita si fa esperienza di un momento poetico, si vedono le cose in modo diverso dal semplice contesto quotidiano e puoi scoprire qualcosa di completamente diverso. Puoi sentirlo, ma si tratta di una sensazione che scompare rapidamente lasciandoci al consueto stato di normalità”. Ecco dove nasce la libertà fondativa del cinema di questo straordinario regista, capace di rendere universali brandelli di autobiografia, trasformati in un reale illusorio, transitorio, filmati da uno sguardo strabico o daltonico, che manipola senza volerlo/saperlo, per restituire una sorta di illusione impossibile da conoscere, eppure poetica nella sua purezza.

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